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"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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Premessa

Premessa. La descrizione della notte, e del contrasto tra la quiete del paesaggio notturno e il tormento di un protagonista umano che, per una qualsiasi ragione, si trova in una situazione di sofferenza, è un motivo molto diffuso nella storia letteraria dell’Occidente. Non vi è dubbio che l’archetipo del motivo debba essere individuato nella letteratura greca, e precisamente nella famosa (giustamente famosa) descrizione della pace della notte che ci ha lasciato Alcmane. È però curioso che questo motivo, pervenuto alle letterature europee attraverso la mediazione della cultura latina, si sia propagato in modo persino rigoglioso, adattandosi e conformandosi ai gusti e alle rinnovate esigenze dei tempi nelle diverse stagioni letterarie, benché l’archetipo per molti secoli non fosse stato accessibile. Infatti il frammento di Alcmane non era noto prima dell’anno 1773, in cui uscì l’editio princeps del grammatico Apollonio Sofista, che cita il passo del poeta per segnalare un uso particolare (e differente da quello omerico) di due voci. Segnaleremo qui per sommi capi (perché l’argomento si presterebbe a una riflessione molto lunga) le riprese greche, latine e moderne del tema, nel tentativo di cogliere l’originalità del lirico greco e le modalità e i tratti peculiari delle diverse rielaborazioni.
 

Introduzione.

Buio e oscurità suscitano nel cuore dell’uomo inquietudine e smarrimento, o addirittura angoscia. Mentre aggettivi come luminoso, chiaro o solare richiamano l’idea della gioia, della felicità, della vita, parole come oscuro, cupo, tetro evocano immediatamente l’idea del timore o quanto meno dell’incertezza. Perché la notte è il momento in cui gli esseri viventi si riposano e ritemprano le loro forze, per essere pronti ad affrontare le fatiche di un nuovo giorno, ma è anche il momento della tenebra, quando è pericoloso muoversi perché non si vede ciò che ci sta intorno, e ciò che non si vede rende inquieti: il buio genera ombre inconsuete e strane e fa percepire presenze misteriose e forze inquietanti, che approfittano delle tenebre per esercitare il loro potere malvagio. "Col favore delle tenebre" è espressione formulare in italiano per indicare come l’esercizio di azioni criminose trovi protezione e complicità nella notte. Connesse con l’idea del buio e dell’oscurità sono le pratiche della magia (che non a caso prendono nome di occultismo), e la magia è l’antitesi della religione, è la pretesa di sottomettere e governare le forze che trascendono l’ordine naturale. Antitetica all’espressione "col favore delle tenere" è l’espressione "alla luce del sole", che allude invece ad azioni che sottendono una coscienza cristallina. Alla luce si associa un’idea rassicurante di calore e di vita, mentre al buio si associa l’idea del gelo e della morte. Per molto tempo le autopsie vennero eseguite di notte: vi sono azioni che, per quanto legittimate da valide ragioni, non si possono eseguire con la luce.
Lo studio linguistico reca traccia di tutto questo. Le tradizioni linguistiche indeuropee riconducono a un’antica parola per 'notte' la cui forma primitiva possiamo ricostruire come *nokt- o *nokti-: la parola si trova in latino (nox noctis, da cui nelle lingue romanze it. notte, franc. nuit, spagn. noche, rum. noapte), nell’area germanica (gotico nahts, ant. ingl. neaht, da cui il moderno night, ted. Nacht, sved. natt e così via), nell’area slava (ant. slavo nošti, russo noc’), nell’area baltica (lituano naktis), in albanese (natë). In area indiana e iranica la parola, che ancora sopravvive nella più vetusta documentazione, viene presto abbandonata: in sanscrito resta solamente nell’avverbio naktam 'di notte' ed è poi sostituita nell’uso comune da un termine di incerta etimologia (ratri); in iranico è sostituita da un termine (xšap- nella più antica documentazione, quella dell’Avesta, šab nel persiano moderno) che in origine dovrebbe significare 'oscurità'. Vicenda analoga in area celtica: in irlandese la parola originaria è rimasta nel composto innocht 'stanotte', mentre la parola dell’uso comune (oíche) si rifà ad altra radice. In altre lingue la parola indeuropea comune appare con varie alterazioni. In greco presenta un vocalismo aberrante (nykt-), e in alcuni composti si trova accanto alla forma normale con -kt- una forma parallela con -ch- (pannýchios 'che dura tutta la notte'). In ittita troviamo una forma nekuz il cui vocalismo è comunque problematico. Siamo di fronte a una 'tabuizzazione linguistica', fenomeno che spinge il parlante a sostituire o a deformare parole che alludono a realtà che è prudente non evocare col loro nome. A ulteriore riprova dell’antica interdizione sta il fatto che la tradizione poetica greca possiede una parola alternativa ed eufemistica per designare la notte, euphróne, che significa propriamente '(la) favorevole' (1), con un’allusione (parziale) alle sole proprietà benefiche della notte: un procedimento simile a quello che induce a designare come Eumenidi (Eumenídes), cioè 'benevole', divinità distruttive e malefiche come le Erini.
L’atteggiamento di reverenza, o addirittura di timore, con cui l’uomo primitivo si pone di fronte alla notte vale anche per l’astro che la illumina: un astro dalla luce fredda, con poteri che interferiscono sulle attività e sui sentimenti dell’uomo. Anche qui il termine più antico, connesso con la parola che significa 'mese' (perché la prima scansione del calendario si avvale delle fasi lunari), sopravvive in parte limitata del territorio (p.es. in area germanica, ingl. moon, o baltica, lituano menuo), ed è stato spesso sostituito da designazioni metaforiche che indicano nella luna l’astro luminoso (ad es. sanscrito candra, connesso con la radice di lat. candere, candidus; lat. luna, russo luna, armeno lusn, tutte formazioni tratte dalla radice per 'luce'; gr. selene da *selas-na, derivato da sélas 'splendore'). La vitalità della metafora è mostrata dal greco moderno, che ha abbandonato il termine più antico, selene, per usare un’altra parola, phengári, che comunque si rifà anch’essa all’idea del chiarore, riportandoci a phéngos 'luce, splendore', equivalente semantico di sélas.
 

(1) La parola ricorre, neppure troppo raramente, nella lingua della poesia (da Esiodo fino ai tragici) come sostituente del termine comune νύξ. Il termine poetico εὐφρόνη  è ovviamente in relazione con εὔφρων, ma le modalità della derivazione non sono quelle usuali: in εὐφρόνη si ha una formazione che appare solamente in nomi propri o in epiteti, anche di divinità: non si può fare a meno di ricordare  Ἡγεμόνη, epiteto di Artemide.

 

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