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Teocrito
e l'età ellenistica
Pur
collocato nell’ambito alessandrino e accomunato da varie importanti
caratteristiche a molti dei poetae docti suoi contemporanei, Teocrito
presenta
tratti fortemente personali nella sua produzione letteraria e, se
risente di motivi comuni alla sua epoca, quali si incontrano anche in
altre importanti figure come Callimaco o Apollonio Rodio, perviene a
una scrittura personale e ricca di suggestione. Oggi si tenta una
valorizzazione, o quanto meno una considerazione meno soffocata da
pregiudizi estetizzanti, dell’ellenismo: sarebbe utile non cadere
nell’eccesso opposto rispetto ai critici e agli studiosi precedenti, e
non fare dell’ellenismo quello che esso non è: motivi di interesse
possono darsi nello studio scientifico, nell’invenzione della
filologia, in altri settori dell’attività umana, ma non certo nella
poesia: Callimaco, Apollonio e gli altri minori possono avere per noi
tratti di interesse di natura storica o culturale, ma non possiamo
ritenere grande o sentita o partecipata la loro poesia; l’ellenismo non
fu epoca di grande creatività dal punto di vista letterario: in questo
quadro non propriamente esaltante Teocrito è uno del pochi poeti a
conservare una sua personalità poetica viva e a darci degli scritti non
puramente scolastici o letterari nel senso deteriore del termino.
Teocrito è poeta che tuttora noi leggiamo con piacere o con interesse.
Già
da un punto di vista formale Teocrito si presenta con tratti di
originalità e di novità: la sua raccolta comprende una trentina di
idilli, su alcuni del quali pende però un giudizio di incertezza (che
per la verità molto spesso muove da argomenti molto discutibili o
estremamente soggettivi) circa la paternità. Il termine di idillio, che
verrà poi ripreso in letteratura con significati molto diversi,
significa semplicemente piccolo componimento; è difficile dire se già
Teocrito diede questo titolo o questo nome ai suoi componimenti: certo
il termine idillio s’incontra per la prima volta solo in una lettera di
Plinio a Paterno (IV xiv), in cui, dedicando una piccola raccol:ta di
endecasillabi all’amico, l’autore afferma tra l’altro: "sive
epigrammata sive idyllia sive eclogas sive, ut multi, poematia seu quod
aliud vocare volueris, licebit voces: ego tantum hendecasyllabos praesto".
Dal che risulta sia che il termine idyllion non
ricopriva in tutti i suoi valori quello di ecloga sia che la
terminologia era allora estremamente fluttuante e l’idillio non si
presentava ancora con caratteri fortemente individuati, tali da
distinguerlo con sicurezza da altri tipi di brevi componimenti in metro
vario. Quanto poi Teocrito, nel creare o quanto meno nel diffondere e
precisare questo genere nuovo di poesia, sia debitore a Sofrone e al
mimo siceliota, è difficile precisare; dal mimo siceliota poté assumere
l’amore per la forma dialogica, ad esempio; ma è probabile che
l’insieme dei caratteri che contraddistinguono l’idillio teocriteo da
altri generi poetici siano dovuti allo stesso Teocrito.
Dei
carmi pervenuti sotto il nome di Teocrito, solamente un terzo sono di
ambientazione pastorale, e proprio a questi il poeta dovette poi, per
il tramite di Virgilio, la sua fama nell’occidente latino (ma è
notevole che Virgilio trasferisca in ambiente pastorale anche
componimenti che in origine non lo erano: si veda l’VIII ecloga
virgiliana rispetto alla sua fonte, costituita principalmente dal II
idillio teocriteo, Le incantatrici). Anche l’invenzione della
"musa bucolica" sembra dovuta a Teocrito stesso: la letteratura greca
non sembra avere precedenti di rilievo; si è voluto cercare in oriente
la fonte di questo genere letterario, ma con scarsa fortuna; anche
l’ipotesi che all’origine della poesia bucolica stia il travestimento
di motivi religiosi, per cui i "boukoloi" sarebbero in realtà gli
adepti di qualche loggia segreta, ha basi assai poco convincenti. È
piuttosto utile dire che l’ambiente ellenistico proponeva una serie di
motivazioni storiche e culturali che potevano favorire il
vagheggiamento pastorale teocriteo. Non dobbiamo dimenticare che
l’ellenismo vede la nascita delle megalopoli, immense distese di case,
costruite spesso secondo piani accuratamente predisposti e seguendo
talora l’insegnamento di Ippodamo di
Mileto:
l’esito era una pianta in cui le vie si intersecavano sistematicamente
ad angolo retto, creando così delle prospettive sostanzialmente
monotone, in cui solamente il centro della città, con la presenza di
edifici religiosi o pubblici monumentali, dava qualche carattere di
movimento; certo era stridente il contrasto tra questi nuovi
agglomerati impersonali, ricchi di traffico e di rumore (si veda
l’idillio XV, Le Siracusane), e la vecchia polis,
costruita e cresciuta disordinatamente ma a misura d’uomo, in cui i
rapporti interpersonali erano più ricchi e vivi. In questo contesto
poteva facilmente nascere l’ideale, poi più volte ripreso anche in tono
letterario, della superiorità della campagna; i presupposti da cui
Teocrito muove non son o artificiosamente costruiti: e non si
dimentichi che in vari idilli lo stesso poeta mette in luce i difetti
della città. D’altronde tale tema, di per sé incline a far scivolare
nel retorico o nel sentimentale, è trattato dal poeta con tratti molto
sobri: in questo egli è aiutato da quella robusta tendenza al realismo,
che costituisce un altro dei tratti salienti dell’alessandrinismo.
Naturalmente, eliminato ogni possibile richiamo ai presupposti, di
ordine più sociale che letterario, che hanno dato vita al realismo otto
e novecentesco, dovremo vedere nel realismo alessandrino la tendenza
sia a imitare i momenti e gli stati d’animo di un’umanità più comune e
di una quotidianità più dimessa (e si tratterà sempre di imitazione
dotta, mirante cioè a mostrare l’abilità del poeta alla riproduzione
sapiente della realtà) sia ad accentuare lo studio del patetico: la
letteratura alessandrina varia dai colloqui intrisi di oscenità di
Eronda alla descrizione attenta e minuta dei tormenti amorosi di Medea,
così come la statuaria varia dalla Vecchia addormentata e dal Bambino che ammazza l’oca alle tragiche
maschere del Laocoonte.
È
merito di Teocrito il non aver quasi mai ecceduto né verso l’uno né
verso l’altro estremo. Un correttivo da entrambi gli eccessi poteva
essere costituito, in questo caso, dal carattere dotto che la poesia
alessandrina ha: carattere che porta altri poeti ad esagerazioni tali
da rendere faticosa la lettura delle loro opere, non solo per le
generazioni moderne ma anche per i contemporanei, e che invece in
Teocrito è utile per evitare sciatterie di qualunque genere: i suoi
pastori, pur rappresentati al di fuori di qualsiasi idealizzazione,
parlano un linguaggio che risente di termini omerici o che risulta
intriso di accenni mitologici difficili ed oscuri, senza che però il
poeta si lasci prendere la mano neppure in questo senso. Basti leggere
la descrizione della campagna nelle Talisie
(VII
135 segg.), un componimento dal tono nettamente autobiografico: la
visione del poeta è sicuramente positiva: egli vede nella campagna e
nella natura qualcosa di positivo e di bello, ma la contemplazione è
sobria e fatta con accenti di acuta precisione, con accuratezza di
particolari.
Due
sono i temi che più diffusamente emergono nella poesia teocritea, non
solo pastorale. Il primo motivo è quello amoroso: il sentimento
dell’amore è rappresentato in una serie quanto mai varia di
sfaccettature, dall’affanno che non dà tregua (si veda il II idillio,
in cui il poeta, descrivendo il turbamento della donna che per la prima
volta si trova di fronte il suo innamorato, scrive dei versi che
possono stare alla pari di certi frammenti di. Saffo) alla gioia (si
veda il XII Idillio, in cui l’inizio riprende palesemente un verso di
Saffo: "sei venuto, caro fanciullo, con la terza notte ed aurora, sei
venuto: ma quelli che desiderano invecchiano in un giorno: quanto la
primavera dell’inverno, quanto la mela della prugna selvatica è più
dolce, quanto la pecora più villosa della sua agnella, quanto una
vergine preferibile a una donna che si sia maritata tre volte, quanto
più veloce del vitello è il cerbiatto, quanto l’usignolo dalla voce
arguta è più canoro di tutti gli uccelli, tanto mi rallegrasti
apparendo: ed io fui come un viandante che corre sotto l’ombrosa
quercia quando il sole brucia"). Talora abbiamo certa convenzionalità,
che risente di modi abituali nell’alessandrinismo per descrivere
l’amore: si veda l’id. XXVII (se è veramente di Teocrito), un contrasto
tra la pastorella e Dafni: dopo il rifiuto iniziale, la donna si mostra
sempre più propensa ad accettare le profferte di Dafne, e dopo essersi
adeguatamente informata sui suoi averi e su ciò che è in grado di
offrirle cede, apparentemente di malavoglia ma lieta in cuor suo, la
sua verginità: qualche punto del dialogo riporta alla mente certi
contrasti medioevali, come quello di Cielo d'Alcamo. Ma altre volte
abbiamo spunti veramente di alta poesia, come nel XIII idillio, Ila,
ove l’autore riprende un tema caro alla poesia alessandrina, che venne
trattato anche da Apollonio Rodio nel prima libro delle Argonautiche:
la vicenda del pastore rapito dalle ninfe e del dolore che prova Eracle
vedendosi sottratto l’amante propone alcuni accenti che mostrano un
modo non superficiale o banalmente patetico di affrontare il tema: e la
possibilità di cadere nell’accentuazione sentimentale è abilmente
evitata con la chiusa ironica del componimento: tutto preso dal suo
dolore, Eracle perde la nave e deve recarsi nella Colchide a piedi, e
lì incontra i compagni di viaggio che già lo ritenevano un disertore.
Si passa con facilità dall’osceno al barocco: nel XXIII idillio, L’amante,
un giovane s’impicca davanti alla casa dell’amato che non corrisponde
al suo sentimento: questi, uscendo di casa, neppure degna di uno
sguardo il suo cadavere; ma nel momento in cui si reca in piscina per i
suoi quotidiani esercizi, una statua di Eros si stacca dal piedestallo
e lo urta uccidendolo a compiendo così la vendetta per questo suo
disprezzo dell’amore. Altre volte prevale una vena di sottile e
gradevole ironia come nell'XI idillio, Il Ciclope, ove
il personaggio mitico illustra a Galatea i suoi beni, cercando di
vantare la condizione di agiatezza in cui si trova e di valorizzare il
suo aspetto fisico, non del tutto spregevole nonostante l’unico occhio
sovrastato da un sopracciglio villoso; o nel X idillio, I
mietitori,
in cui il poeta crea un contralto tra il lirismo appassionato di Buceo,
che effonde con accenti intensi il suo recente amore, e il tono rude e
spicciativo di Milone, che non ritiene utile e produttivo perdere tempo
e fatica dietro queste cose.
I
pastori teocritei, si è detto, non sono idealizzati: e uno di loro può
esprimere il proprio rammarico perché l’innamorata lo evita per il suo
odorare di capra; anche la descrizione dei luoghi è fatta per la
maggior parte su ambienti reali, ed un elemento di ulteriore
verosimiglianza è dato dall'ambientazione di molti componimenti in
Sicilia ovvero (come nelle Talisie) in luoghi nei quali è
stato. La descrizione delle donne è fatta con accenti realistici, non
privi in certi casi di esagerazioni ironiche (si veda come il Ciclope
descrive la sua amata Galatea: "più pettoruta di una vitella, più
fresca dell’uva acerba"). Anche la morale e l’atteggiamento sono
improntati a spontaneità: dal pastore che afferma non importargli nulla
del giudizio negativo che altri dà della sua donna (troppo magra,
troppo pallida, a sentire la gente) al consiglio che un altro pastore
dà all’amico di non deprimersi troppo per le pene d’amore (domani andrà
meglio; solo per i morti non c’è speranza). Può essere esemplare il XXI
idillio I pescatori, in cui realismo (la descrizione iniziale
della misera e faticosa vita di queste persone), contemplazione (la
descrizione del sogno di ricchezza che uno dei due ha fatto) e ironia
(nella battuta conclusiva ispirata a sano e spiccio buon senso) si
mescolano in un insieme di piacevole lettura.
Il
secondo tema è dato dal canto: la poesia che può risollevare l’animo
abbattuto dalla sventura o dall’amore respinto. Il riferimento a questo
tema, che trova non solo nell’ambiente alessandrino ma anche in tutta
la tradizione precedente materiale a cui rifarsi, è molto ampio. Capaci
di canto e poesia sono i pastori, e più di una volta il poeta ci fa
assistere ai loro canti amebei (come nell'idillio IX I Cantori), conclusi spesso da un reciproco scambio di
doni, o inquadrati in una
competizione, che vede un vincitore e un vinto. L’idillio XV termina
con un canto festoso e partecipato, di fronte al quale le due donne
siracusane protagoniste dell’idillio rimangono rapite ed estatiche.
Anche Polifemo afferma che il canto è l’unico rimedio per placare la
sua passione senza speranza.
In
Grecia, la poesia pastorale fu forse inventata da Teocrito e con
Teocrito stesso si identifica sostanzialmente. Chi altri tentò questo
genere non seppe elevarsi da un tono ripetitivo e piattamente
scolastico. Poco rimane degli altri poeti bucolici, come Mosco e
Bione; l’imitazione o traduzione leopardiana non è
elemento sufficiente per documentarne l'autenticità poetica.
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