"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Siracusa, giugno 2010
a cura di Consuelo Cristofori
AIACE, DI SOFOCLE
Era chiamato dagli antichi Αἴας μαστιγοφόρος, poiché compariva nella prima scena con la frusta in mano.
PREMESSA
Il teatro greco, come quello di Siracusa, Taormina od Epidauro, resta a mio parere la sede più adatta per la rappresentazione degli antichi drammi, non solo per ragioni storiche, ma anche perché in realtà lo spazio teatrale antico era predisposto per contenere un Coro di 12-15 coreuti, nonché i tre personaggi che potevano recitare insieme. Lo spazio era adeguato, consentiva movimenti, danze e canti, quali difficilmente i nostri teatri sette-ottocenteschi possono ospitare; l’acustica era rigorosamente basata sulle leggi della fisica, note od ignote che fossero, talché non servivano microfoni, come a noi, ma da ogni punto si vedeva ed udiva benissimo.
L’esperienza di questi due giorni a Siracusa è stata a dir poco emozionante: posto che l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) esiste e lavora da quasi cento anni, mi chiedo perché ci si rechi lì così di rado! A che scopo viaggiare per mezza Europa, se poi non si assiste a fatti di tanta bellezza, e di tanta perizia professionale, qui in casa nostra?
OPERA
Il personaggio di Aiace, recitato in modo perfetto da Maurizio Donadoni, rivela la sua grandezza di soldato e di valoroso, ma nello stesso tempo di uomo inflessibile, che non sa piegarsi al cambiamento della situazione, non vede ῥυθμός della vita, mutevole e vario. Questo aspetto, che i Greci avevano presente in maniera quasi spasmodica, è invece compreso perfettamente da Odisseo, nel dialogo con Atena, del prologo (“Vedo rispecchiata la sua sorte nella mia”, frase che però il traduttore, Guido Paduano, ha un po’ banalizzato – come altre –, togliendole la forza espressiva che Sofocle vi aveva posto).
Aiace ci appare come un uomo che vive in un tempo ed in momento “sbagliato”, e non si rende conto del suo limite; non riesce ad adattarsi al cambiamento. Così si uccide, non vedendo altra soluzione, vittima di questa sua concezione della τιμή, diventata ormai lo scopo unico della sua vita.
E invece, dicevamo io ed i miei colleghi, lui non doveva uccidersi! Perché infine la sua morte fa torto a tutti: Tecmessa ed Eurisace restano abbandonati, – lei poi non è nemmeno una moglie legittima, – il fratello Teucro, il νόθος, resta in balia dell’ira di Telamone (dice Teucro: “… lui che non sorride neanche nelle situazioni più favorevoli … come mi accoglierà? Certo mi scaccerà in esilio, perché non ho saputo proteggere il fratello …”). La vecchia madre resterà priva dell’unico figlio, il Sole la vedrà piangere per le strade di Salamina. L’equipaggio dei suoi marinai è già spaventato, pensa alla fuga, vedendo la sua pazzia: alla morte di Aiace, resta privo di una guida, del suo capo, ed in balia dell’odio degli Atridi. Se Ulisse non intervenisse in una inaspettata e persuasiva difesa, tutto sarebbe perduto, Aiace non avrebbe nemmeno una tomba (tema caro a Sofocle, vedere “Antigone”).
SCENOGRAFIA
La scena, come si evince dalle foto, è data da un laghetto, a sinistra, con una nave (il mare di fronte a Troia, dove è ancorata la flotta greca, e pure la nave di Aiace). Nel centro, un grande “scatolone”, che raffigura la tenda di Aiace e Tecmessa, il quale poi si apre, rivelando l’interno della tenda, cioè un’incastellatura da cui pende un montone ucciso; altri animali a terra.
L’eroe si uccide non sulla riva del mare, dietro un cespuglio, ma sopra l’incastellatura, penso per far vedere meglio la scena cruciale agli spettatori.
Il Coro dei marinai ed i vari personaggi vanno e vengono attraverso l’acqua e la nave. Tecmessa è pure rappresentata molto bene da Elisabetta Pozzi, e Teucro da Giacinto Palmarini.
I costumi sono pure molto belli, anche se semplici, data la trama dell’opera.
HIPPOLYTOS STEPHANEPHOROS, DI EURIPIDE
Molto ricchi ed eleganti gli abiti del Coro dell’altra tragedia, l’”Ippolito”, che però è stata ribattezzata “Fedra” per incomprensibili motivi, e tradotta in modo terrificante e pressoché incomprensibile da Edoardo Sanguineti. E’ stato veramente un peccato, la rovina di un testo bellissimo e famoso. Tuttavia bisogna dire che il giovane attore Massimo Nicolini, non a caso premiato la penultima sera, è riuscito a fare del suo Ippolito il personaggio che davvero Euripide aveva voluto e descritto, cioè un ragazzo giovane, affascinante ed ambito dalle ragazze di Trezene, coraggioso e semplice, inesperto di ogni limite nel suo amore per Artemide, vittima di una divinità maligna e vendicativa (Afrodite), figlio buono ed affettuoso, leale fino alla morte, pur di non tradire il suo giuramento. In sintesi, questa messa in scena dimostra proprio il contrario di ciò che vorrebbe dire lo scambio del nome nel titolo, e cioè che per Euripide il vero protagonista è lui, Ippolito, non Fedra. Se mai, saranno Seneca, Racine, e gli altri poeti successivi a rendere protagonista Fedra: ma per il greco non era così.
Seneca aveva i suoi buoni motivi per accentrare la trama su Fedra (il furor, la mancanza di λόγος od ἀλογία), e forse nessuno condivideva più la conoscenza e l’importanza del topos antico del “casto insidiato” (Bellerofonte, il Giuseppe biblico, Ippolito stesso: perdendo di vista un valore, se ne perdono anche le conseguenze, vedi l’amore reciproco di Dio e dell’uomo e la conseguente castità dei tre giovani nei tre casi esposti).
Piccola galleria fotografica.
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