La terminologia
per ‘popolo’ in greco
di Moreno Morani
(da Zetesis 1/1994, con
piccole modifiche e aggiornamenti)
1. La
terminologia indoeuropea per popolo
La
rappresentazione della situazione sociale dell’uomo indoeuropeo,
ampiamente
elaborata da Benveniste nel suo ormai classico Vocabolario
delle istituzioni indoeuropee, per quanto non esente da
critiche, può essere assunta come ideale punto di partenza:
nel
quadro tracciato da Benveniste emerge, nel periodo più antico a cui la
ricostruzione linguistica ci porta, l’assenza di un termine specifico
per l’idea
di popolo, inteso come entità sociale che abbraccia più tribù, che si
estende a
un ambito territoriale più vasto e che soprattutto si riconosce come
depositario di valori comuni per tradizione, lingua e religione.
Va
detto preliminarmente che si possono muovere allo schema del Benveniste
obiezioni metodologiche di due ordini: l’aver spesso valorizzato in
modo
eccessivo, sia qui sia in altre occasioni, la situazione iranica,
considerando
questa come la più conservativa e proiettandone pertanto molte
caratteristiche
salienti al periodo più antico (a questa tentazione il Benveniste era
facilmente esposto perché la sua specializzazione linguistica lo
portava verso
il mondo iranico) e l’aver sintetizzato una serie di realtà e di
fattori
estremamente complessi in uno schema che ad un’attenta lettura risulta
un po’
angusto. Il suo vocabolario delle istituzioni indoeuropee poggia su due
premesse che parrebbero, almeno da un punto di vista logico,
indiscutibili: la
presunzione di una relativa unità linguistica indoeuropea porta a
presumere l’esistenza
di una relativa unità etnica; l’esistenza di una relativa unità etnica
a sua
volta comporta l’esistenza di un mondo culturale entro certi limiti
comune. Ma
l’esperienza linguistica più recente ci ha messo in guardia dalla
pretesa di
voler a tutti costi ricostruire un indoeuropeo unitario e monolitico,
sia
perché in molte circostanze presumere di ridurre ad unità sistemi
linguistici
diversissimi come possono essere quelli, poniamo, dell’ittita o del
lituano,
risulterebbe impossibile, sia perché in ogni lingua esistono differenze
legate
a ragioni geografiche e sociali:
così
a maggior ragione la possibilità di ricostruire una cultura primitiva
indoeuropea,
rappresentabile in modo sincronico, deve essere assunta con estrema
cautela. In
una totale assenza di testi e di documentazione diretta, ciò che noi
sappiamo e
possiamo dire degli Indoeuropei è assai poco, e anche quel poco non è
esente da
dubbi e incertezze. Il fatto che un determinato elemento si presenti in
una o
più culture di etnie parlanti lingue indoeuropee non permette
necessariamente
di definire questo elemento né come patrimonio comune di tutte le tribù
parlanti lingue indoeuropee né come elemento che contrappone una
cultura indoeuropea
primitiva di fronte ad altre culture non indoeuropee.
Ed è comunque significativo che, come
vedremo, partendo da presupposti diversi altri studiosi arrivino a
postulare
uno schema sensibilmente diverso dei cerchi d’appartenenza. Il
carattere di
questo scritto non ci permette di entrare in ulteriori particolari: ci
limitiamo a segnalare al lettore un principio importante: il parlare di
"istituzioni" indoeuropee non deve far pensare all’esistenza nella
fase più antica di un’entità statale organizzata e stabile, come poteva
essere
per esempio la Roma repubblicana: nel periodo a cui la ricostruzione
etnico-linguistica ci porta abbiamo piuttosto a che fare con una serie
di tribù
nomadi o seminomadi, rimaste spesso prive di contatti fra loro per
lunghi
periodi: più che a organizzazioni politiche già solide e strutturate,
come
quella romana o ateniese o altro ancora, si dovrà pensare alla Gallia
antica,
quale è descritta da Cesare: un insieme di tribù diverse, ciascuna con
istituzioni e regole autonome, spesso in situazione conflittuale o in
stato di
guerra più o meno latente, che hanno rapporti frammentari e
circoscritti a un
incontro annuale: è più che probabile che nel mondo indoeuropeo
mancasse anche
quest’ultimo aspetto. In conclusione, quando si passa dal piano
linguistico a
quello culturale, si dovrà fare appello alla massima prudenza: le
nostre
conoscenze di "cultura" indoeuropea sono tutte ipotetiche e lacunose.
Precisiamo
tuttavia che questo invito alla cautela, più che il Vocabolario
benvenistiano, nel quale il materiale è comunque sempre
trattato con molta chiarezza e col dovuto equilibrio, induce piuttosto
ad
accogliere con molto senso critico le conclusioni che si leggono negli
scritti
di alcuni epigoni della linea interpretativa Dumézil-Benveniste: basta
leggere
una sintesi come quella di J. Haudry (Les
Indo-Européens), collocata per di più in una collana di grande
prestigio e
larghissima diffusione come il "Que sais-je?" delle Presses
Universitaires de France, per constatare a quali spericolate acrobazie
porti l’aver
trascurato queste semplici e doverose precisazioni metodologiche: una
volta
individuato in una determinata caratteristica sociale o culturale un
retaggio
dell’originario patrimonio comune, si cerca di far combaciare la
struttura
culturale o sociale delle varie tradizioni indoeuropee allo schema che
si è
proposto (e talora imposto) come originario, con forzature
interpretative
talora evidenti e con un generale appiattimento di prospettiva.
Seguendo
dunque il Benveniste i quattro cerchi dell’appartenenza sociale secondo
la
terminologia antico-iranica (avestica) comprendono:
la
casa: dam-, dǝma-na-, nma-na-;
il
clan: vi-s-
la
tribù (l’insieme di quelli che hanno la stessa nascita): zantu;
il
paese (dahyu).
Ciascuna
di queste entità sociali era presieduta da un capo, il cui appellativo
era
costituito dal nome del cerchio seguito dalla parola significante
‘signore’, in
avestico paiti- (dall’indoeuropeo *poti-
che si ritrova, con valori un po’
diversi, nel gr. πόσις e nel ποξο usato lat. pote):
pertanto dma-napaiti, vi-spaiti, zantupaiti, dahyupaiti.
Giacomο
Devoto, il grande linguista che nelle sue Origini
indoeuropee ha tentato di conciliare e coordinare i dati
dell’archeologia e
della linguistica,
muovendo da presupposti differenti perviene a una visione sensibilmente
diversa
da quella di Benveniste. Il Devoto riconosce nel periodo più antico due
grandi
cerchi: quello della casa e quello del villaggio; il primo trova una
duplice
espressione nei diversi derivati della radice *ĝen-
(quella di gignere e
di γένος) e *dem- (quella di domus, ma
anche di indoeur ‘costruire’):
le due serie mirano a rappresentare la famiglia patriarcale come
cellula
sociale primaria, cogliendo da una parte l’aspetto della discendenza
comune e
dei legami (di sangue o per acquisizione), dall’altra l’organizzazione
economica.
Più
a monte della famiglia sta il *weiḱ‑, "aggregato superiore alla
famiglia", molteplicità di abitati.
La
terminologia iranica è sicuramente arcaica: lo prova il ricorrere, in
altre
tradizioni indoeuropee ove sia l’organizzazione sia la terminologia
antica è
stata abbandonata e sostituita da modelli diversi, talvolta anche
profondamente
diversi, di termini in tutto o in parte analoghi a quelli testé
elencati,
conservati come relitti che il parlante non è in grado di analizzare:
tale è ad
esempio il caso di gr. δεσπότης, nel quale è impossibile per chi non
abbia
solide competenze linguistiche e possibilità di accedere a tradizioni
linguistiche diverse da quella greca riconoscere la presenza della
radice di δόμος
nella
prima parte e di un corradicale di πότις
nella
seconda. Fatto singolare, la terminologia iranica comprende, per
designare il
cerchio d’appartenenza più vasto, un termine di origine oscura e
sicuramente
non indoeuropea (dahyu-) e, fatto
altrettanto singolare, il termine indiano linguisticamente
corrispondente, dasyu-, è utilizzato per indicare lo
straniero, potenzialmente nemico.
Si
può tentare di spiegare quest’apparente contraddizione: sembra che nel
periodo
più antico la coscienza dell’appartenenza si limitasse a cerchi molto
ristretti, che non esorbitavano dall’ambito del villaggio o del gruppo
di
villaggi: viceversa l’organizzazione sociopolitica iranica ha accolto
nell’ambito
della propria struttura terre e popolazioni originariamente considerate
lontane: da qui il rovesciamento di valore di un termine che all’inizio
doveva
avere valenza prevalentemente negativa.
Ancora,
la terminologia iranica studiata da Benveniste non è immediatamente
sovrapponibile con la terminologia delle lingue classiche, ove il
secondo
termine o è divenuto un sinonimo del primo (l’uso greco non distingue
oἶκος da δόμος)
o ha
comunque assunto un senso lontano da quello originario (lat. vī-cus) e si sono introdotti termini
nuovi come il gr. φυλή e il lat. tribus.
In entrambe queste ultime parole compare la radice *bhū-
‘esistere, essere’: il termine latino inoltre comprende nella
sua prima parte un corradicale del numerale per ‘tre’: tribus
è quindi ‘la terza parte’ della popolazione, e il verbo
che
ne deriva, tribuere, vale
originariamente ‘ripartire per tre’.
Quanto all’iranico zantu, esso
proviene dalla radice *ĝen- (quella,
per intendersi, di γίγνομαι, gignō, nāscor,
ecc.) con una suffissazione in -tu:
in latino troviamo un termine corradicale, ma formato con diverso
suffisso, gēns (<ĝen-ti-),
a designare un
gruppo sociale che rivendica un’origine comune; contenuti semantici in
parte
analoghi ha il gr. γένος, anch’esso derivato dalla stessa radice, ma
con
formazione ancora diversa (appartiene infatti ai temi in -s).
Specifico del latino, e di origine oscura (e giunto al latino
probabilmente per intermediazione osca), è infine il termine familia, usato in origine per indicare l’insieme
dei servitori che abitavano sotto lo stesso tetto, passato poi a
designare una
porzione più piccola della gens e
caricato di contenuti giuridici molto definiti e tecnicamente ben
precisati.
Qualche
indicazione interessante ci viene dall’esame di un passo vedico (RgVeda 5, 85, 7), in cui si enumerano i
vari tipi di legami che intercorrono fra gli esseri umani: poiché
l’enumerazione
comincia dal rapporto meno stretto per giungere attraverso vari
passaggi al più
stretto, abbiamo innanzitutto l’uomo a cui sei legato per ospitalità (aryamyá-) e l’uomo a cui sei legato per
contratto (mitryá-): in questi due
primi casi parrebbe trattarsi di relazioni occasionali che non
provengono dalla
comune appartenenza a un nucleo definito, bensì sono determinati da
circostanze
esterne; vengono enumerati successivamente l’uomo della tribù (sákhi-), il fratello, l’uomo del
villaggio o del clan (veśa-). Il
passo, peraltro di interpretazione non chiarissima, mostra che già nel
periodo
più antico il senso dell’appartenenza a corpi sociali sempre più
ristretti era
organizzato secondo modalità diverse anche in zone territorialmente
contigue e
legate da affinità linguistico-culturali solidissime come erano l’India
e l’Iran:
nello stesso tempo il senso dell’appartenenza a un’entità sociale
assimilabile
al popolo ancora non compare, mentre si pongono tipi di legame che non
sono
fondati su legami di sangue o sul riconoscimento di valori comuni
(l’ospitalità;
il contratto). Si è voluto da parte di alcuni intendere aryamyá
come ‘uomo del popolo’: aryamyá è un
termine che non compare altrove nella letteratura
indiana e che si
rifà al nome di una divinità, Aryaman, legata al culto di Mitra e di
Varuṇa.
Secondo alcuni studiosi dunque il suo nome conterrebbe nella prima
parte una
delle designazioni con cui le tribù indoeuropee (o, meglio, alcune
tribù indoeuropee)
designavano sé stesse, vale a dire *aryo-,
termine rimasto vivo e vitale soprattutto nella zona più orientale del
territorio indoeuropeo, e sopravvissuto fino ad oggi nel senso
originario nel
termine Īrān, propriamente genitivo
plurale ‘(la terra) degli arii’. In realtà è più probabile che il nome
di
Aryaman sia da collegare con un’altra voce vedica, arí-,
che indica l’altro, l’esterno: il nome degli Ari e questo
vocabolo, nonostante gli sforzi interpretativi degli studiosi a cui
abbiamo
accennato, non avrebbero nulla in comune fra di loro, se, come sembra
opportuno
e come fanno i lessici etimologici indoeuropei, si fa risalire il nome
degli
Arii a un *ar- primitivo e ari- a un *al- primitivo, corradicale dell’*alyo-
che sta alla base del lat. alius, del gr.ἄλλος,
dell’arm. ayl.
In tale caso, le due serie sono completamente estranee l’una all’altra,
e il
tentativo di collegare il concetto di "appartenente al popolo" e di
"estraneo al popolo" come due facce di un’unica realtà appare
nient’altro
che un’esercitazione ermeneutica fine a sé stessa e difficilmente
condivisibile. In ogni modo, il fatto
che al secondo posto dell’enumerazione sia collocato il mitrya-,
cioè l’amico definito come tale per via di un accordo, fa
concludere che il legame che fa capo ad Aryaman sia ancora più vago.
Piú
che le somiglianze dunque, dall’esame del passo vedico emergono in
realtà le
differenze fra questo modello di organizzazione e quello presente in
altre
società.
In
latino gēns è venuto ad
occupare lo spazio costituito
originariamente dal secondo e terzo cerchio: infatti la gēns è costituita
da un insieme di famiglie che può fare capo a un progenitore comune
come in
ambiente indo-iranico il viś-: ad
esempio in un inno vedico (RgVeda
10, 135, 1) il dio della morte Yama è descritto nell’atto di bere la
bevanda
rituale del soma presso un albero dalle belle foglie insieme con il
"nostro padre signore del viś-".
In greco, oltre alla coincidenza, già notata, che si è venuta a creare
fra δόμος
e οἶκος si ha uno spostamento di valore dell’antico termine indicante
il
fratello: se nel periodo più antico la parola sottolineava un legame di
sangue
diretto e immediato, il termine viene a indicare nell’organizzazione
greca un
legame di natura prettamente giuridico-religiosa:
occorrono trenta γένη per costituire una fratria, e tre fratrie per
costituire
una φυλή. Questa perdita di valore del legame familiare, e l’assunzione
in
φράτωρ di un valore sensibilmente diverso da quello originario
(conservatosi in
tutte le altre tradizioni indoeuropee esclusa la greca) non stupisce
più di
tanto, se si ricorda che anche nell’inno vedico segnalato in precedenza
il
fratello viene al penultimo posto dell’enumerazione, seguito dal veśa, dal ‘vicino’ (in un significato
che, sia pure in contesto sensibilmente diverso, potrebbe essere messo
a
confronto col ‘prossimo’ biblico).
Per
tornare al Benveniste, la sua conclusione
è
che "non esiste un termine che, da un punto all’altro del mondo
indoeuropeo, designi la società organizzata ... Di fatti, vi sono dei
termini,
delle serie di termini, che coprono la distesa di una divisione
territoriale e
sociale di dimensioni variabili". Anche secondo Devoto "mentre la
terminologia della gente, della famiglia, della Sippe fa parte
del
vocabolario compatto ... quella del popolo è molto più travagliata".
Le
stesse difficoltà erano già state avvertite, parecchi anni prima, da
Schrader,
che aveva tentato di sintetizzare in un repertorio alfabetico le
conoscenze
dell’epoca relative al mondo indoeuropeo: anche Schrader perviene alla
conclusione che non vi siano un termine comune per ‘popolo’.
In
realtà, se è abbastanza facile recuperare dei termini che si possono
qualificare come antichi ed estesi a un numero abbastanza vasto di
dialetti indoeuropei,
è poi difficile caricare di contenuto semantico tali termini. Il metodo
di
ricerca cosiddetto lessicale, che si accontenta di ricostruire la forma
esterna
delle parole, ci permette di recuperare una mole notevole di materiale,
ma non
ci fa sapere la natura delle reciproche interconnessioni che legavano i
diversi
segni linguistici ricostruiti: d’altro canto il metodo cosiddetto
testuale, che
cerca di ricostruire le grandi linee della cultura primitiva facendo
leva sui
testi più antichi e presumibilmente più legati a un mondo concettuale e
ideale
arcaico, ci pone di fronte a documenti che appartengono a una fase in
cui le
diverse tradizioni indoeuropee sono approdate a organizzazioni sociali
e
politiche fortemente individualizzate e necessariamente lontane da
quella
primitiva.
Pur
ribadendo dunque l’opportunità di usare grande cautela nella
valutazione dei
dati, si possono isolare due termini (o due serie di termini) la cui
analisi
porta a risultati sufficientemente chiari.
Il
primo termine è *teutā. Esso ricorre
nelle seguenti aree linguistiche:
illirico:
nomi propri Teutana, Teuticus, Tεύτα,
ecc.
trace:
nome proprio Tauto-medes;
italico:
osco touto, umbro totam (acc. sing.);
celtico:
gallico Teutates (< *Teuto-tatis ‘padre della regione’); irland. túath;
cimrico tu-d; ecc.;
germanico:
got. þiuda, ant. alt. ted. diota,
ant.ingl. ðéod, ant.nord. þjóð; con
suffisso in nasale got. þiudans ‘re’
(propriamente ‘signore del þiuda’:
con lo stesso rapporto che intercorre fra domus
e dominus); con suffisso -sko- in ant.
alto ted. l’aggettivo diutisc (propr. ‘appartenente
al popolo,
popolare’), da cui il moderno deutsch;
baltico:
lettone tàuta, ant.pruss. tauto
‘territorio’, ant. litυano tautà.
Il
termine viene ricondotto alla radice indoeuropea *teu-ǝ- che vale ‘essere
gonfio, forte, potente’: ne derivano, tra innumerevoli altre, le voci
latine tumidus e tōtus: l’idea
fondamentale è quindi quella del potere o della
totalità.
Una
seconda serie di voci fa capo, in modo più o meno diretto, alla radice *pel-(ǝ)-
‘riempire’, quella di lat. plē-nus,
gr. πλήρης, got. fulls, russo polnyj,
e così via. Abbiamo:
gr.
πλῆθος (ion. πληθύς);
lat.
plē-bs
o plē-bē-s;
germanico:
ant.alto ted. folc (mod. Volk),
ant.ingl. folc;
ant.
slavo plěme ‘gruppo sociale compatto’.
A
questa serie apparterrebbero anche, secondo alcuni studiosi, alcuni
termini
indicanti la ‘città’ (o più verosimilmente, in epoca antica, la
fortezza o il
castello) come l’ant. ind. pu-r, il
gr. πόλις, il lit. pílis, ma la
connessione, benché teoricamente possibile, non può ritenersi del tutto
acquisita.
Infine,
un termine territorialmente meno diffuso designa il popolo come
l’insieme dei
liberi e compare nelle seguenti aree:
germanico:
ant. alto ted. liut, ant. ingl. léode;
slavo:
ant.slavo ljudĭje, ecc.
baltico:
lit. liáudis.
Anche
queste voci si riconnettono a una radice verbale indicante la forza o,
più
precisamente, la crescita (ant.ind. ródhati
o róhati ᾿egli cresce’; got. liudan
‘crescere’): tra i derivati di
questa radice vanno considerati con attenzione il gr. ἐ-λεύθερος e il
lat. lī-ber.
Poiché
quest’ultima serie di termini si trova attestata in una zona ben
delimitata del
territorio e in un gruppo di lingue contigue e caratterizzate da un
alto numero
di innovazioni comuni, si deve concludere che il tipo *leudh-
ha soppiantato o affiancato la seconda serie di
vocaboli per un processo innovativo secondario e limitato all’interno
dell’area
germanico-balto-slava. Pertanto le due parole su cui l’analisi dovrebbe
restringersi sono da una parte *teutā
e dall’altra i derivati di *pel-(ǝ)-.
Si nota immediatamente che mentre i
secondi notano una massa indistinta e generica, *teutā
indica, nelle lingue dove è attestato, un’entità politica ben
precisa ed ha acquisito un netto valore giuridico. Inoltre si osserverà
che, se
di *teutā si hanno attestazioni in
una larghissima parte del territorio indoeuropeo, vi sono però zone in
cui tale
parola non compare, ed è significativo che l’assenza di teutā
si abbia in quelle aree marginali del territorio che presentano
in genere una notevole arcaicità proprio nel mantenimento della
terminologia
sacrale e politica, vale a dire il latino e l’area indiana o
indo-iranica. In
queste stesse zone è attestata una parola, che sembra alternativa a teuta-, perché dove compare l’una non
compare l’altra: alludiamo al termine per ‘re’, *rēĝ-
(lat.rēx, acc. rēg-em, ant.ind. rājā, gallico rīg- in
nomi propri come Dumnorīg-em, Vercingetorīg-em, ecc.). Lo schema può
essere così
compendiato:
lingue rēx
latino
celtico
indiano
|
lingue teutā
celtico
osco-umbro
illirico
germanico
baltico
slavo |
L’unica
area in cui sono attestate entrambe le parole è quella celtica. Dallo
schema
risalta altresì la netta diversità di comportamento tra latino ed
osco-umbro e
l’assenza del greco, che sembra aver proceduto per una propria strada.
L’affermazione
di *teutā, e la conseguente
eliminazione di rēx, ha fatto parlare
di una rivoluzione democratica propria dell’indoeuropeo centrale.
Quest’ipotesi
sarebbe suffragata solamente da indicazioni linguistiche o, meglio,
puramente
terminologiche.
In
conclusione, dei due termini analizzati, *teutā
è quello marcato, mentre l’altro ha un valore generico. In quest’ultimo
non
pare ancora compresa un’idea di autocoscienza etnica: il concetto che
emerge è
piuttosto quello di una moltitudine indistinta. Quanto a *teutā,
proprio la sua valenza accentuatamente politica è anche la
ragione della sua debolezza: il termine non accenna a una qualunque
definizione
di natura sociologica o culturale (il comune riconoscimento di valori o
l’autocoscienza
di un’unità etnica): *teutā esiste solamente
in contrapposizione al re, e il termine stenta ad affermarsi nelle aree
marginali indenni da una determinata evoluzione sociopolitica, proprio
perché
il suo valore non è quello di ‘popolo che si riconosce in un patrimonio
di
valori o di idee comuni’, bensì quello di ‘assemblea, popolo che fa
valere un
proprio potere decisionale’ contrapponendosi a un’organizzazione di
natura
aristocratica che in alcune aree viene percepita come superata.
Lasciamo
ora da parte l’esame delle ulteriori vicende delle parole indoeuropee
per ‘popolo’
nelle lingue moderne (il lettore interessato potrà vederne un quadro
sommario
in quell’utilissimo repertorio che è il Buck),
e
soffermiamoci unicamente sulla terminologia dei primi documenti greci
attinenti
a quest’area semantica. Accenneremo solamente all’evoluzione del lat.,
ove il
valore negativo assunto da plēbs ha
indotto a introdurre un nuovo termine, di probabile provenienza
etrusca, populus:
nella terminologia ufficiale l’opposizione fra plebs e
populus è netta:
basti citare il passo di Livio (II 56, 2) in cui viene rinfacciato a un
tribuno
della plebe che la sua magistratura ha potere solo nei confronti della plēbēs, non del populus: ancora nella
tarda età della repubblica nelle formule
ufficiali si menzionano entrambi gli ambiti (ad es.: precatus
... populo plebique
Romanae bene atque feliciter eveniret, Cic., Pro Mur.
1). Per l’esatta definizione del contenuto semantico
originario di populus andrebbe
comunque preso in considerazione anche il valore del verbo populari
‘saccheggiare’: si ha l’impressione che la parola in
origine indicasse ‘il popolo in armi, l’esercito’, e che pertanto
l’opposizione
fra populus e plebes sia
relativamente recente.
2. L’uso di δῆμος
nei testi più antichi.
Già
l’Iliade presuppone una coscienza di
appartenenza etnica che trascende l’ambito locale: il giuramento dei
principi
achei e la spedizione comune contro Troia implicano il riconoscimento
di un’origine
e di valori comuni, degni di essere difesi anche a costo di una guerra.
Il
fatto che quest’idea non appaia ancora saldamente strutturata in un
campo
semantico comprendente opposizioni nitide e precise fa pensare che si
tratti di
un valore acquisito da poco e ancora alla ricerca di un’espressione
adeguata.
L’unico
elemento lessicale che possiamo riconoscere come appartenente alla fase
antica
è πλῆθος: le ragioni che già abbiamo segnalate gli impediscono di
affermarsi in
modo positivo. Per esprimere l’idea di ‘popolo’ il greco ricorre a
termini
probabilmente antichi, formati cioè con materiale tratto dal comune
patrimonio
ereditato dall’indoeuropeo, ma valorizzati in un senso completamente
nuovo.
L’espressione
dell’idea di "popolo" in Omero s’incentra attorno alle due voci
fondamentali δῆμος (al di fuori dello ionico-attico δᾶμος) e λᾱός. La
prima
probabilmente appartiene alla radice di δαίομαι ‘dividere, ripartire’ e
si rifà
a un antico *dāmo- che, salvo che per
l’appartenenza a una diversa classe tematica (si presenta come tema in -ā anziché in -o), trova un’equivalenza
abbastanza precisa nell’irlandese dām ‘truppa’. In tal
caso si potrebbe
presupporre per δῆμος lo sviluppo del concetto di ‘popolo’ a partire da
uno più
antico di ‘esercito’, ipotesi che da un punto di vista meramente
teorico non
pare impossibile: ma, considerata l’etimologia presumibile e il valore
antico
della parola greca, è piuttosto nella parola irlandese che si deve
resumere uno
spostamento da un significato antico più generico a quello storico di
‘truppa’.
La parola δῆμος è presente già in miceneo nella forma damo
(dāmos): accanto a questa
il composto da-mo-ko-wo (cioè dāmokorwos)
e il nome proprio e-ke-da-mo (cioè ekhedāmos).
Il valore del termine in miceneo sembra
rispecchiare, meglio di quanto avvenga nel greco del primo millennio,
il valore
di ‘partizione amministrativa, divisione del territorio’. Esso inoltre
indica l’organismo
a cui fa capo l’amministrazione del territorio. Per esempio, nella
tavoletta PY
Eb 818 si accenna tra l’altro a un personaggio che ha locato una
determinata
partizione di un terreno e si dice di lui: ai-ti-jo-qo
e-ke-qe o-na-to ke-ke-me-na ko-to-na pa-ro da-mo ko-to-no-qo to-so-de
pe-mo:
cioè "A. inoltre possiede (e-ke-qe
= ἔχει τε) la locazione del
territorio (κτοίνας) presente (ke-ke-me-na può essere κεκειμένας quanto κεκερμένας
o κεκεσμένας)
da parte (pa-ro = παρά) del damos,
in quanto possessore (ko-to-no-oko = κτοινοϝόχος)
per una determinata quantità (to-so-de
pe-mo = τόσονδε σπέρμα, quest’ultimo termine a indicare un’unità di
misura)”.
Ιl damos appare qui come il vero
proprietario del terreno, che ne concede la locazione: con ko-to-na
ke-ke-me-na si designa il territorio indiviso e dato in
locazione dal damos, in opposizione
al territorio appartenente a un feudatario, detto ko-to-na
ki-ti-me-na (κτοίνα
κτιμένα ‘terra coltivata’). La stessa formula si ripete poi
subito dopo
nella tavoletta a proposito di un altro locatario.
Il valore antico
di ‘suddivisione amministrativa’ appare ancora bene in alcuni usi
omerici: ad
es. Il. V 709-10 πὰρ δέ οἱ ἄλλοι | ναῖον
Βοιωτοὶ μάλα πίονα δῆμον ἔχοντες; Od.
XIV 329 (aveva consultato le querce di Zeus a Dodona, per sapere) ὅππως
νοστήσει' ᾿Ιθάκης ἐς πίονα δῆμον, ἤδη δὴν ἀπεών, ἢ ἀμφαδὸν ἦε κρυφηδόν;
Od. XXII 35-6 οὔ μ' ἔτ' ἐφάσκεθ'
ὑπότροπον οἴκαδε νεῖσθαι | δήμου ἄπο Τρώων, ὅτι μοι κατεκείρετε οἶκον.
Come si
vede, in questi casi è estranea al vocabolo qualunque nozione di
‘popolo’. Nell’ultimo
passo citato (il Privitera traduce "non pensavate che sarei mai venuto
reduce a casa | dalla terra di
Troia") δήμου … Τρώων si contrappone a οἴκαδε: la terra straniera posta
in
opposizione alla propria dimora abituale. In molti casi δῆμος è usato,
come già
rilevavano i commentatori antichi,
pleonasticamante, quando è seguito dal genitivo della terra o della
città:
p.es. ἐν δήμῳ Ἰθάκης Il. III 201; Λυκίῃ
δῆμον ἵκωνται Il. XVI 405; δῆμον
Ἀπαισοῦ Il. II 828; e ancora negli
inni, p.es. Δελφῶν ἐς πίονα δῆμον hymn.
27, 14. Così ἄλλων δῆμον (Il. XXIV
481) è la terra d’altri, il paese straniero, e l’espressione ἀλλογνήτῳ
ἐνὶ δήμῳ
di cui si avvale il poeta della Telemachia
(Od. II 366) accenna alla terra
ignota. È l’esatto contrario della "propria terra", il δῆμος αὐτοῦ di
cui si parla p.es. in Il. IX 634.
Il valore
fondamentalmente amministrativo del termine si coglie in quei passi in
cui δῆμος
indica una ripartizione territoriale esattamente identificata dalla
presenza di
un signore che ne rappresenta l’autorità; le differenze sociopolitiche
che
intercorrono sia fra i due poemi sia fra le diverse popolazioni che vi
sono
descritte fa sì che il medesimo termine si adatti a designare realtà di
volta
in volta diverse da un punto di vista meramente giuridico, a seconda
della
natura del governo istituzionale del paese. Cfr. p.es. Il.
II 546-7 Οἳ δ' ἄρ' ᾿Αθήνας εἶχον ἐϋκτίμενον πτολίεθρον | δῆμον
᾿Ερεχθῆος μεγαλήτορος, ὅν ποτ' ᾿Αθήνη e Od.
VIII 390-301 δώδεκα γὰρ κατὰ δῆμον ἀριπρεπέες βασιλῆες | ἀρχοὶ
κραίνουσι,
τρεισκαιδέκατος δ' ἐγὼ αὐτός.
Un’espressione
interessante, per capire il trapasso dal valore di ‘regione (governata
da un’autorità)’
a quello di ‘popolo’ s’incontra in Il.
XI 58: Αἰνείαν θ', ὃς Τρωσὶ θεὸς ὣς τίετο δήμῳ: le traduzioni italiane
correnti
(p.es. M.G. Ciani "Enea, che il popolo troiano venerava come un dio")
non rendono in modo adeguato l’espressione greca, ma neppure la
traduzione
"aux yeux du peuple" proposta da Chantraine
risulta precisa: i due dativi giustapposti hanno entrambi valore
locativo: per
confermare il valore del primo basta richiamare Il. VI
477 ἀριπρεπέα Τρώεσσιν "insigne fra i Troiani"; il
secondo non sarà dissimile dai vari ἀγρῷ (Il.
VI 137), δόμῳ (Il. II 513), ἀγορῇ (Il.
IV 400), ecc. In Od. XIV 205 il passo qui citato di Il. XI 58 viene ripreso quasi alla
lettera: ὃς τότ' ἐνὶ Κρήτεσσι θεὸς ὣς τίετο δήμῳ: il valore locativale del primo
dativo è
ulteriormente marcato dalla presenza di ἐνὶ.
Dal significato di
‘regione sottoposta a un’autorità’ si passa facilmente a quello di
‘gente che
ubbidisce al medesimo signore’. Il passaggio appare pienamente compiuto
in passi
come i seguenti: Od. VIII 156-7 νῦν
δὲ μεθ' ὑμετέρῃ ἀγορῇ νόστοιο χατίζων | ἧμαι, λισσόμενος βασιλῆά τε
πάντα τε
δῆμον: qui δῆμος indica la massa dei sudditi in opposizione al signore
(βασιλεύς).
Ancora, in Il. XI 703 ss. δῆμος assume
il valore di ‘gente comune’, in opposizione al sovrano: τῶν ὃ γέρων
ἐπέων
κεχολωμένος ἠδὲ καὶ ἔργων | ἐξέλετ'
ἄσπετα πολλά· τὰ δ' ἄλλ' ἐς δῆμον ἔδωκε | δαιτρεύειν, μή τίς οἱ
ἀτεμβόμενος
κίοι ἴσης. Qui la contrapposizione tra il signore (Neleo) e i sudditi è
evidente. Interessante è l’analisi di Il.
III 50 πατρί τε σῷ μέγα πῆμα πόληΐ τε παντί τε δήμῳ: la parola ha
assunto il
significato di ‘civitas’, insieme di persone che si riconosce, se non
in un’identità
etnica, quanto meno nello specifico di una situazione (in questo caso
la
sudditanza a Priamo). In Od. VIII 148
ss. si legge: τοῖσιν θεοὶ ὄλβια δοῖεν, |
ζωέμεναι, καὶ παισὶν ἐπιτρέψειεν ἕκαστος | κτήματ' ἐνὶ μεγάροισι γέρας
θ', ὅ τι
δῆμος ἔδωκεν: gli dèi distribuiscono
agli uomini la fortuna, ma è il δῆμος ad attribuire a ciascun uomo il
suo rango
in una società ordinata, in cui diritti e doveri sembrano ripartiti
secondo le
capacità e i meriti di ciascuno.
La
contrapposizione tra il signore e il δῆμος, fa sì che in qualche
circostanza
quest’ultima parola assuma una connotazione
sostanzialmente negativa dal punto di vista sociale: l’esempio più
evidente è
dato da un episodio narrato in Il. II
188 ss.: Odisseo prende lo scettro e va in giro per l’accampamento a
radunare
gli Achei per il combattimento: "E se incontrava un re (βασλῆα) o un
uomo
illustre (ἔξοχον
ἄνδρα), si
avvicinava e cercava di trattenerlo con ferme parole ... Ma quando
vedeva uno
del popolo (δήμου τ᾿ ἄνδρα), e lo trovava a vociare, lo colpiva con lo
scettro
e lo rimbrottava": l’uomo del popolo è contrapposto ai capi e agli
eroi: l’uomo
del popolo non deve metterne in discussione le decisioni né, come si
direbbe
oggi, destabilizzare il contesto
sociale: "ascolta i consigli degli altri, di quelli che sono migliori
di
te, mentre tu sei vile e codardo, e nulla conti in battaglia, nulla in
consiglio" vv. 200-202).
3. L’uso di λαός
nei testi più antichi.
La
distinzione fra questo termine e il precedente non è sempre netta
nell’uso, e
anche l’origine della parola ci sfugge: nessuno dei tentativi
richiamati dal Frisk
può
dirsi né conclusivo né soddisfacente. Per chiarire il valore antico di
λᾱός
(ληός, λεώς) può
essere di
qualche utilità il richiamo alla parola derivata (λήϝιτον), che vale
‘(casa
comune, edificio della collettività), sede di una magistratura’; la
parola è
molto rara, e sostanzialmente disusata nella lingua arcaica e classica:
è
rimasta però nei derivati λειτουργέω ‘esercito una pubblica funzione’ e
λειτουργία
‘compimento di un’attività in favore dello Stato, funzione pubblica’.
La parola
appartiene comunque al fondo più antico del lessico greco: essa si
trova già
nelle tavolette micenee ad esempio nel composto ra-wa-ke-ta
(lāwagetās).
In
linea di massima si può affermare che inizialmente λᾱός sembra
collegato con un’idea
militare, è usato spesso in contesti bellici e assume il valore di
‘popolo in
armi’. In miceneo il lāwos dovrebbe
indicare la classe militare: la parola comunque è estranea al lessico,
abbondante in miceneo, delle funzioni amministrative.
La
promiscuità dell’uso fra λαός e δῆμος si coglie in luoghi come Il. XVIII 497-500 dove, a distanza di
pochi versi, nella descrizione dello scudo di Achille la gente che
assiste a un
processo è designata prima come δῆμος poi
come λαός (XVIII 497 sulla piazza vi è un gruppo di gente)
.
In Il. XI 676 λαοὶ ἀγροῖται significa
semplicemente "la gente della campagna".
In qualche casο
λαός, accompagnato da un genitivo plurale, parrebbe indicare un’unità
etnica
ben definita: il popolo degli Achei (Il.
VI 223; VII 434; XXIII 156; ecc.);
il popolo dei Mirmidoni (Il. XVI 38).
In qualche passo in luogo
del genitivo abbiamo l’aggettivo corrispondente: λαὸν Τρωϊκόν
Il. XVI 368; λαὸν Ἀχαιϊκόν Il. IX 321. E possiamo
anche avere, per
definire il λαός, il nome del re: λαὸς εὐμμελίω Πριάμοιο, Il.
IV 47.
Il
più delle volte λαός ha un valore generico ed è usato soprattutto a
indicare il
popolo in armi: in Il. II 809 (πᾶσαι
δ' ὠΐγνυντο πύλαι, ἐκ δ' ἔσσυτο λαὸς | πεζοί θ' ἱππῆές τε) il termine
indica la
totalità dell’esercito, e l’idea è ulteriormente confermata
dall’aggiunta πεζοί
θ' ἱππῆές τε. Come si vede, il significato di λαός in casi del genere è
assai
prossimo a quello di πλῆθος, che peraltro s’incontra, in passi dell’Iliade sostanzialmente analoghi, col
valore di ‘esercito numeroso’. Con ulteriore specializzazione, λαός è
anche
usato in qualche caso per indicare la fanteria (Il. VII
342; XVIII 153; ecc.). Altrove, con un’evoluzione simile a
quella che abbiamo visto in δῆμος, anche λαός viene a indicare il
"volgo", la massa: cfr. Il.
II 115 πολὺν ὤλεσα λαόν ("ho ucciso un gran numero di soldati"). In Il. II 365-5 è la contrapposizione
fra il soldato semplice e i capi: γνώσῃ
ἔπειθ' ὅς θ' ἡγεμόνων κακὸς ὅς τέ νυ λαῶν. In questi casi il termine
designa la
massa dell’esercito. In più di un luogo però con λαός s’intende
genericamente
anche una folla non di soldati: cfr. p.es. Od.
XIV 248 ἐννέα νῆας στεῖλα, θοῶς δ᾿ ἐγείρετο λαός. Qui è l’insieme di
marinai:
in Il. XVII 390 sono ancora più
genericamente i lavoratori che prendono ordine da un capo, e così via.
Come
si vede già da quest’ultimo esempio, in molti passi il termine è usato
al
plurale: p.es. Od. II 13 τὸν δ᾿ ἄρα
πάντες λαοὶ εζπερχόμενον θηεῦντο; Il.
III 318 λαοὶ δ᾿ ἠρήσαντο, θεοῖσι δὲ χεῖρας ἀνέσχον
(sono, tutti insieme, i soldati e i capi
che, illudendosi in una
prossima fine della guerra, attendono l’esito del duello tra Paride e
Menelao); Il. XXI 531 πεπτομένας ἐν χερσὶ πύλας
ἔχετ᾿ εἰς ὅ κε λαοί | ἔλθωσι προτὶ ἄστυ πεφυζότες.
4. Altri termini
per esprimere l’idea di ‘popolo’.
Un
significato un po’ diverso è quello di ἔθνος: indica un insieme di individui
che appartengono alla medesima
stirpe: in questo senso si può parlare del popolo degli Achei o dei
Troiani (e in
questo senso la parola si sovrappone a λαός), ma si può avere anche la
"stirpe dei morti" (Od. X
526) o la "stirpe delle api" (Il.
II 587) o di altri animali ancora. Anche l’origine di questa parola non
è
chiara: se, come sembra, la parola comportava un digamma iniziale, si
potrebbe
porre un tema *swedh-, da accostare eventualmente al
tema del
pronome riflessivo ἕ. Possibile anche la comune derivazione di ἔθνος e
di ἔθος
dalla stessa radice. Se, come suggeriscono i lessici etimologici e come
pare
verisimile, a ἔθνος si deve accostare l’aggettivo ὀθνεῖος ‘straniero’,
la
parola potrebbe accennare all’appartenenza a un cerchio sociale più
vasto del γένος:
ὀθνεῖος è chi non appartiene al γένος, e dunque è da considerare
estraneo. Si potrebbe quindi avere in
ἔθνος un’evoluzione
parallela a quella che abbiamo riscontrata nell’iranico dahyu-,
con l’accoglimento nell’idea di una comune appartenenza di persone o
gruppi inizialmente considerati ai margini
della comunità o addirittura estranei.
5. Evoluzione
successiva
dei termini per ‘popolo’.
Abbiamo
seguito finora la situazione dei testi più antichi. L’evoluzione di
pensiero
che porta alla nascita della cultura della polis coinvolge anche la
terminologia, che risulta profondamente mutata. Con fatica dunque il
greco è
pervenuto a percepire un’idea di popolo almeno nelle linee fondamentali
comparabile con quella moderna: ed è singolare che a quest’idea si sia
arrivati
in una situazione di acuta frammentazione politica, culturale e
linguistica
(non si dimentichi che la reale differenza che separava i dialetti
locali delle
varie zone greche era ben superiore a quello che si potrebbe desumere
dagli usi
letterari). Quest’evoluzione si segue con più difficoltà nei testi
poetici. Il
linguaggio della poesia, per sua stessa natura più portato alla
conservatività,
appare più fedele all’uso omerico dei termini. Nelle tragedie di
Eschilo
compaiono i tre termini fondamentali di Omero, senza che si riescano a
individuare precise differenziazioni fra δῆμος (cfr. Sept.
1044 severo è però il popolo
che è sfuggito alla rovina; Pers. 772
ed è perito in completa distruzione il popolo
dei Battrii, né vi era alcun vecchio), λαός (Pers. 593
sciolto è infatti il popolo,
e può parlare liberamente, poiché sciolto è il giogo della servitù; Suppl. 485 la gente infatti ama accusare
il potere; Pers. 92 irresistibile infatti è l’esercito
persiano e il popolo bellicoso), ἔθνος (Pers.
56 le gente armata di spada raccolta da tutta l’Asia,
sotto gli ordini
gravi del re; Eumen. 366 Zeus infatti
non ritiene degna della sua udienza questa gente
odiosa che stilla sangue).
Con la
commedia e soprattutto coi prosatori la
situazione muta sensibilmente: è soprattutto l’evoluzione di dh}moj che
risulta
di singolare interesse, mentre λαός assume il valore un po’ generico di
‘gente’
(in attico λαοί è il modo usuale per rivolgersi alla folla nel senso di
‘udite,
gente!’) e alcuni contesti acquisisce il senso di ‘popolo che si raduna
per un
motivo preciso’ (ad es. per assistere a una rappresentazione teatrale,
Aristofane Rane 676). Viceversa δῆμος, che
nell’ordinamento
attico conserva a lungo il suo valore originario di ‘partizione
territoriale,
distretto’, acquisisce risonanze politiche molto rilevanti indicando
sia il
popolo che decide attraverso il voto sia la costituzione democratica
sia la
democrazia stessa come forma istituzionale. Il valore di δῆμος come
‘entità
sovrana’ si percepisce già in Eschilo, Sept.
199, ove λευστῆρα δήμου accenna a una lapidazione pubblica, voluta dal
popolo
in quanto soggetto capacce di esprimere una volontà
unitaria. Nel
discorso tripolitico di Erodoto (III 82) la parola si contrappone a
ὀλιγαρχίη
in quanto il governo del popolo si contrappone al governo dei pochi:
come è
noto, non compare ancora nel testo erodoteo la parola democrazia, e il
discorso
tripolitico esprime piuttosto l’idea di una eguaglianza di diritti,
piuttosto
che quello della sovranità popolare. Ma a partire da Erodoto la parola
acquisisce il valore che manterrà saldamente nei testi successivi.
Accanto all’idea
di ‘popolo’ si definisce in maniera nitida quella di ‘barbaro’: la
parola in
quanto tale non contiene, in linea di massima, alcuna connotazione
razzista e
non vi è contemplato alcun atteggiamento di superiorità rispetto ad
altre
culture: determina solamente in misura non approssimativa il comune
riconoscimento di un’alterità e, per converso, l’affermazione di tratti
comuni
per cui, al di là delle diversità istituzionali e linguistiche, l’uomo
di Atene
sente di avere con l’uomo di Corinto o di Mantinea delle affinità che
non ha
con gli uomini della Scizia o della Libia o di altre parti del mondo.
Nelle immagini: 1. Assemblea
degli Ateniesi (da Philip Foltz, Discorso funebre di Pericle,
1877), 2. L'agorà di Segesta.
E.
Benveniste, Vocabolario
delle istituzioni indoeuropee, Torino 1976 (ediz. originale col tit. Vocabulaire
des institutions indo-européennes,
Parigi 1969).
G.
Devoto, op. cit., p. 230 ss.
Il
termine è da *dems + pot-: nella
prima parte abbiamo l’antico genitivo singolare di un
tema in consonante (la formazione tematiche in -o, che
ha finito per prevalere in greco, è sicuramente secondaria e
più recente): la nasale dinanzi a un nesso costituito fda sibilante +
occlusiva
cade senza provocare allungamento di compenso, secondo l’esito consueto.
Sulla
terminologia
indoeuropea per ‘nemico’ cfr. M. Morani, Il "nemico" nelle lingue
indoeuropee, in AA.VV., Amicus
(inimicus) hostis. Le radici concettuali della conflittualità ‘privata’
e della
conflittualità ‘politica’, ricerca diretta da Gianfranco Miglio,
Giuffrè
Editore, Milano, 1992, pag. 7-83.
Secondo
Devoto (op. cit., pag. 231) il lawagetās
è il capo del popolo in armi. Il termine è sopravvissuto nella lingua
poetica
(nella forma λαγέτας) e lo si ritrova in un paio di passι di Pindaro e
in un
frammento di Sofocle (221 P) col valore generico di ‘leader del
popolo’: cfr.
Pind. Ol. I 89 ἔτεκε λαγέτας ἓξ
ἀρεταῖσι μεμαότας υἱούς. .
|