L’inizio della
storia, la fine della storia nel mito etrusco.
di Alfredo
Valvo
Abstract.
Fra
i documenti di accertata origine etrusca che ci sono pervenuti in
traduzione
latina il più ampio e problematico è la cosiddetta ‘Profezia di
Vegoia’. In
questo brano, conservato fra i testi degli antichi gromatici (Gromatici
Veteres, ed. Lachmann, pp. 350 sg.) e datato dalla maggior parte
degli studiosi al tempo della guerra sociale, si minacciano le più
tragiche punizioni
divine a coloro che sposteranno i segni di confine delle proprietà
fondiarie.
Si tratta cioè di un documento che riguarda soprattutto la tutela della
proprietà privata in tempi di grave rischio per la guerra imminente (91
a.C.).
Il testo inizia con una premessa nella quale è riconoscibile la
ricostruzione
mitica della cosmogonia etrusca e si può ravvisare l’inizio della
storia del nomen
Etruscum. Al brano di cosmogonia in questione, che presenta
analogie col
racconto della Genesi e di altre cosmogonie, può essere
avvicinato un
breve passo di Servio a commento di Aen. IX 561, che sembra
integrare il
contenuto della ‘Profezia’.
Nella
‘Profezia’ si fa esplicito riferimento alla teoria secolare etrusca,
intorno
alla quale siamo informati soprattutto da Censorino (De die natali,
XVII), ma è presente anche una ‘contaminazione’ con la teoria della
successione
degli imperi, della quale siamo informati da Emilio Sura (ap. Vell.
Pat.
I 6, 6).
Tanto
Censorino, che assegna dieci saecula al popolo etrusco, quanto la
‘Profezia di Vegoia’, che sembra assegnarne solo otto, sono comunque
concordi nel considerare la storia del popolo etrusco ‘lineare’ e ‘a
termine’, senza possibilità di proroghe e di palingenesi, come invece
avviene per Roma.
Il
rischio della fine irreversibile di Roma a seguito delle guerre civili
è
superabile soltanto attraverso l’espiazione dello scelus che ne
ha messo
a rischio la sopravvivenza. E’ la pietas romana, in definitiva,
che fa
la differenza: rende possibile il perdono degli dei, un rinnovato patto
con
loro (pax deorum) e la ripresa della storia attraverso una nuova
Età
dell’oro (Virgilio, Orazio).
L’invito
ad una riflessione sulle fasi marginali della
storia, che il tema del Congresso suggerisce, mi ha indotto a rileggere
con
rinnovato interesse un documento sul quale mi sono ampiamente
soffermato alcuni
anni or sono: la cosiddetta ‘Profezia di Vegoia’. Devo dire che nella
scelta
del tema mi sono tornate alla memoria, a titolo di monito ma anche di
incoraggiamento, le parole severe di Arnaldo Momigliano sulle scarse
attitudini
storiche di coloro che ritengono certi problemi ormai risolti, in un
certo
senso ormai sterili per la ricerca storica. Per questo rimetto mano
all’argomento, che a suo tempo mi è parso assai indicativo sulla
concezione
etrusca della storia, in particolare sul suo inizio e sulla sua
conclusione.
1. Gli studiosi di storia
etrusco-romana conoscono bene un
brano conservato nella raccolta dei Gromatici Veteres, edita
dal
Lachmann nel 1848 (vol. I, pp. 350 sg.):
la
cosiddetta ‘Profezia di Vegoia’. Il brano è stato da tempo riconoscuto
come la
traduzione latina di un testo scritto originariamente in lingua etrusca
ed è
probabilmente il frammento più ampio della letteratura etrusca
conservatoci.
Per sottolineare l’importanza del documento ricorderò che i testi più
ampi, in
lingua etrusca, sono epigrafici: la Tegula di Capua, la tabula
bronzea recentemente ritrovata a Cortona
e
soprattutto il liber linteus di Zagabria, documento noto anche
col nome
di Agramer Mumienbinde. Si tratta di testi contenenti i primi due, con
tutta
probabilità, due contratti di vendita, forse fondiaria, e, il terzo,
disposizioni sacrali.
Il testo della ‘Profezia di
Vegoia’ è assai probabilmente di
origine aruspicale, di tenore ostile all’aristocrazia agraria etrusca e
sarebbe
stato finalizzato alla conservazione dell’ordine, alla tutela della
proprietà
fondiaria privata in tempi di rivolgimenti politici e sociali profondi,
come
furono l’anno del tribunato di M. Livio Druso, il 91 a.C., e gli anni
immediatamente successivi, quelli della guerra sociale: a questo
periodo,
secondo J. Heurgon e la maggioranza degli Studiosi, risale il contenuto
della
‘Profezia’. Per dare maggior peso all’intimazione di non alterare i
confini
delle proprietà fondiarie l’anonimo autore, o chi ha disposto i brani
all’interno della raccolta di testi gromatici, attribuisce alla ninfa
Vegoia,
una delle ‘divinità’ del mondo etrusco, popolato da dèmoni e spiriti
ignoti
alla religione romana, la rivelazione dell’ordine cosmico voluto da Iuppiter,
nel quale rientra anche la conservazione dei confini di proprietà (limitatio)
e quindi la proibizione di rimuovere i segni di confine (terminatio),
pena terribili punizioni divine.
Ciò che conosciamo del diritto
etrusco è sostanzialmente
questo, oltre a quanto sappiamo da Servio circa l’infrazione del
giuramento (di
cui parla anche la ‘Profezia’: fallax e bilinguis),
punita con
l’esilio senza possibilità di ritorno.
Riporto qui le prime righe del
testo della ‘Profezia’, che
ci riguardano più da vicino:
Scias
mare ex aethera remotum.
Cum autem Iuppiter terram Aetruriae sibi vindicavit, constituit
iussitque
metiri campos signarique agros. Sciens hominum avaritiam vel terrenum
cupidinem, terminis omnia scita esse voluit.
Accenno solo brevemente alla
correzione testuale suggerita
dal Thulin e dal Latte, che hanno proposto di correggere aethera
in e
terra: scias mare e terra remotum, correzione rifiutata dal
Piganiol, che coglie nella lezione tràdita ex aethera un
puntuale
richiamo all’analogia tra il fondamento della limitatio, la
definizione
dei confini, e l’ordine del mondo. Il testo dell’esordio – le prime
cinque
parole della ‘Profezia’ – riflette probabilmente la conoscenza diffusa
di un
motivo cosmogonico (e qui si tratta in effetti più di cosmogonia che di
origini
della storia, anche se, come si vedrà, il quadro è nella sostanza
quello
dell’inizio e della fine della storia perché, nel mito etrusco delle
origini,
cosmogonia e storia finiscono ultimamente per identificarsi). Secondo
il
Piganiol esso non è da collegare necessariamente al racconto del
secondo giorno
della Creazione del libro della Genesi ma, tuttavia,
costituisce
probabilmente, anche per il richiamo all’opera ordinatrice di Iuppiter
ricordata subito dopo, l’affermazione dell’opera di un demiurgo che
abbia posto
fine al caos iniziale, come avviene nella tradizione di origine
semitica sulle
origini del mondo.
In proposito il lessico Suda,
sotto la voce Τυῤῥηνία.
riferisce una tradizione di origine etrusca relativa
alla creazione del
mondo nella quale si ricorda che l’Universo è opera di un demiurgo che
l’aveva
portata a compimento nel corso di sei periodi di mille anni ciascuno (chiliadi),
e aveva lasciato altre sei chiliadi di tempo alle generazioni umane
μέχρι τῆς
συντελείας. Complessivamente si raggiungeva così il numero di dodici
chiliadi,
sottoposte alle dodici costellazioni. Sebbene il testo della Suda presenti
l’opera del demiurgo più come una integrale creazione (ποιῆσαι) e non
parli
esplicitamente di separazione degli elementi, il Latte considera la
tradizione
riferita dalla Suda un motivo della tarda religiosità etrusca
(per la
quale l’idea di creazione non doveva essere del tutto estranea alla
cosmogonia)
che può confermare la correzione da lui suggerita al testo del
Lachmann, mentre
il Piganiol, che come si è detto rifiuta ogni correzione al testo,
avvicina
anch’egli il testo della ‘Profezia’ al racconto della Suda,
sebbene qui
non si parli esplicitamente di saecula, e ritiene la frase
iniziale
della ‘Profezia’ una prova della presenza antica nel patrimonio
religioso
etrusco di una simile concezione, ma riconosce nelle dodici chiliadi
del testo
della Suda lo schema caldeo della dodecaeterìs, il
cosiddetto
«anno caldeo», costituito di dodici «grandi anni», su cui è da vedere
quanto
scrive Censorino, De die natali 18, 6-7: Proxima est hanc
magnitudinem, quae vocatur dodecaeteris ex annis vertentibus duodecim.
Huic
anno Chaldaico nomen est… Sulla questione si è espressa anche M.
Sordi che
considera il racconto della Suda un «incontro fra teorie
etrusche e idee
giudaiche e cristiane» ma sicuramente di origine etrusca: infatti, lo
schema
delle sei chiliadi risponde pienamente alla concezione etrusca della
storia,
secondo la quale ad ogni popolo e ad ogni individuo era assegnato un
tempo
definito. In definitiva, il brano della Suda sarebbe da
ricondurre al
genere delle profezie etrusche e può essere attribuito all’eclettismo
dell’aruspicina di tarda età imperiale, che assimilava le idee
cristiane più
vicine alla disciplina Etrusca.
2. Ritorniamo adesso al testo
della ‘Profezia’.
Ciò che segue immediatamente
all’esordio, da cum autem
Iuppiter… a signarique agros, svolge nella ‘rivelazione’
di Vegoia
una duplice funzione. La prima, come naturale conseguenza della
rivendicazione
da parte di Iuppiter della Terra Etruria dopo la
separazione
degli elementi, è una implicita rivendicazione delle origini divine del
popolo
etrusco, in un momento drammatico qual erano i prodromi della guerra
sociale
(se si accetta la datazione del documento a quegli anni); in secondo
luogo,
viene attribuito valore divino a limitatio e terminatio
perché
volute da Iuppiter e perciò poste sotto la sua protezione (si
può
ricordare l’appellativo di Terminus sotto il quale si venerava
l’immagine di Iuppiter nelle proprieà fondiarie e il sacello
destinato
al culto di Terminus al quale era riservato uno spazio a cielo
aperto
nel tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio).
Che la terminatio e
quindi l’istituzione o almeno la
tutela del diritto di proprietà siano, nel mito, prerogativa di Iuppiter
è confermato, in ambito romano, da numerosi Autori latini: Tibullo,
Ovidio,
Seneca e soprattutto Virgilio concordano nel ricordare che l’età di
Saturno –
presentata come età dell’oro, quindi primordiale nella successione
delle età
‘metalliche’ che simboleggiano il percoroso della storia umana, ed
anche il suo
deterioramento progressivo (Hes.
Op.
106-201) – ignorava ancora i segni di confine e imputano invece all’età
di Iuppiter
di averli introdotti nell’uso, annoverandoli fra i vizi legati ad avaritia
e terrenus cupido. Ovidio, in particolare (Her. IV 131
ss.),
indica esplicitamente in Iuppiter il responsabile della fine
della vetus
pietas: vetus pietas, aevo moritura futuro, rustica Saturno
regna
tenente fuit. / Iuppiter esse pium statuit, quodcumque iuvaret, / et
fas omne
facit fratre marita soror.
Un richiamo all’avaritia e
terrenus cupido
della ‘Profezia’ trova inatteso riscontro in alcuni passi del libro II
delle Divinae
Institutiones di Lattanzio (Div.Inst. VII 15, 7 sgg.; 16,1,
5 sg.,
11; 18, 2, cfr. Epit. 66 [71], 1 sg.), in uno dei quali si
menziona
esplicitamente come fonte (gli Oracoli di)
Hystaspes,
imperniati sull’iniquitas saeculi extremi, in un contesto di
vizio e di
peccato assai prossimo a quello della ‘Profezia’, ed anche per questo
avvicinabile all’avaritia prope novissimi octavi saeculi:
ad
esempio, a 15, 7 sg.: humanarum rerum statum commutari necesse est
et in deterius nequitia invalescente
prolabi;
iniquitas et malitia usque ad summum gradum crevit; avaritia et
cupiditas et
libido crebrescet; confundetur omne ius et leges interibunt; audacia et
vis
omnia possidebunt. Si tratta probabilmente di topoi legati
all’escatologia che fa da sfondo ad ogni fine ma che nella P.d.V. non
ha un
ruolo marginale o topico bensì funzionale alla dottrina ‘secolare’
etrusca,
come sappiamo ancora da Censorino (De die natali, 17, 5-6), la
fonte più
ampia, che dipende, tramite Varrone, dalle Tuscae Historiae,
che
assegnavano al nomen Etruscum la durata di 10 saecula;
come
sappiamo da un passo di Plutarco della Vita di Silla,
contemporaneo alla
‘Profezia’, e da una notizia proveniente dal De vita sua di
Augusto,
conservata da Servio (Danielino) ad Verg. Buc. IX 46 (= H.R.R.
II
p. 56): Vulcatius aruspex in contione cometen esse [i.e. sidus
Caesaris], qui significaret exitum noni saeculi et ingressum
decimi. Sed
quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum,
et
nondum finita oratione in ipsa contione concidit.
3.Si è detto dell’insistenza dei
poeti, soprattutto
augustei, sull’istituzione dei segni di confine come la conseguenza che
caratterizza di più la fine dell’età di Saturno – età dell’oro,
‘mitica’ età
felice che il regno di Augusto prometteva di rinnovare; essa
rappresenta un
tema da rileggere alla luce del disegno augusteo di costruire un impero
universale, nel quale non ci sarebbero state più divisioni né barriere
ideologiche e neppure segni di confine a indicarle.
Il contrasto fra la ‘Profezia di
Vegoia’, nella quale la terminatio
è rivestita della più alta p o s i t i v i t à, e i passi dei poeti
augustei,
nei quali l’età di Saturno è simbolicamente identificata dall’assenza
dei segni
di confine, che perciò rivestono un carattere di esemplare n e g a t i
v i t à,
è legato alla successione dei regni divini (Saturno e Iuppiter),
entrata
molto probabilmente nella cultura romana dopo che il poeta Ennio ebbe
tradotto
l’opera di Evemero, Sacra scrittura o Storia sacra,
nella quale
si raccontava che in un tempo remoto gli dei avevano abitato sulla
terra, come
già narravano Ecateo ed Erodoto. La successione dei regni divini giunse
al suo
compimento con Virgilio, almeno per quanto riguarda le vicende del
regno di
Saturno. Tuttavia, essa presenta analogie ed è strettamente collegata con la successione degli imperi o delle età
metalliche (il regno di Saturno è collegato con l’età dell’oro);
quest’ultima,
delineata già da Esiodo, rappresenta la forma più antica di storia
universale ed
era ampiamente conosciuta in tutto il Mediterraneo antico.
4.Sia nella ‘Profezia di Vegoia’
che negli Autori latini la terminatio,
sia che assuma valore positivo (nella ‘Profezia’, e quindi per gli
Etruschi)
che valore negativo (per gli Autori latini), è connessa con avaritia
e terrenus
cupido; anzi, nella ‘Profezia’ la terminatio è strettamente
collegata con l’avvento del novissimum saeculum, l’ottavo, che,
solo
nella ‘Profezia’ se novissimum è da intendere come ‘ultimo’,
sembra
essere quello conclusivo del nomen Etruscum. L’avvento del novissimum
saeculum avrebbe segnato la fine della storia del popolo Etrusco.
Questo
momento è probabilmente identificabile con la fine della guerra di
Perugia, nel
40, quando si sarebbe compiuto il decimo ed ultimo secolo, il più breve
di
tutti, di soli quattro anni, che era incominciato nel 44, come sappiamo
dal
testo di Servio che abbiamo letto sopra: Vulcatius aruspex in
contione
cometen esse [è il sidus Caesaris], qui significaret
exitum noni
saeculi et ingressum decimi. Sed quod invitis diis secreta rerum
pronuntiaret,
statim se esse moriturum, et nondum finita oratione in ipsa contione
concidit.
Da quanto è stato detto fin qui
si riconosce, anche se
sommariamente, la concezione etrusca della storia che emerge dalla
‘Profezia di
Vegoia’, completata soprattutto dalle notizie di Censorino, De die
natali,
soprattutto 17, 5-6 e dalla Suda. La storia – intendendo qui
per
‘storia’ il tempo di vita concesso al genere umano – si può definire
con
certezza ‘lineare’ e ‘a termine’. Gli Etruschi non sembrano ritenere
possibile
una palingenesi, e quindi un rinnovamento o una ripresa della storia,
come
invece è stato possibile riconoscere nella concezione romana della
storia (per
questo mi pemetto di rinviare anche al mio intervento, tenuto in questa
stessa
Sede, in merito all’idea di ‘tardo’). Né agli Etruschi è familiare, per
quanto
riusciamo a sapere, l’idea dell’espiazione, che rende possibile un
nuovo patto
fra uomini e dei, a Roma, e la speranza di un rinnovamento,
presentissima come
tema dominante nella poesia civile di Orazio e di Virgilio, che
anticipa e
annunzia la nuova era, che sarà una nuova età dell’oro. Secondo la
concezione
etrusca, la storia degli uomini finisce improrogabilmente allorché si è
esaurito il periodo di tempo concesso dagli dei, anche se da Censorino
pare che
ciascuno intenda a modo proprio la durata dei saecula e che
molto sia
lasciato all’interpretazione degli indovini.
5.A questo punto è lecito
domandarsi se la ‘Profezia’ non
restituisca traccia di una dottrina secolare ‘ibrida’: la successione
dei saecula
etruschi forse si intersecava con la successione dei regni divini e
delle età
metalliche, ampiamente conosciute, in ambito etrusco-romano, da uomini
di punta
della cultura romana del II secolo a.C., come Aemilius Sura,
che
conosciamo solo di nome attraverso Velleio Patercolo (I 6, 6), e del I
secolo
a.C., come Nigidio Figulo, contemporaneo di Cicerone ed esperto di
aruspicina.
Dalla ‘Profezia’ sappiamo inoltre che Iuppiter volle per sé
l’Etruria e
questo motivo è quasi certamente legato allo sviluppo di un mito delle
origini.
Al quadro abbastanza complesso
che si è cercato di
delineare, anche se sommariamente, è forse da aggiungere una nuova
testimonianza: un frammento di Servio a commento di Aen. IX
561,
conservato in forma leggermente più ampia presso i Mitografi
latini (Corpus
Christianorum, serie latina 91), dove, fra l’altro, si afferma: Iuppiter
et Saturnus reges fuerunt, sed dum Iuppiter cum Saturno patre haberet
de agris
contentionem, ortum bellum est. Il brano, inserito in un contesto
mitologico estraneo all’ambito etrusco (la guerra contro i Giganti), è
destinato a spiegare l’origine dell’aquila come insegna militare. Da
Lattanzio
(Div. Inst. I 11, 64 sg.), che conserva un passo di Ennio,
veniamo a
conoscenza che l’episodio sarebbe accaduto sull’isola di Naxos,
mentre
Giove si apprestava a combattere i Titani. Il brevissimo passo di Ennio
in
Lattanzio costituiva un’appendice alla lotta fra Giove e Saturno,
conclusasi
con la fuga di quest’ultimo in Italia.
Nell’evoluzione del mito è
possibile che proprio Ennio
ambientasse in Italia la contentio de agris, all’origine della
vicenda
di Saturno in Italia che, come si è visto, risalirebbe alla Storia
sacra
di Evemero.
L’elemento che pare collegare
questo episodio alla ‘Profezia
di Vegoia’ è dato dalla contentio de agris, sorta mentre
Saturno e Giove
regnavano insieme. Essa non ha riscontro nella mitologia tradizionale e
ugualmente unica è l’attribuzione a Iuppiter dell’istituzione
dei segni
di confine che troviamo nella ‘Profezia’. Può trattarsi in entrambi i
casi di
un’ambientazione etrusca, ‘agraria’, trasferita nel mito che, per gli
Etruschi
come per i Greci e i Romani, era una secie di ‘deposito’ di contenuti
religiosi
ai quali si faceva naturale riferimento.
Il passo di Servio presenta una
spiegazione inattesa
dell’inizio della storia ma sempre coerente con la successione di età
legate al
regno degli dei sulla terra. La contentio de agris, cioè la
lotta per il
possesso della terra Etruria, avrebbe caratterizzato l’inizio
della
storia del popolo etrusco e contemporaneamente sarebbe stata
all’origine del
diritto legato ad essa per difenderne l’integrità.
Sembra anche per questo, in vista
di una conclusione del
nostro discorso, che la ‘Profezia’ sia ugualmente inserita nella
successione
dei regni divini (e delle età metalliche) e nella successione dei saecula.
C’è da domandarsi, tra le altre
questioni che rimangono
aperte, in cosa consistesse principalmente la differenza fra Etruschi e
Romani
nella concezione della storia, ammesso che si possa parlare di una
concezione
‘omogenea’ della storia.
Faccio ancora riferimento a
quanto ho avuto l’opportunità di
dire in questa Sede qualche mese fa. L’espiazione delle guerre civili
consentì
a Roma di rinnovarsi evitando che il declino si trasformasse in una
decadenza
irreversibile. A permettere questa ripresa, suggerisce Orazio, sarà la pietas,
non frutto di un sentimento ma espressione della coscienza – che è solo
romana
– che la grandezza di Roma dipende dalla benevolenza degli dei: eorum
numine
hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum, pietate
ac
religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi
gubernarique
perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus (Cic. De
haruspicum responsis,
19). Con gli dei i Romani stabilirono un patto fondato sulla pietas,
che sarà perciò stabile e definitivo, come dirà Virgilio (Verg. Aen. I 279):
imperium
sine fine dedi.
TESTI
Gromatici Veteres, ed. Lachmann, vol. I, pp. 350 sg.
Scias mare ex aethera
remotum. Cum autem Iuppiter terram Aetruriae sibi vindicavit,
constituit
iussitque metiri campos signarique agros. Sciens hominum avaritiam
vel
terrenum cupidinem, terminis omnia scita esse voluit. Quos
quandoque quis ob
avaritiam prope novissimi octavi saeculi data sibi homines malo
dolo
violabunt contingentque atque movebunt. Sed qui contigerit moveritque,
possessionem promovendo suam, alterius minuendo, ob hoc scelus
damnabitur a
diis. Si servi faciant, dominio mutabuntur in deterius. Sed si conscientia dominica fiet, caelerius domus
extirpabitur, gensque eius omnis interiet. Motores autem pessimis
morbis et
vulneribus efficientur membrisque suis debilitabuntur. Tum
etiam terra a
tempestatibus vel turbinibus plerumque labe movebitur. Fructus saepe ledentur decutienturque imbribus
atque grandine, caniculis interient, robigine occidentur. Multae
dissensiones in populo. Fieri haec scitote, cum talia scelera
committuntur.
Propterea neque fallax neque bilinguis sis. Disciplinam pone in corde
tuo.
Sud. s.v.Τυρρηνία. Ἱστορίαν
δὲ παρ᾿ αὐτοῖς ἔμπειρος ἀνὴρ συνεγράψατο·
ἔφη γὰρ τὸν δημιουργὸν τῶϝ πάντων θεὸν ιβ᾿ χιλιάδας ενιαυτῶν τοῖς πᾶσιν
αὐτοῦ
φιλοτιμήσασθαι κτίσμασι, καὶ ταύτας διαθεῖναι τοῖς ιβ᾿ λεγομένοις
οἴκοις· κτλ
Censor., De die natali,
18, 6-7: Proxima est hanc magnitudinem, quae vocatur
dodecaeteris ex
annis vertentibus duodecim. Huic anno Chaldaico nomen est…
Ovid., Her.
IV 131 sgg.: vetus
pietas, aevo moritura futuro, rustica Saturno regna tenente fuit. /
Iuppiter
esse pium statuit, quodcumque iuvaret, / et fas omne facit fratre
marita soror.
Serv.,
ad Verg. Buc. IX 46 (= H.R.R.
II, p. 56): Vulcatius aruspex in contione cometen esse [i.e. sidus
Caesaris], qui significaret exitum noni saeculi et ingressum
decimi. Sed
quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum,
et
nondum finita oratione in ipsa contione concidit.
Serv.,
ad Aen. IX 561 (= Corp. Christian., ser. Lat.
91): Iuppiter
et Saturnus reges fuerunt, sed dum Iuppiter cum Saturno patre haberet
de agris
contentionem, ortum bellum est.
Cic., De haruspicum
responsis,
19: quis est tam vaecors qui… cum deos esse intellexerit, non
intellegat eorum
numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? …
pietate
ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia
regi
gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.
Verg.,
Aen. I 279: imperium sine fine dedi.
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