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L’identità originaria dei Romani

nei testi epigrafici più antichi

di Alfredo Valvo


All’epigrafia è assegnato il compito di raccogliere e di studiare le testimonianze cronologicamente più risalenti della nostra civiltà. Ad essa è legata la speranza degli studiosi del mondo antico di ricostruire la storia più remota cercando le vestigia del passato nella loro forma più concreta, rappresentata dalla parola. La parola rimane perciò il fondamento del nostro procedere risalendo indietro nel tempo.

Arnaldo Momigliano aggiungeva alle fonti documentarie tradizionali per la ricostruzione storica anche la storia delle parole, che tante volte aiuta in modo decisivo la conoscenza storica, come è il caso di alcune magistrature romane, ad esempio la pretura (da prae-ire), oppure il procedimento dell’auctoritas patrum, col quale i patres, depositari della legittimità del potere e, prima, fondatori della civitas, ‘facevano crescere’, augebant, le decisioni prese nei concilia plebis finché alla plebe non furono riconosciuti pari diritti dai discendenti degli antichi patres, i patricii. La conoscenza storica non può prescindere dalla conoscenza dell’evoluzione linguistica e la civiltà dell’epigrafia, come ebbe a chiamarla il compianto Giancarlo Susini, che ricordiamo con rimpianto unanime nel decennale della scomparsa, è tributaria delle conoscenze acquisite dalla glottologia in quasi due secoli di ricerche e di riflessioni, affidate ai celebri Dizionari etimologici della lingua greca e latina e ad opere indispensabili tanto allo storico quanto al glottologo come Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Emile Benveniste, al quale faremo spesso riferimento.

I Romani non ci hanno detto molto finora sulla loro identità originaria. Anzi siamo ben lontani dall’avere cognizione sufficiente dei loro inizi. E’ quasi impossibile dare una collocazione precisa all’origine dei comizi, a cominciare da quelli curiati, sebbene anche in questo caso ci sovvenga la storia della parola: curie da *co-viriae, l’assemblea del popolo in armi. Essi eleggevano probabilmente il loro capo, come lascia intuire la lex de imperio, al quale era dato il nome di rex. Ma già qui ci imbattiamo in numerosi problemi. Questo nome, che leggiamo con sicurezza in ben due fra i documenti epigrafici più antichi (il Cippo del Foro e una grande ciotola di bucchero con graffito all’interno, al centro, il nome rex), entrambi anteriori alla fine del VI secolo o, al massimo, risalenti al principio del V, compare solo alle due estremità del mondo indeuropeo e manca nella parte centrale di esso. Il Benveniste richiama in proposito il fenomeno della sopravvivenza di termini relativi alla religione e al diritto alle due estremità del mondo indeuropeo: nella società indoiranica e in quella italoceltica[1]. Questo fenomeno è riconducibile all’esistenza di potenti collegi di sacerdoti depositari delle tradizioni sacre, che essi mantengono in vita con un rigore formalistico. In proposito basti ricordare a Roma il collegio dei Fratres Arvales, presso gli Umbri il collegio dei Fratres Atiedii di Iguvium, presso i Celti i Druidi; per l’Oriente i sacerdoti indiani o i Magi iranici, conservatori della tradizione zoroastriana. Naturalmente, è dallo stesso tema *reg- che derivano composti come Vercingeto-rix.

Da quanto detto a riconoscere l’originaria funzione sacerdotale del rex anche a Roma il passo è breve, ed è altrettanto spiegabile, sebbene qui siamo costretti a saltare passaggi probabilmente irrinunciabili per i glottologi, la permanenza nella tradizione romana, e quindi nell’uso, del termine rex come appunto rex sacrorum, che non è soltanto ‘ciò che resta’ della funzione regale ma piuttosto la restituzione alla parola della sua funzione principale e originaria. Forse anche il ruolo dell’interrex in piena età storica – quello di convocare i comizi per eleggere i consoli suffecti in caso di morte dei consoli ordinari – attingeva più all’auctoritas che emanava dalla funzione sacerdotale della regalità che alla personalità di chi ne era investito, il quale tuttavia doveva appartenere al patriziato ed aver rivestito le magistrature (prassi da riferire alla tradizione legata ai comizi curiati, degli uomini in arme).

Tuttavia il nome rex riserva altre sorprese, almeno per gli epigrafisti. Il termine regio, il verbo regere da cui rectus, altri derivati da questi, tutti formati sull’originario *reg-, indicano linee rette tracciate sulla terra o sulla volta del cielo; quest’ultima operazione è propria degli auguri ed è descritta da Livio (I 18,7) in un linguaggio altamente significativo per la sua non affettata arcaicità e i riferimenti al costume augurale: [Numa] accitus, sicut Romulus augurato urbe condenda regnum adeptus est, de se quoque deos consuli iussit. Inde ab augure, cui deinde honoris ergo publicum id perpetuumque sacerdotium fuit, deductus in arcem,in lapide ad meridiem versus consedit. … Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto, deos precatus, regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit; signum contra quo longissime conspectum oculi ferebant animo finivit; tum lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, ita precatus est: Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium cuius ego caput teneo regem Romae esse, uti [= utinam] tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines quos feci.

Regio rappresenta il punto d’arrivo di una retta tracciata per terra o in cielo (in termini augurali templum in terris, templum in caelo)[2] che delimita gli spazi (detti appunto regiones) entro i quali uomini e dei possono comunicare tra loro attraverso signa, gli auspici, domandati e interpretati dagli auguri, la cui funzione sembra essere stata connessa originariamente con la elezione del rex. Conferma del significato originario di regio si trova nelle espressioni recta regione, recto rigore (tracciare una linea retta) di uso quasi esclusivamente agrimensorio. Regere e quindi rectus hanno perciò il significato di ‘tracciare una linea retta’, ‘retto, diritto come una linea tracciata’, nella sua valenza tecnica e anche morale. La distinzione degli spazi, indicata anche dall’espressione regere fines, ‘tracciare confini in linea retta’ è alla base della convivenza pacifica di uomini e dei sulla terra, dunque della pax deorum. Regio è dunque un limite di pace, essenziale per la sopravvivenza umana, deciso d’intesa con gli dei: di qui il carattere di assoluta sacralità dei confini terrestri, del confine fra la Città e ciò che sta fuori di essa, del limite del sacro e del profano, del territorio di pertinenza della divinità e perciò del fas, termine al quale ricorre Livio, forse già presente nel testo inciso sul Cippo del Foro, se stiamo all’integrazione proposta (nella riga 4) dal Goidànich con riferimento ai loca, e comunque mai esclusa dalle letture successive. Il Cippo del Foro, del resto, è nella interpretazione più accreditata un lapis finalis tra sacro e profano e la minaccia di sacer contenuta in esso è la conseguenza stessa del dominio del fas. 

Se una prima conclusione si può trarre è certo non secondario in Livio che il primo successore di Romolo, al quale si attribuiscono le istituzioni religiose (mentre solo più tardi il re Hostilius definirà le regole del bellum iustum), definisca e si faccia garante del rispetto degli spazi divini (e quindi degli spazi umani) della Città, all’origine della quale c’è un patto con gli dei, un fatto eminentemente religioso, del quale il rex è garante, come narrava la tradizione della quale Livio è interprete, che coincide con quanto è stato conservato dall’epigrafia più antica di Roma, nella quale il rex è ricordato in due delle testimonianze epigrafiche più remote, forse non solo per caso. Per il Benveniste, «il rex indoeuropeo è molto più religioso che politico. La sua missione non è di comandare, ma di fissare delle regole, di determinare ciò che è, in senso proprio, ‘retto’». Per Cicerone, la recta ratio è la legge, grazie alla quale, egli afferma, consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos… communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Il punto di arrivo di quanto abbiamo detto è la convivenza possibile fra uomini e dei all’interno della civitas, fondata sulla legge comune: la legge naturale. La presenza del rex è rivelatrice di tutto questo. Sotto questo punto di vista sembra accertata la prevalenza della componente religiosa del regime monarchico nella Roma delle origini.

Questo per quanto riguarda il rex.

lapis satgricanus

Nel Lapis Satricanus, databile a poco dopo la metà del VI secolo a.C. (il supporto epigrafico era già stato reimpiegato come gradino nel tempio di Mater Matuta almeno una diecina d’anni prima della fine del secolo VI), quindi in età ancora monarchica, sono presenti le due parole socii (con l’integrazione delle prime tre lettere: ---]iei) e suodales (seguendo lettura e interpretazione di M. Guarducci).

L’obbedienza alle leggi, delle quali siamo tutti schiavi per essere tutti liberi (Cicerone nella pro Cluentio), è condizione, fin dagli inizi, perché possa esistere la civitas. Ancora Cicerone esplicita nel I libro del De re publica (25, 39), per bocca di Scipione Emiliano, le condizioni per poter definire il populus: Est igitur, inquit Africanus, res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Nel passaggio alla diarchia assume evidenza il popolo. Esso non è una somma informe di persone ma un organismo ben ordinato che si distingue per il consensus iuris, la condivisione delle norme che regolano la vita comune (ius indica in origine la conformità a una regola [Benveniste] ed è perciò un concetto religioso) e la communio utilitatis, la condivisione del bene comune. Su questi due fondamenti è costruita la societas romana (sociatus).

Con la parola socius, colta nella medesima accezione di ‘alleato’ in cui la usa Cicerone, e di ‘compagno’, in particolare ‘compagno d’arme’, per metà integrata ma senza alternative consistenti, si apre il Lapis Satricanus. L’iscrizione ricorda i latori del dono o ex-voto a Mater Matuta: sono i compagni di Publio Valerio, dei quali si precisa la connotazione anche come suodales di Marte.

La societas che legava a Publio Valerio i suoi compagni è una alleanza stretta sul piano di parità, un rapporto diverso quindi da quello di clientela nel quale la differenza di forze fra chi domanda, i clientes, e chi concede la protezione, il patronus, è costitutiva del vincolo che si instaura. L’alleanza e la clientela però sono entrambe fondate sulla fides, che anche nel nostro caso si rivela il primo vincolo stabile, conosciuto e testimoniato, posto a fondamento della società romana.

Il carattere fortemente conservativo dei Romani nel campo delle istituzioni tanto di quelle civili quanto di quelle religiose, e l’indicazione di societas precisata dall’altra indicazione suodales permettono alcune considerazioni. Si può riconoscere nel vincolo di alleanza fra uomini d’arme un legame già fondato sulla fides, che in senso proprio è il ‘credito’ del quale si gode presso qualcuno ma è anche l’affidabilità altrui (ad es., degli dei quando se ne domanda la protezione: pro divom fidem oppure: di, obsecro vestram fidem [Benveniste, 87]). Nel caso dei socii di Publio Valerio prevale la fides reciproca: la societas è composta per definizione da uomini liberi nell’aderirvi, essa perciò è fondata su una uguaglianza fra coloro che ne fanno parte. Si tratta di uno ‘scambio’ reciproco di fides. Se ascoltiamo Cicerone (de off. 3, 31, 111): nullum… vinculum ad adstringendam fidem iure iurando maiores artius esse voluerunt. Id indicant leges in duodecim tabulis etc. Il vincolo di fides si stringeva solo attraverso il giuramento: è probabile che anche i compagni di Publio Valerio siano ricorsi a questo antichissimo vincolo, più forte di ogni altro, per confermare la fides reciproca.

La sodalitas, che nel Digesto (47, 12, 4) presuppone l’appartenenza ad un collegium (suodales sunt qui eiusdem collegii sunt quod Graeci ἑταιρίαν vocant), precisa il legame tra i compagni di Valerio[3]. Essi oltre al vincolo di fides sono uniti anche dal comune culto a Marte, il ferus Mars del Carmen Arvale. La netta distinzione fra socii e sodales è importante perché segna la altrettanto netta divisione fra il legame di societas generato dalla fides e quello religioso, manifestamente più forte e solido del primo.

Le parole rex, socii, suodales, che compaiono con certezza nei documenti più antichi e che rendono possibile qualche riflessione con più frutto di altre, non possono aprire spiragli decisivi per rispondere alla domanda che ci siamo implicitamente posti all’inizio, se sia possibile riconoscere aspetti identitari delle origini di Roma, tanto più in un breve e forse un po’ tormentato itinerario come quello seguito fin qui. Rimane comunque accertato che nell’identità originaria di Roma sono già presenti le connotazioni della società romana pienamente evoluta. Certe nozioni non possono esistere senza un loro retroterra né evolversi senza aver in sé i contenuti che presentano alla fine della loro evoluzione. Per questo pare di poter concludere che Roma presenta caratteristiche ben riconoscibili già nella documentazione epigrafica più antica fortunatamente a noi pervenuta.   

 

TESTI

Liv. I 18,7: [Numa] accitus, sicut Romulus augurato urbe condenda regnum adeptus est, de se quoque deos consuli iussit. Inde ab augure, cui deinde honoris ergo publicum id perpetuumque sacerdotium fuit, deductus in arcem,in lapide ad meridiem versus consedit. … Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto, deos precatus, regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit; signum contra quo longissime conspectum oculi ferebant animo finivit; tum lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, ita precatus est: Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium cuius ego caput teneo regem Romae esse, uti [= utinam] tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines quos feci.
 
Cic. De leg. I 7, 23: lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos… communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt.

Cic. De re publ. I 25, 39: Est igitur, inquit Africanus, res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus.
 
Cic. De off. III 31, 111: nullum… vinculum ad adstringendam fidem iure iurando maiores artius esse voluerunt. Id indicant leges in duodecim tabulis etc.



[1] Benveniste, Dizionario delle istituzioni indoeuropee, Torino 2001, I, pp. 291-6.

[2] Varro, L.l. VII 8.

[3] Versnel, Lapis Satricanus, in Lapis Satricanus. Archaeological, Epigraphical, Linguistic and Historical Aspects of the New Inscription from Satricum. By C. M. Stibbe, G. Colonna, C. de Simone, H. S. Versnel, M. Pallottino (Archeologische Studiën van het Nederlands Instituut te Rome. Scripta Minora v). Rome: Nederlands Instituut te Rome, 1980. pp. 108-127.



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