"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Europa e tradizione
di M. Morani
(redaz. originaria: In Europa verso la tradizione, Libertà di Educazione, novembre 1996, pp. 22-26)
Sorprende la notizia che gli Italiani
dovranno pagare una tassa d’ingresso, una specie di pedaggio, per
entrare nella futura Europa unita. Sorprende, perché di quest’Europa
gli Italiani dovrebbero essere ammessi a far parte di diritto, come
soci fondatori. Infatti, se esiste nell’Europa di oggi la percezione,
sia pure confusa, di un legame culturale che lega le varie culture e le
varie etnie, lo si deve all’opera unificatrice che da due millenni e
mezzo a questa parte Roma ha svolto, prima come centro politico, poi
come sede del Papato. Si può immediatamente obiettare che, per quanto i
politici e i giornali facciano un gran parlare di Europa, in realtà
l’apparente dibattito che sembra svolgersi davanti ai nostri occhi è
inconsistente, perché prescinde completamente dal riconoscimento di un
fondo culturale comune: si parla di moneta comune, di abbattimento
delle barriere doganali, di libertà di movimento per le merci. Non che
si tratti di problematiche irrilevanti: chi si occupa di linguistica
storica sa quanta importanza abbiano avuto in ogni epoca i mercanti,
nella diffusione di oggetti e parole, di significati e di significanti,
di concetti e culture insomma: ma è evidente che il cuore del problema
è volutamente lasciato in disparte, o deliberatamente censurato, per il
semplice fatto che uno sforzo di comprensione o di approfondimento
della nostra identità culturale costringerebbe a rimettere in
discussione una serie di principi, che sono stati imposti in maniera
intransigente (in qualche caso addirittura dogmatica) dalla cultura
dominante negli ultimi decenni, ma che si rivelerebbero sostanzialmente
estranei alla nostra tradizione culturale.
C’è un aspetto che molto spesso è stato
trascurato. Mentre negli ultimi anni si è venuto ampliando il dibattito
sull’unità economico-politica d’Europa (tanto che oggi chi afferma la
sostanziale irrilevanza di questa passa facilmente per oscurantista),
in maniera direttamente proporzionale ha preso piede un atteggiamento
critico nei confronti della nostra cultura occidentale, alla quale sono
stati imputati molti dei mali che affliggono l’umanità: secondo questa
mentalità le guerre, le carestie, la fame del terzo mondo, il degrado
ambientale, ogni altro guasto del nostro pianeta sono esclusiva colpa
dell’«uomo bianco». Questa impostazione è stata assunta, forse in buona
fede, ma sicuramente con molta ingenuità, anche da molti cattolici, che
non si sono pienamente resi conto di come queste critiche celassero in
realtà una pregiudiziale anticristiana, sia nel giudizio storico sia
nell’atteggiamento di fondo: nel giudizio storico, perché la critica
alla pretesa volontà di dominazione della cultura occidentale sulle
altre culture coinvolge necessariamente l’attività della Chiesa, che
più di ogni altra ha raccolto e proposto i valori più autentici del
pensiero greco-romano (si pensi come spesso si affermino, in maniera
superficiale e non di rado con uso deliberato della disinformazione,
pretesi ideali di tolleranza religiosa in culti non cristiani, e per
contro come l’evangelizzazione e la missionarietà della Chiesa venga
presentata come un’opera di espropriazione culturale, magari anche
violenta), e nell’atteggiamento di fondo, perché affaccia l’idea di
culture e popolazioni non toccate dal peccato originale, che sarebbe,
non si vede bene perché, prerogativa del solo uomo occidentale.
Queste censure e questi travisamenti, gli uni e gli altri frutto di
volontà e di scelte precise, da parte di chi ha maggiore potere nel
determinare gli orientamenti di pensiero della nostra società (i mezzi
di comunicazione di massa, i politici, gli opinionisti), comportano una
maggiore responsabilità da parte di chi opera nella scuola, che è
rimasta, a questo punto, l’unico spazio per un ripensamento serio e
sereno di questi problemi. L’insegnante deve far recuperare agli
allievi il formarsi, attraverso un incessante lavorio svoltosi
attraverso i secoli, di una coscienza e di una mentalità che ci
definisce oggi come appartenenti alla cultura che possiamo definire
genericamente occidentale. L’insegnante di latino (e, nel liceo
classico, di greco) si trova in una situazione di privilegio, perché il
suo lavoro lo colloca agli albori di questo processo.
Non possiamo, per ovvie ragioni di spazio, entrare più che tanto nel
merito di questa problematica. Ci limitiamo a segnalare alcuni spunti
di riflessione, che toccherà poi all’insegnante rendere vivi ed
efficaci nel concreto del lavoro scolastico.
1. Uno studio interamente focalizzato sul passato, come sono per forza
di cose gli insegnamenti della tradizione greco-latina, permette di
valorizzare un concetto tra i meno presenti nella coscienza dell’uomo
contemporaneo: il concetto di tradizione. Negli ultimi decenni è venuta
aumentando la richiesta di dare maggiore spazio all’attualità, sia
nell’ambito storico sia nell’ambito letterario e artistico. Non a caso
queste richieste si sono fatte sempre più insistenti e pressanti a
partire dal ’68 e hanno sedotto un buon numero di insegnanti, di
operatori culturali, persino di ministri, ma le ragioni che le hanno
ispirate non sono differenti da quelle che hanno portato ad amputare in
modo grossolano il dibattito sull’Europa dai suoi aspetti più profondi:
l’affronto dell’attualità non costringe all’esame di valori che
susciterebbero interrogativi scomodi rispetto al nostro clima
culturale. Non soltanto ogni limitazione dell’orizzonte culturale
costituisce comunque di fatto un impoverimento della nostra esperienza
umana, ma dobbiamo sempre ricordare che né gli individui né le culture
possono fare a meno della memoria di sé stessi. Tradizione significa
(come è il valore della parola latina, traditio) trasmissione
di un patrimonio di esperienze (non sempre e non tutte necessariamente
positive, naturalmente), che proprio per il fatto di essere già
definitive si presentano come paradigmatiche («patrimonio per sempre»,
come diceva Tucidide) e quindi capaci di creare orientamenti per le
scelte di oggi. È nella valutazione di quanto di positivo ci offre il
nostro passato che possiamo procedere alla costruzione del nostro
futuro, rendendo le nostre istituzioni e il mondo in cui viviamo sempre
più coerente con le nostre aspirazioni e con le esigenze che
l’accrescersi delle nostre cognizioni e delle nostre capacità richiede.
2. Una delle caratteristiche più importanti della cultura greco-romana
è il suo carattere universale: tanto la cultura greca quanto la cultura
latina hanno avuto la capacità, non solo di elaborare contenuti
autonomi, ma anche di riprendere da altre culture quanto di positivo
esse offrivano e di adattarlo alle proprie esigenze. Elementi orientali
si trovano certo nella cultura greca delle origini, ma è indiscutibile
il fatto che comunque essi sono inseriti all’interno di un sistema
originale. Si pensi al caso dell’alfabeto. L’alfabeto greco è di
derivazione semitica (fenicia), ma rispetto al modello esso presenta
un’innovazione di grandissima portata: l’idea che ogni lettera dovesse
corrispondere in linea di massima a un fonema, e che ad ogni fonema
dovesse corrispondere una lettera. Con questi miglioramenti la
scrittura fenicia si prestava a divenire uno strumento di uso
universale: l’alfabeto greco, nei suoi due principali adattamenti (il
latino e il cirillico), è divenuto l’alfabeto di tutte le grandi lingue
che si richiamano alla cultura occidentale. Inoltre la cultura
greco-romana ha spesso avuto una capacità vivificatrice, che ha
consentito ad altre culture di dotarsi dei mezzi necessari per
comprendere, esprimere e valorizzare la propria identità culturale:
all’origine di molte culture europee ed orientali (la slava, la
siriaca, l’armena, l’araba) sta una feconda opera di riappropriazione
dei classici greci: chi ha una conoscenza anche minimale delle vicende
arabe sa quanta parte abbia la rilettura dei testi greci nel
determinare lo sviluppo della scienza araba o della teologia islamica.
Analoghe osservazioni si possono fare per la cultura celtica o
germanica, che poterono acquisire consapevolezza prima, maturità
espressiva poi grazie allo scontro-incontro coi Latini.
3. Quanto abbia agito in profondità il processo di unificazione
culturale dell’Europa su base greco-latina si può misurare in modo
palpabile dall’analisi linguistica. La sintassi di tutte le principali
lingue d’Europa è esemplata, in ultima analisi, sul modello greco,
tanto che uno studioso turco, S. Sinanoglu, anni fa, ha potuto
affermare che «Gli Italiani, i Francesi, gli Inglesi, i Tedeschi di
oggi sono in realtà greci che invece del greco parlano italiano,
francese, inglese, tedesco». Chi mettesse a confronto il sistema
verbale o la sintassi del gotico (cioè di una lingua germanica che ci
si presenta ancora abbastanza immune dagli influssi greco-latini) e del
tedesco o dell’inglese moderni, vedrebbe subito quali profonde
trasformazioni abbia subito l’impianto della lingua, che ha acquisito
una potenzialità ben più diversa nell’espressione di concetti astratti
o nella collocazione cronologica delle azioni. Categorie morfologiche
essenziali, come quella dell’articolo, si sono diffuse dal greco,
attraverso il latino volgare, a tutte le lingue occidentali moderne.
4. Infine, ed è questo forse l’aspetto più importante, hanno la loro
origine nell’antica Grecia e nell’antica Roma tanti concetti che fanno
parte integrante del nostro patrimonio culturale. L’idea che
un’organizzazione politica di tipo democratico possa essere superiore
ad altre modalità istituzionali viene affrontata per la prima volta dai
Greci, che non si accontentarono di porre (con Erodoto) le premesse
teoriche del problema, me cercarono anche di mettere in pratica i
principi, e ad Atene prima, a Roma poi si diede vita a organizzazioni
che avevano la forma della democrazia rappresentativa. Molte altre
grandi tematiche, che sentiamo vicine alla nostra coscienza di uomini
contemporanei, trovano nel mondo antico la loro prima formulazione:
citiamo ad esempio l’ideale cosmopolita affermato dallo Stoicismo (con
quanto da esso scaturisce per diretta conseguenza, dal punto di vista
della tolleranza o della condanna di ogni razzismo); esso trovò
un’applicazione pratica nella costituzione romana, quando, con la Constitutio
Antoniniana, la pienezza dei diritti politici venne estesa
a tutti gli abitanti dell’impero. Il che non significa, naturalmente,
né che queste realizzazioni debbano essere considerate in tutto esenti
da ombre né che nei secoli successivi gli stessi concetti elaborati
dagli antichi non siano stati sottoposti a verifiche e approfondimenti:
il cammino della storia non è necessariamente rettilineo: per quanto i
principi di democrazia e di uguaglianza degli uomini fossero conosciuti
e approfonditi da secoli, tanto da potersi considerare un’acquisizione
ormai indiscutibile, è proprio il nostro secolo che ha dato vita ai
peggiori regimi tirannici della storia, con la negazione completa e
sistematica di questi ideali. Da questo punto di vista lo studio
dell’antico, essendo meno condizionato dall’urgenza di giudizi storici
che potrebbero facilmente essere distorti da situazioni contingenti,
permette una riflessione più nitida e disinteressata sui valori: la
nostra attenzione è più richiamata a considerare il valore in sé che
non a giudicare il modo imperfetto con cui si è tentato di realizzarlo
nel corso della storia, e la stessa esperienza dell’uomo antico può
destare con maggiore vivacità la percezione di valori che nella nostra
esperienza contemporanea risultano offuscati. Tale è ad esempio da una
parte la percezione del senso del limite, dall’altra il desiderio di
essere artefice del proprio destino, che sono due tra le tematiche più
insistentemente dibattute nella tragedia greca: connaturate con queste,
l’esigenza di interrogarsi sul significato della propria vita. Per
l’uomo antico la ricerca della verità è esigenza primaria, e per verità
si intende lo svelarsi delle cose nella piena nitidezza del loro senso,
il recupero definitivo di esse, in quanto verità (a-létheia)
è innanzitutto ‘liberazione dall’oblio’. Questa tensione si pone in una
posizione antitetica rispetto al relativismo dell’uomo moderno, che
tende a confondere pericolosamente il concetto di tolleranza con quello
di disinteresse o d’incapacità nel pronunziarsi sulla validità delle
esperienze altrui, confondendo il livello politico della tolleranza con
la necessità di una pronunzia chiara, ed eventualmente di un’adesione
personale, nei confronti delle proposte che gli si pongono come capaci
di dare un senso alla sua esistenza. Viceversa l’uomo antico è convinto
che per l’affermazione della verità si possa spendere la propria vita
fino al sacrificio del bene più grande, l’esistenza, come è
testimoniato da personaggi tanto della letteratura (Antigone) quanto
della storia (Socrate). E ancora, a differenza di quanto avviene nella
cultura moderna, l’incapacità dell’uomo ad adeguare la sua condotta al
valore intravisto non è occasione per negare la validità del principio
stesso: l’uomo antico riconosce la differenza fra il bene e il male,
anche se è consapevole che è spesso il male ad esercitare un’attrattiva
tale da portarlo all’errore: perfino il meno impegnato dei poeti
pagani, Ovidio, afferma che, pur essendo capace di distinguere tra male
e bene, segue ciò che è male (video meliora proboque, deteriora
sequor): alla luce di questa autocoscienza, probabilmente non
avrebbe usato la sua Ars amandi per il lancio nelle edicole di
una nuova collana di classici.
Il Cristianesimo eredita e valorizza quanto di positivo il mondo pagano
aveva elaborato. Se la ricerca della verità aveva condotto l’uomo
pagano al raggiungimento faticoso di verità parziali, il Cristianesimo
è la rivelazione della verità ultima e definitiva. La Chiesa è l’erede
naturale di quella tensione universalistica che animava l’uomo romano,
e gli faceva concepire la conquista di un impero come occasione
concreta per affermare ideali di giustizia (governare la pace e
abbattere la violenza, come ricorda nel regno dei morti Anchise al
figlio Enea). Il messaggio cristiano non è legato a nessuna contingenza
di stirpe, di popolo, di tempo: esso si propone a tutti gli uomini e
tutte le situazioni. La Roma cristiana ricerca nella letteratura, nelle
scienze, nella tradizione retorica, nella lingua della Roma pagana gli
strumenti, che le consentano di adempiere ai bisogni
dell’evangelizzazione: adattati alle nuove necessità e risignificati,
questi strumenti diventano un potente fattore di unificazione culturale
e intellettuale, che nello stesso tempo è fortemente rispettoso delle
diversità locali, perché se il latino è la lingua universale della
Chiesa, in ogni diocesi si parla la lingua del luogo (fosse questa un
latino con inflessioni locali o una lingua germanica o celtica o altro
ancora): e se l’abbassamento del livello culturale fa sì che il
semplice fedele fatica a percepire i contenuti dell’insegnamento
cristiano, la Chiesa prescrive che la predicazione nelle Chiese sia
fatta nella rustica romana vel theotisca lingua che qui si
pratica (Concilio di Tours del 813). Ma il
permanere dell’uso del latino costituisce un fattore di continuità
indissolubile che si prolunga fino ad oggi. Scriveva nel 1933 un grande
linguista francese, Antoine Meillet, al termine della sua storia della
lingua latina, che la lingua della Chiesa di Roma è stato il baluardo
di una tradizione culturale che non ha mai conosciuto fratture, e si è
posto come fattore di unità, nonostante la diversità delle lingue
locali, dall’Irlanda alle zone danubiane all’Africa: anche dopo che
cessa di essere una lingua viva e praticata, il latino rimane la forma
mentis
dell’Europa: l’unitarietà dell’alfabeto e della lingua di cultura
occidentale si contrappone alla frammentazione di alfabeti, di lingue,
di Chiese locali che caratterizza l’oriente, precocemente staccatosi da
Roma: «il cattolicesimo romano è ancora oggi la sola religione
veramente mondiale e che merita il nome di cattolica, cioè
“universale”»: e, aggiungiamo noi, parte di questo è anche dovuto al
fatto che l’opera pastorale della Chiesa ha avuto nel messaggio di
salvezza rivolto a tutti gli uomini il contenuto più autentico, nel
latino (lingua della Chiesa e della sua tradizione) lo strumento
espressivo della propria identità culturale, nella cultura classica,
riassorbita e risignificata nei suoi contenuti più autentici e
duraturi, le proprie radici, nel segno di una continuità riconosciuta e
inossidabile.
Nell'immagine: il testo dell'editto di Caracalla (cosiddetta Constitutio Antonianiana)
ripreso da FIRA (Fontes Iuris Romani Anteiustiniani) vol. I (Leges), Ed. S. Riccobono, Firenze 1968 2.
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