Il conubium nella politica
romana di integrazione
di
Alfredo Valvo
Era
ben presente
nella coscienza dei Romani – rispecchiata dalla loro tradizione più
antica – che gli inizi della loro grandezza non fossero stati
particolarmente nobili
ma, anzi, piuttosto umili; di questo, oltre ad essere pienamente
coscienti, i Romani andavano addirittura fieri. Romolo avrebbe aperto
un luogo (asylum) per ospitare tutti coloro che lo volevano. Lì sarebbe
confluita dalle città vicine una turba di miserabili, senza distinzione
alcuna, liberi e servi, che sarebbero
stati – dice Livio – il fulcro della iniziale grandezza di Roma (I 8,
6): Idque primum ad coeptam magnitudinem
roboris fuit.
Riempita,
per
così dire, la città a questo modo, mancavano le donne e si comprendeva
che senza di loro la grandezza della futura città non sarebbe durata
più
di una generazione. La ragione di questa situazione di isolamento dei
primi abitatori della Città, che noi attribuiremmo alla scadente
umanità dei potenziali mariti, viene invece attribuita da Livio, cioè
dalla sua fonte, all’assenza di conubium con le
popolazioni vicine: nec
cum finitimis conubia essent (9, 1). Più
avanti nel racconto liviano (9, 14) Romolo imputa al senato di non aver
voluto concedere il conubium ai vicini: ipse Romulus
circumibat docebatque patrum id superbia factum qui conubium finitimis
negassent, per un verso imputando ai patres le responsabilità
della situazione creatasi dopo il rapimento delle sabine e per un altro
anticipando uno
dei punti nodali della lotta per la parificazione fra patrizi e plebei:
la concessione del conubium, tema polemico che probabilmente Livio trovava nella sua
fonte (forse Licinio Macro). E’ noto, infatti, che lo scontro fra i
patrizi e i plebei era imperniato proprio sul conubium, che avrebbe
parificato il diritto testamentario degli uni a quello degli altri e la
legislazione romana sui minori. Ma prima del rapimento delle sabine,
Romolo aveva
cercato di instaurare una alleanza con le popolazioni vicine che
prevedeva anche la concessione del conubium: misit qui societatem
conubiumque novo populo peterent (9, 2).
A questa richiesta i vicini diedero una risposta oltraggiosa: i Romani
avrebbero potuto aprire un asylum anche per le donne; questo sarebbe stato qualcosa che
assomigliava al conubium. Tali erano stati gli antefatti delle origini.
Nel
nono
capitolo del I libro Livio menziona per ben quattro volte il conubium in un contesto
nel quale sono anticipati contenuti molto più tardi, costruiti ad arte,
anche se ben connessi al racconto delle vicende nelle quali sono
inseriti.
Del conubium sono delineati, anche se brevemente, i vincoli di ordine
giuridico: esso fa parte del corredo di impegni reciproci connesso alla
conclusione di un’alleanza
(societas)
e rappresenta un vincolo di amicizia, quindi un aspetto particolare e non secondario dei rapporti
interstatali. Esso è dunque un elemento,
unico e insostituibile, del ius gentium, cioè, nella accezione corrente, della base
comune di
intesa fra stati costituita da princìpi
comuni.
Se
Livio si
ispira a vicende assai posteriori per raccontare quelle iniziali della
storia di Roma, tuttavia menziona fra i princìpi giuridici condivisi
solo il conubium come aspetto particolare del commercium. Non c’erano
dunque, a conoscenza di Livio, altri istituti più antichi del conubium per garantire
l’uguaglianza giuridica del matrimonio fra cittadini romani e
contraenti di stato giuridico diverso (intendo così l’espressione
‘matrimoni misti’) e, implicitamente,
il conubium
era l’unico mezzo del diritto ‘internazionale’ per favorire
l’integrazione nello stato romano. Il diritto romano riconosceva
come iustae nuptiae (matrimonio legittimo) solo quelle fra cittadini romani.1 Le principali questioni
poste dai matrimoni misti, al di là delle narrazioni leggendarie come
il rapimento delle donne sabine, erano la tutela del patrimonio
ereditario e la conservazione della compattezza civica (è di notevole
interesse
incontrare un provvedimento non dissimile, ancora vigente nel I secolo
a.C. e testimoniato da Cicerone nell’orazione pro Balbo, cap. 32, per la
tutela di alcune popolazioni di origine celtica dell’Italia
settentrionale, tra i quali
Insubri e Cenomàni; così anche per Elvezi e Iapudi: quorum in foederibus exceptum est ne quis eorum a nobis
civis recipiatur).
Nelle
sue
applicazioni fra gli iura riconosciuti ai Latini e a noi noti, il conubium rientrava nel più
vasto istituto del commercium, cioè il diritto riconosciuto a tutti i Latini – fin dal
V sec. a.C. – e a coloro che godevano del ius Latii, di stipulare contratti (come il matrimonio) con
cittadini romani. Ma in presenza del conubium un romano poteva contrarre un matrimonio legittimo anche
con una donna peregrina, cioè priva di stato giuridico, senza rinunciare all’uso
dei beni ereditari e ai diritti della paternità.
Emerge
chiaramente da quello che si è detto fin qui che la questione dei
matrimoni misti trovava soluzione soltanto nella concessione del conubium da parte romana:
questo sta a indicare che lo strumento del conubium era stato
istituito con finalità di politica estera ma anche a fini interni,
quando la parificazione degli ordini non era stata ancora raggiunta. La
necessità
di garantire il conubium serviva ad impedire che, attraverso il matrimonio, si
potessero condividere, senza la volontà romana, gli stessi diritti in
materia
ereditaria e l’ingresso nella civitas.
***
Il
conubium fra patrizi e
plebei era stato esplicitamente escluso dal corpus di leggi contenuto
nelle XII tavole, assumendo così il divieto di conubium nei matrimoni
misti la forza di legge: Cicerone, a commento della disposizione,
afferma (de
re publica II 63): ut ne plebei cum
patribus (conubia) essent, inhumanissima
lege sanxerunt. Nonostante l’indubbio
successo della plebe nell’aver ottenuto che fossero messi per iscritto
il contenuto delle leggi e le norme di procedura che ne garantivano la
corretta applicazione, si dovette
attendere qualche anno perché il tribuno della plebe L. Canuleio
ottenesse la definitiva parificazione sul piano del diritto attraverso
il riconoscimento del conubium fra patrizi e plebei:2
in tal modo non c’era neppure più bisogno di estendere il conubium poiché i
matrimoni contratti fra cittadini rientravano, salvo eccezioni, nelle iustae nuptiae. Appartenere alla
stessa civitas e condividerne altri diritti non aveva comportato
automaticamente la condivisione del conubium, che rimase sempre un istituto parallelo e non
subordinato alla civitas romana, almeno finché i rapporti fra patriziato e plebe
rimasero conflittuali.
Il
riconoscimento del conubium (a rigore di competenza del popolo romano, nella pratica
assai probabilmente lasciato ai censori, ai quali era affidato il
controllo sulle questioni di cittadinanza) rimase invece necessario per
i matrimoni
fra romani e latini. A questi ultimi erano riconosciuti una serie di
diritti che li parificavano ai cittadini romani (tra i quali commercium e conubium, ius migrandi). Di tutti questi
diritti beneficiavano gli abitanti delle coloniae latinae: infatti molti coloni avevano rinunciato alla
cittadinanza romana per fruire delle assegnazioni coloniarie,
ma era riconosciuto loro il diritto di riacquistarla.
***
Il
conubium divenne strumento
privilegiato di integrazione in età imperiale. Sebbene non fosse
esaurita la funzione
per la quale era stato istituito, esso venne concesso su richiesta, a
partire dall’imperatore Claudio, ai soldati dei contingenti ausiliari (auxilia) che dalla
conclusione dei primi trattati di alleanza (foedera) con le comunità
italiche affiancarono le legioni romane, costituite solo di cittadini.
Le truppe ausiliarie, invece, erano solitamente costituite da soldati
di provenienza
italica – per lo più socii foederati e come tali ancora privi della cittadinanza romana – o,
dopo l’istituzione delle provincie, soprattutto
di quelle iberiche della Hispania Citerior e della Hispania Ulterior a partire dal 205 a.C., da soldati provinciali, quasi
tutti peregrini.
***
Una
disposizione
attribuita ad Augusto avrebbe proibito ai soldati in servizio di
contrarre matrimonio.3
Secondo l’opinione
corrente, il divieto avrebbe riguardato legionari e ausiliari. La
lunghissima ferma – alcuni ausiliari servirono per quarant’anni e oltre
– e la permanenza dei contingenti negli stessi luoghi per lunghi
periodi
di tempo favorirono unioni di ausiliari con donne indigene, ovviamente
peregrine. E’ probabile che Claudio avesse da tempo l’intenzione di
prendere un provvedimento per legalizzare le unioni ‘di fatto’
degli ausiliari, sebbene il più antico documento epigrafico a noi noto
riguardo a questo risalga a non prima del 48-50 e il primo datato con
sicurezza sia del 52. Non quindi subito dopo la sua ascesa al trono ma
verso
la fine del suo regno.
La
tradizione
dei Claudii era quella di non considerare la cittadinanza romana un
bene esclusivo. Lo stesso imperatore Claudio sentiva come propria
questa tradizione, come traspare
chiaramente dai documenti epigrafici del 46 (c.d. Tabula Clesiana, vera e propria
sanatoria per le popolazioni anaune delle montagne trentine che avevano
usurpato la cittadinanza)4
e del 48 (S.C. Claudianum, col quale l’imperatore apriva le porte del senato di Roma
ai Galli della Narbonese, ormai pienamente romanizzati; Claudio era
nato a Lione / Lugdunum e si considerava in certo modo loro concittadino).5
In età
repubblicana e fino ad
Augusto, numerosi documenti epigrafici e almeno un papiro attestano che
la cessazione dal servizio militare con onore
(honesta missio) era accompagnata
da riconoscimenti concreti:6
Augusto aveva a tale scopo
istituito l’aerarium militare con i proventi dell’Egitto (Res Gestae 17, 2); questi riconoscimenti, pur presentandosi in
forma analoga, non avevano il medesimo contenuto: in
certi casi era concessa l’immunitas, in altri la civitas, a discrezione di chi la concedeva. E’ probabile che Claudio fosse stato indotto a regolamentare i
privilegi ai veterani per timore che sfuggisse
al controllo dell’imperatore la concessione di civitas e conubium.
Claudio
standardizzò, se si può dire così, la concessione ai veterani
istituendo i diplomi militari. Questi, da non confondere col diploma di
congedo dal servizio
(missio),
contenevano in un formulario rigido e ripetitivo, inciso sopra due
tavolette di bronzo, all’interno e all’esterno, il medesimo contenuto.
La
formula di rito (che subì tuttavia periodici cambiamenti) conteneva la
concessione della civitas al veterano e ai suoi discendenti e, pur limitando
talvolta i beneficiari del provvedimento, il conubium cum uxoribus: ipsis (veteranis), liberis posterisque eorum civitatem dedit et conubium
cum uxoribus quas tunc habuissent cum est civitas iis data aut, siqui
caelibes essent,
cum iis quas postea duxissent dumtaxat singuli singulas (Ti. Claudio Cesare Augusto … ha concesso la
cittadinanza romana ai veterani, ai loro figli e ai loro discendenti, e
il conubium
con le mogli che avevano quando hanno ricevuto la cittadinanza o, se
fossero stati celibi, con le donne che avrebbero sposato più tardi,
purché non più
di una ciascuno).
Senza
soffermarci sulle caratteristiche interne di questi importanti
documenti, che hanno superato il migliaio, è utile valutare l’incidenza
dei provvedimenti imperiali
(constitutiones), dei quali essi sono l’attestazione, sulla demografia e
sulla definitiva integrazione delle popolazioni romanizzate a cui
diedero luogo.
Galli, Hispani e Britanni, come sappiamo
dalle sarcastiche parole della Apokolokyntosis (cap. 3), erano le popolazioni dalle quali provenivano
più numerosi gli ausiliari, come possiamo rilevare dal numero dei
diplomi militari a loro destinati.
Claudio colse l’opportunità che gli si presentava, attraverso le
richieste degli ausiliari di concessione della civitas e del conubium, per
regolarizzare i vincoli matrimoniali e per procedere
all’integrazione di migliaia di soldati che si congedavano ogni anno,
ai quali riservava il premio della cittadinanza alla fine di una ferma
lunghissima e pericolosa ai confini orientali dell’impero. Attraverso
il conubium,
richiesto e probabilmente assicurato a chi aveva svolto senza demerito
il servizio, ogni soldato che riceveva la cittadinanza per sé, i suoi
figli e i suoi discendenti alimentava l’ingresso di
nuovi cittadini. Alle mogli, solitamente donne indigene, e ai figli era
assicurata una posizione di fronte alla legge romana che garantiva loro
un trattamento non dissimile da quello assicurato ai figli dei
cittadini romani.
Il conubium
per gli ausiliari era naturalmente cum uxoribus e non abbiamo testimonianze sulla reciprocità poiché non
era pensabile che una donna romana
si unisse con un militare provinciale, mentre ciò non era impossibile
in ambito civile.
Una
questione di
non facile soluzione è stata per lungo tempo l’apparente esclusione dei
veterani legionari dalla concessione del conubium. Nella sostanza, mentre gli ausiliari potevano
richiedere la concessione della civitas per sé e per i discendenti e il conubium cum uxoribus, non possediamo
alcun esemplare di diploma militare destinato a veterani legionari
(l’eccezione è spiegabile in alcuni casi con la provenienza dei
legionari dalle file degli ausiliari, in particolare
dei classiarii, i marinai, anch’essi arruolati fra gli ausiliari).
Questa apparente anomalia è stata interpretata come una inspiegabile
penalizzazione
nei confronti dei legionari. In realtà l’arruolamento nelle legioni
aveva come condizione preliminare che la probatio avvenisse dopo l’accertamento o la concessione della
cittadinanza romana; perciò i veterani legionari non avrebbero avuto
motivo di domandare la cittadinanza
perché ce l’avevano già. Il conubium non veniva concesso ai legionari per favorire il loro
ritorno nelle comunità d’origine, come
è dimostrabile – ad esempio – per i legionari bresciani (si tratta di
un esempio significativo per la ricchezza delle testimonianze e perciò
per la possibilità di pervenire ad un dato statistico
attendibile), dei quali si conoscono una cinquantina di epitaffi nel
territorio di Brescia e soltanto pochissimi fuori del territorio (due a
Roma e uno a Oescus), a dimostrazione che i legionari ritornavano a casa –
se non morivano in battaglia – riprendendo il loro posto all’interno
della comunità d’origine.7
L’esercito
romano era ancora una volta veicolo di romanizzazione e di
integrazione. Dopo aver difeso i confini dell’impero, ai veterani
ausiliari era affidato un altro
compito: restare nei luoghi dove avevano prestato servizio e formato un
nucleo familiare e costituire così un veicolo di romanizzazione presso
le popolazioni periferiche dell’impero. Claudio non vedeva di buon
occhio che cittadini romani (i legionari) non rientrassero nelle
comunità d’origine perché così facendo queste si impoverivano; inoltre
Claudio e i suoi predecessori erano ostili alla dispersione
nell’impero di cittadini romani (Suetonio, Aug. 40, 3; Claud. 25, 3, usa termini
pesanti per documentare tutto questo: era considerato importante che il
popolo romano fosse «conservato puro e al riparo da ogni mescolanza
corruttrice
di sangue straniero e servile»: stesso motivo ad verbum in Livio IV 1,
2: vd. sopra, nota 2). Ai legionari che si fossero uniti a donne di
stato giuridico
inferiore sarebbe toccato, nella maggioranza dei casi, di concludere un
‘matrimonio misto’ dal quale sarebbero usciti figli senza stato
giuridico (peregrini) in assenza di conubium. Come era previsto da una lex Minicia o Minucia, datata fra il 90 e il 65 o 62 a.C., senza il conubium i figli
ereditavano la condizione del genitore con stato giuridico più basso.
Per questo talvolta compaiono in epitaffi di veterani legionari
espressioni indicative
di situazioni che potremmo definire ‘imbarazzate’ come pro uxore habere,
lasciando
intendere che l’unione era rimasta al livello iniziale.
Per
concludere, Claudio, da buon romano, non escogitò novità per compiere
il passo più lungo verso l’integrazione definitiva dei provinciali ma
mise a frutto la potenzialità degli istituti giuridici di più antica
formazione, in particolare il conubium, antichi ma sempre validi, in grado di portare a
compimento il disegno della definitiva integrazione dei provinciali.
1 Tra
i più recenti studi in proposito è quello di C. Fayer,
La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari, 2
voll., Roma 2005.
2 Liv.
IV 1, 1-6: de conubio patrum et plebis C.
Canuleius tribunus plebis rogationem promulgavit, qua contaminari
sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur.
3 S.E. Phang,
The marriage of roman soldiers (13
BC - AD 235), Leiden - Boston - Köln 2001, pp. 115 sgg.
4 ILS 206. Ultimamente M. Tozzi,
Editto di Claudio sulla cittadinanza
degli Anauni : per la storia della cittadinanza romana delle genti
alpine,
Varzi 2002.
5 ILS
212.
6
A. Valvo, Esercito
e integrazione politica fra tarda repubblica ed età imperiale,
in Pluralidad e integración en el mundo romano,
a cura di F.J. Navarro, Actas
del II coloquio internacional Italia Iberia - Iberia Italia, Pamplona -
Olite del 15 al 17 de octubre de 2008, Pamplona 2010, pp. 287-298.
7 Su
tutto
questo vd. A. Valvo, I
diplomi militari e la politica di integrazione dell’imperatore Claudio,
in Integrazione mescolanza rifiuto. Incontri di
popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità all’Umanesimo,
a cura di G. Urso, Atti del Convegno internazionale, Cividale del
Friuli,
21-23 settembre 2000, Fondazione Niccolò Canussio, Roma 2001, pp.
151-167.