Perché fa bene studiare greco e latino
Carlo Carena
(Il Sole-24 ore, 17 settembre 2008)
Un intervento di Carlo Carena, già
professore di Letteratura latina all'Università di Torino, poi autore, presso la
Casa Editrice Einaudi, di un gran numero di testi e traduzioni, e collaboratore
di varie testate giornalistiche.
L’ultimo numero di «Questioni aperte» (rivista
dell’associazione «Tre-ellle» per l’apprendimento continuo, cui aderiscono
personaggi di primo piano dell’economia e dell’imprenditoria, oltreché della
cultura)(*) s’interroga sull’attualità dei latino. Il fascicolo, uscito
nell’estate, s’intitola infatti «Latino perché? Latino per chi? Confronti
internazionali per un dibattito». Dapprima c’è un confronto con una serie di
dati e tabelle sull’insegnamento del le lingue classiche in Italia, in Europa e
negli Stati Uniti, poi si dà voce alle posizioni di specialisti e no
sull’argomento,
Il latino, dunque, risulta studiato dal 41% degli allievi delle scuole superiori
italiane contro l’1–8% altrove; più vicine sono Francia e Germania. La Gran
Brctagna è tremenda; latino e greco sono opzionali nelle superiori con 2-3 ore
settimanali e l’1-2% degli studenti, al pari degli Usa (ma l’editoria non
demorde e un inglese diceva recentemente che «l’assenza rende il cuore ancora
più desideroso»). Poco entusiasta di queste cifre, l’ex ministro Luigi
Berlinguer ha invocato recentemente una riforma radicale, se non si vuole
rimanere ancora per un po’ soli soletti, per poi assistere tuttavia fatalmente
alla scomparsa anche fra noi di «un tale glorioso trofeo».
Anche Carlo Bernardini, fisico e scienziato tutt’altro che chiuso e sordo al
bello e al resto del mondo, nel suo intervento di piacevolissima verve e
assoluta libeùrtà di pensiero, se la ride dei saccenti d’ogni campo e dei luoghi
comuni in quello dei classici. Riconosciuto nella pars construens (si fa
per dire) dei suo ragionamento il posto della tradizione del passato,
“sogghigna” delle motivazioni che ancora oggi si danno per la conservazione di
tali «favolose lingue ormai morte», di tali «gioielli ereditari», che è ora di
consegnare ai musei, dove li possa ricuperare e godere chi lo vuole. Il loro
studio obbligatorio è «un’imposizione immotivata», che è tempo d’interrompere.
Tullio De Mauro sollecita, da linguista un ampliamento della nozione di latino
oltre quella del latino classico, per lo sviluppo e l’importanza che hanno avuto
quello cristiano, medioevale e moderno. Ma gli rimane la constatazione di fondo,
verissima, che non solo Saffo e Aristotele o Virgilio ma anche Dante,
Shafcespeare e Hölderlin sono minacciati dall’atmosfera travolgente del nostro
tempo. È il più vasto e grande problema, per molti aspetti cruciale, del
rapporto già accennato dell’oggi con le tradizioni. E qui son dentro e in ballo
ben altri destini; non solo quelli del latino a del greco.
È questa la preoccupazione fondamentale anche di uno specialista intelligente
quale Maurizio Bettini, per cui Io sfondo e la portata di questi discorsi è la
conservazione della memoria culturale e la «riflessione sugli antenati», delle
premesse alla nostra storia. La logica conclusione e proposta consiste dunque
nella persistenza scolastica del latino entro «una più generale conoscenza del
mondo classico». Questo è ciò che conta, per la grandezza e ricchezza e durata
dei suoi contenuti, e a cui si può giungere in diversi modi.
Queste posizioni esemplari per “latino sì latino no” trovano interessanti
riscontri anche nell’antologia, in appendice a questo fascicolo, di «Opinioni
illustri dal XVIII al XX secolo» sul tema, curata da Rosario Drago. I più
numerosi sono gli scettici, a partire da Locke: «Se chiedete ai mercanti e ai
contadini che fanno studiare il latino ai loro figli, perché lo fanno, essi
troveranno questa domanda così strana come se domandaste loro perché vanno in
chiesa. L’uso sta al posto della ragione». Per giungere però a Pontiggia con:
«Il dilapidare l’eredità classica è un’ignominia».
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