Competenze
traduttive ed esercizi di traduzione dal greco
di Maria
Luisa De Seta
(da Zetesis 2013-2)
L’esercizio della traduzione e, più
in generale, lo studio della
cultura e delle lingue classiche vivono un periodo ambiguo: non è un
mistero che, secondo le stime nazionali (1), il numero di studenti che,
alla fine della scuola media di I grado, sceglie il percorso liceale di
indirizzo classico è andato diminuendo negli ultimi anni, ma è al
contempo vero che si assiste alla comparsa di segnali che lasciano
auspicare la rinascita dell’interesse per questo percorso: ne sono
prova i numerosi e nuovi certamina per studenti liceali e le Olimpiadi
nazionali delle lingue e civiltà classiche, anch’esse alla loro
seconda
edizione (2). Accanto a
queste attività, e alle numerose Summer
schools organizzate negli atenei italiani per l’approfondimento
universitario di tematiche specialistiche, la stessa pratica della
traduzione è oggetto di interesse e riflessione critico-teorica, come
dimostra, da ultimo, il convegno Come si traduce tenutosi a
Siena il
15-16 marzo 2013, che ha fornito molti spunti di riflessione sulla
pratica della traduzione scolastica. Come recita la nota di
accompagnamento del convegno medesimo «tale azione nasce nell’ambito di
un Protocollo di intesa ... teso a migliorare l’insegnamento della
cultura classica e delle sue lingue in tutti i percorsi di istruzione».
Dal convegno è nata una bozza di proposta per dare nuova forma – e
dunque diverso valore – alla prova di traduzione dal latino o dal
greco, che normalmente interessa solo gli studenti del Liceo Classico.
D’altra parte non c’è motivo per considerare queste riflessioni
prerogativa esclusiva della prova dei maturandi né tanto meno solo
degli studenti del percorso classico. Al contrario, tali indicazioni
dovrebbero esser parte integrante della pratica quotidiana della
traduzione, che a quella prova conduce, e linee guida per un approccio
più ampio e completo al mondo classico, che interessi anche studenti
appartenenti ad altri percorsi scolastici, fintanto che continueremo a
vedere nel mondo classico le radici della cultura italiana e europea.
Il presupposto di questa proposta, come si vedrà, è che la traduzione
non resti un mero esercizio grammaticale, avulso dalla riflessione
linguistica, culturale e antropologica, ma coinvolga tutti gli ambiti
del sapere e la conoscenza storica e culturale, non solo linguistica,
del mondo antico.
Sulla base di queste riflessioni, dunque, sperimentando un approccio
diverso per avvicinare gli studenti di un terzo anno del percorso
classico alla pratica della traduzione (come fatto linguistico generale
e come processo di problem solving), perché essa non risulti
un’attività esclusivamente meccanica, ho proposto la traduzione
contrastiva di un medesimo brano dell’Odissea. Mi accingo a
presentare
qui questa attività, non senza una necessaria premessa teorica e
metodologica (3).
All’attività traduttiva si è giunti attraverso diversi passaggi che
hanno consentito la conoscenza profonda del brano originale, sia per
ciò che concerne lo stile sia per ciò che riguarda il lessico usato, la
sua contestualizzazione, così da poter ottenere traduzioni personali e
«originali», ma fedeli a un approccio metodologico ben ragionato.
L’obiettivo finale era, anche, l’analisi la tecnica della traduzione, e
soprattutto della traduzione classici: per dimostrare che la stessa non
è una pratica avulsa dall’interpretazione generale del testo e dalla
sua comprensione, volta solo alla valutazione di competenze
grammaticali, gli alunni sono stati spinti a usare le loro competenze
traduttive non come obiettivo finale ma come strumento – questo
dovrebbero essere le competenze nella scuola (4)
.
L’occasione per discutere di come tradurre i classici è stata la
lettura di un’intervista ad Alessandro Fo a proposito della sua recente
traduzione dell’Eneide (5).
L’analisi e il commento della medesima intervista hanno portato, in via
preliminare, a riflettere su cosa voglia dire oggi tradurre i classici:
«tradurre è prestare la propria voce a un poeta. ... L’attribuzione di
una nuova voce, però, non può essere atto arbitrario e irrispettoso».
Riflettendo su queste parole si è giunti alla conclusione che per poter
davvero tradurre un testo bisogna conoscerlo a fondo, tanto dal punto
di vista linguistico e grammaticale, quanto da quello stilistico e, non
in ultimo, nelle sue implicazioni culturali. A partire da qui si sono
forniti altri spunti di riflessione teorica che rendessero i ragazzi
più consapevoli dell’attività che andavano a svolgere e delle modalità
con cui approcciarsi alla stessa.
Dice M. Bettini in un suo saggio: «Colui che si pone fra
due lingue, o fra due testi scritti in lingue diverse, si prefigge in
definitiva come scopo quello di raggiungere un compromesso.
Attraverso
un processo di aestimatio, egli deve trovare un accordo fra i
due
testi, individuando la vis che deve essere mantenuta, nel
passaggio fra
le parti, perché la transazione possa essere considerata equa» (6).
Questa affermazione porta con sé una spinosa domanda: la traduzione
deve essere letterale e quanto? Fedele e quanto? Questi sono i termini
in cui i ragazzi, solitamente, affrontano il problema della vis
da
mantenere e dunque dell’intero processo di aestimatio che è
sotteso al vertere.
La risposta può essere forse trovata in un altro saggio sulla
traduzione, precedente a quello or ora citato, questa volta di U.
Eco: «La conclamata fedeltà delle traduzioni non è un criterio
che porta all’unica traduzione accettabile […] La fedeltà è piuttosto
la tendenza a credere che la traduzione sia sempre possibile se il
testo fonte è stato interpretato con appassionata complicità, è
l’impegno a identificare quello che per noi è il senso profondo del
testo, e la capacità di negoziare a ogni istante la soluzione che ci
pare più giusta. Se consultate qualsiasi dizionario vedrete che tra i
sinonimi di fedeltà non c’è la parola esattezza. Ci sono piuttosto
lealtà, onestà, rispetto, pietà»c (7).
Le stesse parole tornano ancora nelle riflessioni di A. Fo
nell’intervista da cui sopra: «La pietas è fondamentale, perché
garantisce anche la fides. Se si ama davvero, e se di conseguenza si
rispetta profondamente il dettato di un autore, si cercherà di non
tradirlo, a nessun livello, qualunque via metodologica si sceglierà di
seguire».
La libertà di approccio conferma che non c’è una sola traduzione
possibile, come non ci si stancherà di dire, ma ci sono diverse
traduzioni, che posso essere altrettante voci fedeli di un nuovo auctor
(8).
Un altro aspetto analizzato, e a cui si è data molto importanza, è la
necessità di mantenere alcune delle caratteristiche stilistiche del
testo originale nella traduzione d’arrivo, necessità decisamente
evidente per i testi poetici ed epici in particolare, perché in essi le
formule o i versi formulari costituiscono un dato imprescindibile della
comunicazione poetica e un traduttore non può sottrarsi al dovere di
permettere a un lettore in traduzione di godere di questi aspetti (9).
Dopo aver quindi chiarito, attraverso queste
riflessioni, quali sono i
doveri e le modalità con cui un traduttore deve operare, si è passati
alla fase attuativa dell’esperienza. Seguendo il percoso tradizionale
di lettura dei classici, per convinzione più che per obbligo, la classe
ha letto diversi brani tratti dall’Iliade e dall’Odissea,
alcuni in
lingua originale altri direttamente in traduzione, molti in parallelo,
privilegiando di volta in volta l’aspetto linguistico o quello
letterario-culturale.
Particolare attenzione è stata poi rivolta all’analisi del brano Od.
V,
75-227: come è noto il brano racconta l’arrivo di Ermes da Calipso,
per
comunicarle il decreto divino che le impone di lasciar partire l’eroe,
ed è seguito dal dialogo tra quest’ultimo e la ninfa. Su questi versi
si sono svolte una serie di attività preliminari, tutte finalizzare
alla comprensione profonda, non solo grammaticale, ma anzi soprattutto
lessicale e contenutistica, del brano medesimo.
La lettura del testo è stata preceduta da una contestualizzazione
generale della scena cui è seguita la richiesta di immaginare i
sentimenti dei personaggi e le loro parole, le motivazioni che, secondo
gli studenti, essi avrebbero addotto nel difendere le loro posizioni.
Questa attività, che richiama vecchi esercizi retorici, ha permesso di
incuriosire gli alunni e si è rivelata molto utile per la comprensione
generale del testo (10).
Per la prima lettura è stato fornito in
italiano un brano più ampio che contenesse quello prescelto per
l’esercitazione, in modo da contestualizzarlo al meglio e guidare gli
alunni all’interpretazione del testo: tradurre un testo significa
‘trasportare’ (trans-ducere) in un’altra lingua l’esito
dell’interpretazione, quindi l’operazione del tradurre deve
necessariamente seguire quella dell’interpretare (11). Per
interpretare correttamente un brano è essenziale arrivare quanto prima
a cogliere il ‘senso generale’ del passo, il concetto fondamentale del
discorso, perché a questo si rapporterà poi l’interpretazione delle
singole parti (12).
Superata questa fase introduttiva, sono stati forniti i versi 192-227
in greco e sono stati analizzati in classe sia dal punto di vista
stilistico, sia dal punto di vista lessicale (13); poi è stato proposto
agli alunni di dividersi in gruppi, ognuno dei quali doveva realizzare
una propria traduzione del brano. Le traduzioni possibili, si diceva
anche prima. In fondo, questo esprimento si basa proprio su
questo assunto e sul fatto che non esiste una traduzione univoca di un
testo, perché il testo in sé viene altresì interpretato e ci sono più
modi di interpretalo, pur lasciando intatte le informazioni di base.
La prima traduzione non presentava richieste particolari, se non
correttezza grammaticale e sintattica e di operare scelte lessicali, e
anche stilistiche – dove possibile –, adeguate a conservare le
caratteristiche del testo di partenza (14). In questo modo
gli studenti potevano, partendo da un buon livello di conoscenza e
interpretazione del brano dato, fornire la propria versione italiana
del testo: nessuno degli elaborati era identico all’altro e l’analisi
delle traduzioni contrastive ha portato a interessanti discussioni
sulle scelte operate da ciascuno.
A questo punto mi sembrava che gli alunni fossero pronti per un
ulteriore passo in avanti nell’esercizio della traduzione. È stato
chiesto loro, ancora una volta divisi in gruppi, di realizzare delle
traduzioni con patine linguistiche differenti, in cui essi potessero
mettere alla prova la loro conoscenza della lingua greca (e in modo
specifico dello stile e delle caratteristiche della lingua omerica, da
riprodurre nella lingua di arrivo), le loro competenze nell’uso della
lingua di arrivo e, più in generale, le loro competenze traduttive. Le
richieste di partenza, nate dalla riflessione teorica cui si è fatto
riferimento, erano la conservazione delle informazioni presenti nel
testo d’origine, la riproposizione, laddove possibile, delle strutture
e delle caratteristiche stilistiche tipiche della lingua di partenza,
evitando però traduzioni artefatte e incomprensibili a un lettore
moderno. Si è discusso della necessità di darsi delle regole prima
dell’inizio dell’attività, regole metodologiche concernenti il punto di
vista, gli elementi da voler privilegiare, le scelte lessicali.
Secondo le richieste la classe ha prodotto lo stesso testo in più
versioni: una versione è stata utilizzata usando gli arcaismi della
lingua italiana, una seconda untilizzando – al contrario e per
dimostrare la possbilità di giocare con la lingua – anglismi e
neologismi; una terza versione della stessa ha portato a una traduzione
in rime e l’ultima due traduzioni in due diversi dialetti locali. Le
cinque versioni prodotte presentano toni e aspetti diversi (15), ma in essi
gli allievi hanno dimostrato che la conoscenza del testo e del suo
contesto può portare all’esercizio della traduzione non solo come
pratica di valutazione delle conoscenze grammaticali-sintattiche, ma
proprio come messa in pratica di competenze linguistiche e conoscenze
teorico-metodologiche (16).
Fornisco di seguito esempi di ciascuna traduzione, che permettono di
valutare il risultato dell’esperimento.
1. Traduzione dal greco all’italiano antico.
Il testo con arcaismi mostra una grande fedeltà al
testo originale e
una ricerca formale, sia lessicale sia sintattica, forbita e
attenta (17).
Com’ebbe ciò favellato la
divina fra le dee lo superò
Rapidamente, e quello andò dietro le
vestigia della dea
Insieme, l’uomo e la dea, pervennero
all’antro concavo
E ivi ello si pose sul seggio di re,
onde poc’anzi s’era Ermes
rizzato, recava qualsivoglia delizia,
per saziarsi e rifocillarsi,
che sono usi taffiare gli uomini
mortali.
Quella si sedea dinnanzi al divino
Odisseo
Le ancille a lei porrigean ambrosia e
nettare
Ed essi stendevano le mani alle
preparate vivande che eran loro davanti
E una volta satolli dal manducare e dal
bivere
Calipso, divina fra le dee,
s’incominciava a favellare:
«O divina stirpe di Laerte, Odisseo
ricco d’ingegno,
così sei ora cupido di volgere i tuoi
passi alla tua cara patria,
terra dei padri? Ebbene così sia.
Ma se presentissi nel tuo cuore quante
tribolazioni patirai,
prima di rimirar all'orizzonte la terra
natìa,
proteggeresti codesta dimora,
trattenendoti meco, e allora
ti procureresti l’eterno vivere. Ma
brami e sospiri
di rincontrare la tua consorte.
Pur io non credo che ella mi sopravanzi
in beltà né in portamento: poi
che non è ammissibile che una mortale primeggi su una dea in beltà».
Lo scaltro Odisseo rintuzzando andò
così a dirle:
«Splendida dea, non adirarti meco a
cagione di ciò, anch’io son conscio
che Penelope scaltra è inferiore a te
in aspetto e grazia,
Difatti lei è mortale, tu sempiterna e
imperitura,
Purtuttavia desidero e anelo di volgere
in patria e vedere il mio ritorno
Se qualcheduno fra gli dei vol
angariarmi sul mar nero
Sopporterò giacché nel petto tengo un
core al dolor avvezzo,
Già infatti molto patii e a lungo penai
in mare e guerra: invero affronterò
anche questo».
Com’ebbe ciò favellato, il sol volse al
desìo e scesero le tenebre,
essi negli oscuri recessi della
spelonca addentrandosi
restando l’uno all’altra prossimo si
saziarono d’amore.
2. Al contrario il tono, e direi più genericamente, il ritmo della
traduzione con neologismi e anglismi risulta molto più vivace e veloce,
moderno e forse troppo: risulterebbe quasi impossibile immaginarsi il
modello omerico alla base di una resa così libera, eppure l’esercizio
ha dato i suoi frutti perché le parole scelte contengono in sè tutte le
informazioni presenti nel testo di partenza (basti pensare alla scelta
di tradurre il termine dea con star, che ben identifica il fascino e la
superiorità della donna divina omerica sulla mortale donna comune).
La dea parlò così, e so fast,
lo precedette; lui la seguiva, step by
step. Giunsero nella concava grotta, l’uomo e la star, e qui egli
sedette sul trono da cui Hermes si era alzato; la ninfa preparava fish
and chips, food and drink di cui i loser si nutrono. Poi si sedeva
davanti a Odisseo che era fashion, e a lei le servant servirono cibi
con più style. Sui fast food essi tesero le mani. Ma quando furono
full, la star Calipso parlò così: «Laerte junior, Odisseo, very
brilliant, vuoi dunque tornare a casa, nella terra dei padri, fast and
furious? eh, ok! Se tu sapessi inside of you quante pene dovrai
sopportare prima di giungere alla tua home sweet home, rimarresti qui,
e con me vivresti full of life in questo loft, tu che desideri tanto
rivedere la tua girl, e la vuoi forever and ever. Fra me e lei c’è un
gap assurdo per quanto riguarda la bellezza, infatti le loser non
possono essere in competition con donne fashion come me». Odisseo
rispondendo disse così: «Oh star, non t’arrabbiare per questo con me.
So bene che tra te e Penelope c’è un gap assurdo, lei è una loser, tu
sei forever young. Io ora voglio tornare alla mia home sweet home. E se
un dio vorrà perseguitarmi sul mare nero, sopporterò, io sono un boss:
ho già sofferto per mare e in guerra». Tramontò il sole e calarono le
tenebre: entrati nella grotta, uno vicino all’altro, essi consumarono
il loro love.
3. La traduzione in rime (senza attenzione per la metrica, gli alunni
hanno però realizzato, dove possibile, anche rime interne) ha richiesto
un impegno notevole, profuso inizialmente nella forma di passagio
iniziale in cui il testo indicava anche tutte le informazioni aggiunte
rispetto all’originale – di maggiore o minore rilevanza – per poter
ottenere il risultato richiesto: tutte le informazioni dovevano essere
però coerenti con la scena e i personaggi e ciò ha dimostrato la
necessità di conoscere bene la vicenda e il contesto del brano e
adeguarlo a esso, traendone, anzi, le informazioni necessarie alla
traduzione medesima.
Dunque l’aedo così cantò,
come ebbe parlato, tra le dee
rapidamente avanzò;
e lui i passi della dea seguiva dietro,
giunsero la dea e l’uomo all’antro
tetro;
e quello, là, si sedette sul trono,
Ermes da là si spostò,
una ninfa cibo a tutti portò,
da bere e da mangiare, tutti gli uomini
aprirono le bocche pronte,
Odisseo alla dea si sedette di fronte,
delle schiave all’immortale anche
nettare portarono.
Quelli alle vivande pronte e servite le
mani slanciarono,
ma quando si furono saziati del cibo e
del bere,
Calipso raccontò loro una storia,
insieme alle dee:
«Il divino Laerziade, Odisseo
dall’astuzia geniale,
così verso casa, verso l’amata terra
natale,
vuole andare ancora adesso? Ti sia
concesso.
Ma se tu sapessi nel tuo animo quanto
questo tuo passo
ti riempirà di sofferenze, prima che tu
giunga alla tua terra natale,
rimarresti qua con me e in questa casa
vivresti immortale,
tu che vuoi soltanto rivedere
la tua concubina, e ogni giorno è il
tuo unico volere.
Non credo sia migliore di me,
nel corpo e nella figura, poiché
è impossibile che una mortale rea
sia più bella di una
dea.«
Prendendo la parola rispose Odisseo
dall’astuzia acuta:
«Non adirarti con me per questo, dea
astuta;
so molto bene che la fiera Penelope è
meno bella nel corpo e di minor
intelligenza rispetto a
te.
Infatti lei è mortale, tu immortale e
mai all’Ade ritorni,
ma così voglio e desidero tutti i giorni
tornare a casa e vedere il giorno del
ritorno.
Se poi qualcuno fra gli dei nel mal del
color del vino mi si ritorce
contro
Sopporterò nel petto, avendo un cuore
avvezzo alle pene,
infatti già ho patito molte sofferenze
e altre ne sopportai per bene
tra i neri flutti e in battaglia; anche
questo sopporterò.
Come ebbe parlato, il dolce sole nel
crepuscolo calò;
se ne andarono nella parte più interna
del profondo antro
e si saziarono d’amore, rimanendo l’uno
con l’altro.
4. Partcolarmente originali sono state poi le traduzioni in dialetto:
se ne distingue in modo particolare una in cui, come vi vedrà, gli
autori hanno mantenuto alcune espressioni formulari, dimostrando di
poter trasferire, grazie alle loro conoscenze e competenze, il sistema
della lingua e narrazione omerica in una lingua senza tradizione
letteraria.
Alora la dea la ga dit atsì,
e lù l’è andà cun lè infin a la busa,
e lù dopo sal senta in slà scragna
indua prima a ga staa Ermes.
Lè l’ha ga dat da magnar e da bear, dli
robi che ad solit i murtai i
fa.
Lè las senta e li servi li ga dat
nettare e ambrosia.
Dopu chi ià avvest e magnà, Calipso la
ga dit atsì:
«Divin fiol ad Laerte, Odisseo
dasmisià, sat vo turnar in dla to
patria, va pur.
Ma sat sapesi quanti disgrasi at
capiterà, prima at turnar in dlà to
tera,
ta staresi chi cun mi, et gnires divin,
ti cat vo atsì tant to muier.
Mi a son mei ad lè ad sicur».
E Lu al ga rispost a le: «Oh diina, sta
mia rabirat cun mi,
al so anca mi cat t’zè mei ad lè!
Penelope an di o cl’altar la murirà, ti
no. Ma mi a voi tornar a ca mea.
E se an qual dio am gnirà drè in
sal mar, mi a sarò pront.
Ho sa supurtà tanti disgrasi in sal mar
e in dlà guera, chestu al sarà
al minim».
Al divin la ga dit atzì, al sol andava
so e gnia sira.
Andà dentar ala busa, tuti do davsin, i
sé gudest.
5. E in dialetto veronese:
Cosita a chel punto la parona
tra quei che non more mai la disea
saltandoghe sora a chel’altro
de presia; po chel li el ghe n’dasea
drio;
l’omo e la dona i’ riva nela caverna
sbusa
e chel li el sa sentà sula carega
lustra, in do ghe se savea sentà za su
Ermes, la ninfa la fasea
Da magnar e da bear, tute le robe che
magna quei che prima o dopo i
more;
e la se sentava davanti a Sior Odisseo,
e le done le ghe portava netare e
ambrosia
e chi du lì i se slanzava inzima al
magnar pronto chi ga portà.
Ma quando i’è stè sgionfi de tuto chel
magnar e chel bear,
la parona tra quei che non more mai e
chei du li la ga scominzià a
discorar:
«Divin fiol de Laerte, Odisseo che te
ghè testa,
elo cosita alora che in de la tera dei
to cari parenti
te vol del colpa n’dar indrio? Ma va
ben instesso, dai.
Ma se te savessi quante gate
te gavarè da pelar prima de rivar a casa
te staresi qi con mi e te staresi drio
a la casa
e no te moraresi mai, ma anca ben ti te
voresi vedar ancora
to moier che te vol tuti i giòrni.
Non penso de essar manco bela de ela
e de far manco figura e po’ in gnanca
na maniera
quele che prima o dopo le more le pol
metarse a livel de quele che non
more mai».
Odisseo che gà testa el ghe rispose
indrio:
«Oh vecia, non sta tortela con mi par
sta roba chi, lo so ben anca mi
Che Penelope furba l’è manco bela de
ti; ti no te inveci mai,
te gavarè mai rughe e te saressi sempre
zoina;
ma a parte quela tuti i giòrni go oia
de n’dar a casa e vedar el giorno del
tornar.
Se anca uno tra quei che no more mai in
del mar del color del vin
el gavarà oia de rompar i oi mandarò zo
con tanta pasiensa.
Se l’è par quela ghe no za patìe massa
e soportè in bisogno,
sul mar e in guera; mandarò zo anca
quela».
Cosita el ga dito, el sol l’è n’dà zo e
l’è rivà la note;
mentre i n’dasea dentro la grota fonda
i se volea ben, stando uno taccà a
chel’altro.
Come si può notare in tutte le traduzioni si sono mantenute le formule
introduttive dei dei discorsi diretti: si possono confrontare le
traduzioni dei v. 192 ὣς ἄρα φωνήσασ' ἡγήσατο e v. 214 τὴν δ'
ἀπαμειβόμενος προσέφη e in modo particolare, nella traduzione nr. 4, la
ripetizione della “nuova formula” la ga dit atsì; inoltre si è
ritenuto
sempre necessario mantenere la traduzione del patronimico διογενὲς
Λαερτιάδη Odisseo (che, con notevole ironia, è stato reso Laerte junior
nella traduzione nr. 2), così si è scelto quasi sempre di mantenere
l’aggettivo ‘nero’ per tradurre il greco οἴνοπι riferito a πόντῳ (v.
201). Secondo gli stessi principi si è sempre cercato di matenere
l’aggettivazione, laddove presente in originale: si confronti per
esempio la resa di πολυμήχανoς nelle traduzioni 1, 2, e 3 (18).
Come si può vedere, dunque, soprattutto laddove le richieste
linguistiche e formali imponevano una resa libera e tendenzialmente
lontana dall’originale gli alunni hanno sentito la necessità di
compensare questa lontanaza ricorrendo ai tradizionali elementi della
lingua epica e omerica (pur adattati), in modo da riempire la distanza
tra l’originale e il nuovo. Inoltre, in molti casi la scelta delle
parole e delle espressioni usate oltre alla riformulazione dei dialoghi
è potuta avvenire solo grazie alla conoscenza della situazione
narrativa e dei sentimenti dei personaggi (contestualizzazione), oltre
che dei ruoli da ciascuno rappresentati (conoscenze antropologiche).
Ciò conferma che l’esercizio della traduzione non può prescindere dallo
studio culturale e antropologico serio: che ciò non può riguardare
soltanto la sfera universitaria, ma dovrebbe appartenere anche alla
pratica scolastica, perché l’adeguata conoscenza degli elementi di
contesto permette la comprensione e l’interpretazione del brano,
premessa imprescindibile di una traduzione corretta.
cfr. http://www.tecnicadellascuola.it/index.php?id=37653&action=view
http://www.olimpiadiclassiche.it/index.php
Il sito fornisce numerose informazioni relative alle attività e ai certamina attivi sul territorio e si fa quindi
promotore della diffusione della cultura classica. Per una storia
dell’insegnamento
delle lingue classiche in Italia si veda: R. Tosi, Appunti sulla
storia dell’insegnamento
delle lingue classiche in Italia, in Quaderni
del CIRSIL – 2 (2002), 1-6.
Sull’attualità dello studio delle lingue classiche nel licei italiani e
le modalità
di approccio allo stesso esiste una pubblicazione di Associazione
TreeLLLe, Latino
perché? Latino per chi?, 1998, con i contributi e le proposte di
Luigi Berlinguer,
Carlo Bernardini, Maurizio Bettini, Tullio De Mauro, Rosario Drago e
Leopoldo Gamberale.
L’attività è stata svolta nella classe IIID dell’Istituto
di Istruzione Superiore “Galileo Galilei” di Ostiglia, MN.
AA.VV, Progettare,
insegnare e valutare per competenze, in «Inserto», 17 maggio 2011.
Sulla traduzione
come problem solving che determina lo sviluppo di skills
spendibili in altri contesti vd. M. Mangiavini – M. Bettoni, Lingue
classiche, complessità e competenze, «
nteraction Design and Architecture(s) Journal - IxD&A»
, N. 7-8, 2009, pp. 48-50.
A. Fo (cur.), Publio Virgilio Marone, Eneide,
Torino 2012.
M. Bettini, Vertere. Un’antropologia della
traduzione nella cultura antica, Einaudi, Torino 2012.
U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze
di traduzione, Bompiani, Milano 2010, p. 364.
Bettini, cit.
Non ci si dimentica, inoltre, della necessità di «aggiornare« le
traduzioni perché
esse risultino fruibili secondo i cambiamenti della lingua
d’arrivo».
Gli alunni si sono dimostrati particolarmente
interessati a verificare nel testo le loro intuizioni e a confrontare,
nei limiti
del possibile e con i necessari distinguo, le reazioni umane (e divine)
G. Pisani, Interpretare e tradurre,
Convegno Come si traduce, Siena 2013. L’autore spiega
come segue: Interpretare
un testo è operazione analoga all’analisi e allo studio di uno spartito
musicale;
la traduzione del testo corrisponde invece all’esecuzione musicale di
quello spartito.
Non si può eseguire una sonata di Beethoven se prima non la si è
attentamente studiata;
poi, nel momento in cui si passa all’esecuzione, sorgono problemi di
altro tipo
(tecnici, di gusto, tempo, ecc.).
G. Pisani, Interpretare e tradurre,
Convegno Come si traduce, Siena 2013.
La scelta di un brano così breve è motivata dalla
natura sperimentale dell’attività.
Utili sono le riflessioni
sull’attività
dell’insegnamento del latino e dell’approccio alla traduzione come
processo
semantico e non traduttivo sintattico-grammaticale, discusse da F.
Bernardi e
S. Genuini, Didattica delle lingue
classiche: dalla traduzione all’approccio
testuale.
Il testo in rima, per forza di cose, ha richiesto
un maggiore allontanamento dal testo originale, ma questa libertà è
stata comunque
rispettosa del contesto culturale di partenza.
È implicito che l’esperimento ha richiesto di
ricorrere a conoscenze e competenze che gli alunni hanno appreso e
sviluppato in
altri contesti disciplinari (lo studio della Divina
Commedia emerge evidente nella traduzione con arcaismi, la
conoscenza
della metrica italiana –quanto meno in termini teorici – nella versione
in rima
e lo studio delle lingue straniere nella versione con anglismi).
I testi vengono forniti in modo fedele, secondo
le traduzioni operate dagli alunni medesimi.
Trattandosi di
un’attività da svolgere in classe nell’economia delle attività annuali,
mi
sembra ovvio presentare una calendarizzazione delle ore necessarie per
lo
svolgimento della stessa, tenendo presente che la fase produttiva è
lasciata al
lavoro domestico degli alunni.
L’attività
richiede
almeno due ore iniziali di lezione frontale (relativa al brano in
generale, e alla
sua analisi e traduzione), cui seguono altre due ore destinate alla
correzione collettiva
dei passi tradotti.
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