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IL RITORNO AL TEATRO EURIP1DEO
NEL CINQUECENTO TTALIANO


Antonietta Porro  


 
(da Zetesis 1988-3)

La presenza di Euripide segna già l’inizio del rapporto tra la letteratura italiana e gli autori della Grecità: tra i primi episodi che vedono alcuni nostri poeti accostare testi della letteratura ellenica il più noto è certamente quello di Leonzio Pilato che traduce verbum de verbo, in un latino a dir poco inelegante, alcuni versi dell’Ecuba per un “Musarum cultor Johannes” (Laur. XXXI 10, f. 1 v) che quasi trent’anni fa Agostino Pertusi identificò con Giovanni Boccaccio (1). La versione di Leonzio si colloca tra il 1360 e il 1362: in precedenza già Francesco Petrarca, desideroso di apprendere il greco, aveva stabilito relazioni a questo scopo con il monaco Barlaam e con lo stesso Leonzio Pilato, ma, a quanto sembra, non aveva imparato neppure i primi rudimenti della lingua. Proprio nella generazione del Petrarca e del Boccaccio tuttavia matura nei nostri letterati un vivo interesse per la tradizione letteraria greca; il secolo successivo poi vede incrementarsi notevolmente tale interesse, che si esprime in ricerche di manoscritti, letture, traduzioni ed edizioni della opere dei classici. Nel XVI secolo aumentano rapidamente, anche per il greco, le edizioni a stampa, così che la più parte degli autori classici e bizantini può essere facilmente reperita e studiata (2).
Leonzio Pilato, EcubaIl medesimo itinerario degli altri poeti e scrittori seguono pure i tre grandi tragici, in particolare Euripide, al quale viene accordata una netta preferenza rispetto ad Eschilo e Sofocle: le ragioni di questo fatto, che ricerche recenti hanno riaffermato (3), sono forse le medesime che hanno decretato, per l’ultimo dei tre tragici, una fortuna maggiore già nella tarda antichità (v. tradizione papiracea) e nell’epoca bizantina e risalgono, con ogni probabilità, alla più immediata comprensibilità della problematica euripidea anche fuori dall’ambito della polis ateniese del V secolo.
La progressiva affermazione di Euripide attraverso i secc. XV e XVI coincide con le fasi della ripresa del dramma tragico nella nostra letteratura, tanto che il Pertusi nel 1963 (4) ha sottolineato che il modello euripideo più che non quello senecano è alla base della rinascita del genere nella letteratura italiana del Cinquecento.
Pur senza escludere il contributo, peraltro innegabile, di Seneca in tale processo, è vero che elementi diversi inducono a rimarcare la crescente diffusione dell’opera di Euripide e la volontà di emulazione nei suoi confronti da parte di eruditi e letterati.
 
1. Nei secoli XV-XVI bibliofili e filologi (Giovanni Aurispa, Antonio Corbinelli, Ciriaco d’Ancona, Guarino Guarini, ecc.) ricercano ed acquistano manoscritti euripidei, come ben documentano gli studi del Pertusi e di Turyn (5). Alle fine del XV sec. si giunge alle realizzazione delle prime edizioni a stampa: nel 1494 sono pubblicate Medea, Ippolito, Alcesti e Andromaca, in una rara edizione curata da Gianos Lascaris, per i tipi di Francesco de Alopa; nel 1503 esce dalla tipografie di Aldo Manuzio, a cura di Marco Musuro, 1’edition princeps di quasi tutte le tragedie euripidee; nel 1545 infine è data alle stampe, a Roma, ad opera di Pier Vettori, 1’E1ettra, 1’unico dramma escluso dall’aldina del 1503. Numerose altre edizioni seguono poi, nel corso del XVI sec., le prime e ciascuna di esse è frutto di collazioni più o meno ampie di manoscritti e, talora, di approfondite analisi testuali.

2. I trattatisti teorici che nel Cinquecento si occupano di problemi di poetica e di drammaturgia (come il Giraldi Cinzio, il Minturno, l’Ingegneri, il Trissino), non mancano di ricorrere ad esemplificazioni tratte da Euripide per avvalorare i loro discorsi. Essi anzi documentano una predilezione del pubblico nei confronti del drammaturgo greco, tanto che il più senechiano dei trattatisti, il Giraldi Cinzio, invita i suoi contemporanei a leggere le tragedie di Euripide accanto a quelle di Seneca, dalla quali erano meno attratti, per verificare “quanto ad Euripide soprastia Seneca” (6).

3. Come ben evidenzia il già citato studio del Pertusi, si moltip1icano, tra il Quattrocento e il Ciflquecento, le versioni latine, integrali o parziali, del teatro euripideo. L’Ecuba è la tragedia prediletta in tale attività, a partire dall’episodio di Leonzio Pilato. Sull’intenzione artistica dei traduttori prevale quella di rendere accessibile il contenuto del testo greco; le versioni sono così per lo più letterali e, se non rigorosamente ad verbum come quella di Leonzio,rendono assai rispettosamente ll contenuto dell’originale greco.

4. Nella prima metà del Cinquecento inizia, con l’esperimento di Alessandro Pazzi, che traspone in volgare l’Ifigenia in Tauride e il Ciclope, l’epoca dei volgarizzamenti e dei rifacimenti sul modello euripideo. Tali realizzazioni rispondono a due finalità:
a) rendere in forma artistica, ma fedele, l’originale greco, che rimane comunque in primo piano. Questo intento, perseguito da individui che in genere conoscono bene il greco ed esercitano attività filologica, può essere talvolta affiancato dalla volontà di fare utile esercizio al fine di comporre, in futuro, un dramma proprio. Definiamo, in questo contesto, volgarizzamenti i prodotti realizzati in linea con tali propositi.
b) produrre, a partire dall’esempio di Euripide, un’opera teatrale nuova, destinata alla rappresentazione. L’originale greco passa qui in secondo piano e talora costituisce solo lo spunto tematico e narrativo per l’autore della tragedia in lingua italiana. Le opere così prodotte vengono qui chiamate rifacimenti.
Nelle pagine seguenti verranno proposti due episodi relativi a personaggi che, nel Cinquecento, trasposero in volgare, in ambienti diversi, alcuni drammi euripidei, allo scopo di documentare la duplice tendenza appena enunciata: il caso dell’erudito fiorentino Giovanni Falgani e quello del poligrafo veneto Lodovico Dolce.   
 
I volgarizzamenti di Giovanni Falgani.
Due manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze (Magl. VI 31; VIII 46) conservano lo traduzioni autografe in volgare dell’Ippolito e dell’Ecuba di Euripide realizzate tra il 1571 e il 1572 da Giovanni Falgani, esponente dell’Accademia Fiorentina, allievo dell’illustre filologo Pier Vettori, nonché poeta e traduttore legato alla cerchia di intellettuali protetti e beneficati dall’umanista Giovanni Sommaia (7).
I due volgarizzamenti furono eseguiti direttamente sull’originale greco, come prova il confronto con le traduzioni latine ad essi precedenti e come conferma il buon livello di conoscenza della lingua da parte del Falgani, documentato dalle testimonianze relative alla sua biografia e dalla sua molteplice attività di traduttore. L’edizione aldina è quasi sicuramente la base sulla quale furono condotte le versioni, le quali nono formate da endecasillabi sciolti misti a settenari; le parti corali costituiscono della vere e proprie canzoni, come suggerivano 1 trattati teorici del tempo, quello del Minturno in particolare (8).
Il Falgani, come si può facilmente dedurre dall’epistola di dedica preposta all’Ippolito (9), è mosso prevalentemente da un interesse filologico-interpretativo nei confronti dell’originale euripideo e non ambisce certo a portare sulla scena la tragedia in volgare che viene realizzando. Egli riproduce quasi sempre rispettosamente il concetto contenuto nel testo di Euripide, talora interpretando anche precisamente i vocaboli greci nella loro etimologia, solo raramente fraintendendo l’originale.
La caratteristica stilistica più evidente, particolarmente marcata nelle parti corali, è la “razionalizzazione” del testo euripideo, il quale a volte viene ampliato in maniera notevole, perdendo l’immediatezza insita nella sinteticità dei versi greci. Un secondo elemento degno di nota è rappresentato dai passi in cui il Falgani, non comprendendo pienamente espressioni usate da Euripide a motivo della differenza di civiltà che lo separa da quest’ultimo, le traspone valendosi di categorie lessicali estranee a quelle del tragico ateniese: così le ancelle di Ecuba diventano “damigelle”, Ἱκέσιον Δία (Hec. 345) viene tradotto semplicemente con “il mio pietoso Giove” (Ecuba 537), smarrendo la specifica valenza originarla di “Zeus protettore dei supplici”. Infine un fenomeno particolarmente rilevante è l’uso da parte del Falgani di stilemi, o addirittura di interi versi, tratti dalla produzione del Petrarca, in sintonia con il gusto tipico del suo tempo. Questo procedimento, mirante ad una realizzazione poeticamente migliore, non impedisce tuttavia al volgarizzatore di trasporre con discreta precisione il contenuto dei versi di Euripide.
 
Ad esemplificare tutto ciò propongo una sezione del testo euripideo accanto alla corrispondente versione del Falgani; ad essa segue un breve apparato che consente di verificare l’uso di espressioni petrarchesche da parte del traduttore e il riecheggiamento di un noto episodio virgiliano.
 
Eur. Hec. 1076 - 1087 (10)
 
 Πο      ποῖ πᾷ φέρομαι τέκν' ἔρημα λιπὼν
            Βάκχαις ῞Αιδου διαμοιρᾶσαι
            σφακτά, κυσίν τε φοινίαν δαῖτ' ἀνή-
                        μερόν τ' ὄρειον ἐκβολάν; 
            πᾷ στῶ, πᾷ κάμψω, πᾷ βῶ,   
            ναῦς ὅπως ποντίοις πείσμασιν λινόκροκον
            φᾶρος στέλλων, ἐπὶ τάνδε συθεὶς
            τέκνων ἐμῶν φύλαξ ὀλέθριον κοίταν;
 
Χο.      ὦ τλῆμον, ὥς σοι δύσφορ᾿ ἴργασται κακά·
            δράσαντι δ' αἰσχρὰ δεινὰ τἀπιτίμια
            δαίμων ἔδωκεν ὅστις ἐστί σοι βαρύς.
 
Giovanni Falgani, Ecuba 1671-1690 (11):
 
            POLYM. .     
                                   Lass’ohimè lass’oh lasso,
                                   dolor, dove mi meni?
                                   Dove mi spingi con si aspro spasma?
                                   Lascerò dunque soli e derelitti
                                   in man de le Baccanti non di Bacco
                                   ma di Pluton, i miei teneri figli,
                                   che, già defunti, gli sbrani, gli smembri,
                                   e sovra duri sterpi, hispidi dumi
                                   gli scagl’inanz’a i denti a i fieri lupi.
                                   Dove m’approdo, ove giro le vele?
                                   Ove dirizzo il mio corso, spinto,            
                                   qual nave, apert’a i venti ’l seno

                                   a gettarm’a giacer su ’l duro nido
                                   dove due figli miei m’addorme morte?
 
             CO.                O miser, infelice, o gravi mali,
                                   che mal si puon soffrir, che pur t’han giunto!
                                   Chi’l buon sangue versar, tranghiottir
                                   l’oro fe’ l’execrabil fame e l’aspra sete,
                                   involt’ha giusto dio dentr’a ’l suo sangue:
                                   Dio dà le pene, Dio fa le vendette.
 
1678 F. Petrarca, Rerum vulg. fragm. CCCLX 47: fiere et ladri rapaci, hispidi dumi; 1679: F: Petrarca, Trionfo Morte I 47: Drizzo ‘l mio corso...;
1688: Verg. Aen. III 57: Auri sacra fames...; cfr. Purg. XXII 40-41.   
 
Dal confronto tra i due passi emerge una sostanziale corrispondenza nei concetti espressi e nella loro successione. In particolare si osservi (la numerazione indicata è relativa ai versi del Falgani):
1671-1673: i tre versi sono trasposizione di un solo emistichio euripideo (ποῖ πᾷ φέρομαι)
1657-1676: “le Baccanti non di Bacco, / ma di Pluton” è evidente razionalizzazione del più conciso Βάκχαις ῞Αιδου (Hec. 1077). Si noti la ridondante succes- sione di interiezioni al v. 1671, tipico dell’uso stilistico del tempo.
1680-1681: le tre azioni che si succedono nelle proposizioni dubitative rispecchiano letteralmente la sequenza dei verbi στῶ κάμψω βῶ nel testo euripideo.
1683· il sostantivo “nido”, al1’apparenza poco adeguato al contesto, è interpretazione letterale del greco κοίταν (v. 1084).
1686: l’espressione “che mal si puon soffrir” interpreta correttamente, sul piano etimologico, il greco δύσφορ(α) (ϝ. 1085).
1687-1688: corrispondono all’espressione generica δράσαντι δ᾿ αἰσχρά (Ηec. 1035), resa più esplicita dal volgarizzatore, alla cui memoria poetica è presente, anche verbalmente, il celebre episodio virgiliano di Polidoro.
1690: la γνώμη finale, assente nel greco, è d’intonazione cinquecentesca più che euripidea.
 
   
NOTE
1) A. Pertusi, La scopεerta di Euripide nel primo Umanesimo, “ItaIia medioevale e umanistica” 3 (1960) 1972, pp. 101 - 152.
2) Per le linee generali della questione, cfr. R. Pfeiffer, History of Classical Scholarahip from 1300 to 1850, Oxford 1976; L.D. Feynolds-N.G. Wilson, Copisti e filologi, Padova l9873, pp. 151 - 164.
3) M.Mund-Dopchie, La survie d’Eschyle à la Renaissance. Éditions, traductions, commentaires et imitations, Lovanii 1984, p. 384.
4) A. Pertusi, Il ritorno alle fonti del teatro greco classico: Euripide nell’Umanesimo e nel Rinascimento, “Byzantion” 33 (1963), pp. 391-426.
5) A. Pertusi, Il ritorno, cit., pp. 398 ss.; A. Turyn, The Byzantine Manuscript Tradition of the Tragedies of Euripides, Urbana 1957, passim
6) G.B. Giraldi Cinzio, Discorso ovvero lettera intorno al comporre delle commedie e delli tragedie, in De’ Romanzi, delle Commedle e delle Tragedie, II, Milano, Biblioteca Rara Daelli, 1864, p. 82.
7) Ho trattato più approfonditamente di lui e dei volgarizzamenti stessi in uno studio dal titolo Volgarizzamenti e volgarizzatori di drammi euripidei a Firenze nel Cinquecento, “Aevum” 55 (l981), pp. 481-508: ad esso rimando per quanto riguarda 1’ambiente, la biografia, la posizione letteraria del Falgani
8) A. Minturno, L’arte poetica, Vonozia 1563, p. 108.
9) Cfr. A. Porro, Volgarizzamenti e volgarizzatori, cit., pp. 507-508.
10) Il testo è riprodotto dall’edizione teubneriana curata da s.G. Daitz, Leipzig 1973.
11) Bibl. Naz. Fir., Magliab. VIII 46, f. 272r.   
 


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