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NOTA. Poiché tra le varie edizioni latine delle “Favole” di Fedro possono esserci a volte molte divergenze, riteniamo utile specificare che le traduzioni seguenti sono state condotte sull’edizione curata da A. La Penna, con traduzione a fronte di A. Richelmy, Einaudi Editore, Torino 1968, fondata a sua volta, con minime varianti, sull’edizione di Luciano Müller, Lipsia 1890
PROLOGO
Prologus
Esòpo è l’inventore della favola:io l’ho abbellita con versi senari.Ha due pregi il libretto: che divertee con saggi consigli insegna a vivere.Se qualcuno volesse poi obiettareche, oltre alle fiere, parlano anche gli alberi,si ricordi che è tutto fantasia.
IL LUPO L'AGNELLO
Laupus et agnus (I 1)
Erano scesi un lupo ed
un agnello
a dissetarsi al solito ruscello.
Più in alto il lupo, in basso l’altro stava.
Allora, spinto dalla gola prava,
di litigio il ladrone spia un pretesto
e rimbrotta l’agnello: “Perché questo
ruscello, mentre bevo, m’hai intorbato?”
E l’agnellino tutto spaventato:
“Come posso, di grazia, fare cupo
il chiaro rivo a te, risponde , o lupo,
se l’acqua scorre dai tuoi sorsi ai miei?”
Quello, dal vero sconcertato: “Sei
mesi fa, dice, tu di me hai sparlato!”
E l’agnellino: “Ma non ero nato”.
“Tuo padre allora, caspita!, riprende
quel manigoldo, m’insultò”. Poi stende
l’artiglio sulla misera bestiola
e di sangue le imporpora la gola.
Questa favola è scritta per la gente,
che opprime con pretesti l’innocente.
LE
RANE CHIEDONO UN RE
Ranae regem petierunt (I 2)
Quando Atene fioriva di eque leggi,
la libertà sfacciata la sconvolse
e all’antica licenza sciolse il freno.
Con un accordo tra le parti, occupa
da tiranno Pisìstrato la rocca.
Poiché la triste servitù piangevano
gli Ateniesi (non tanto perché fosse
costui crudele, quanto perché questa
è sempre dura ai non avvezzi) e presero
a lamentarsi del suo peso, Esòpo
raccontò loro questa favoletta.
Poiché le rane libere vagavano
per le paludi, chiesero a gran voce
a Giove un re che le tenesse a freno.
Il padre degli dèi rise ed un piccolo
travicello mandò giù, che, cadendo
nello stagno, per l’improvviso tonfo
e il turbarsi delle acque, riempì
le timide ranocchie di spavento.
A lungo stette immerso dentro al
limo,
finché per caso ad una non avvenne
di sporgere la testa: guarda il re,
lo soppesa con cura: quindi chiama
tutte le altre, che, vinta la paura,
fanno a gara ad accorrere: una turba
proterva sale sopra il
travicello.
Dopo averlo coperto d’ogni oltraggio,
chiedono nuovamente un altro re:
quello inviato non serviva a nulla.
Allora Giove mandò giù una biscia,
che prese crudelmente ad addentarle
ad una ad una: invano quelle misere
cercano di salvarsi con la fuga:
resta in gola la voce dal terrore.
Segretamente affidano l’incarico
a Mercurio di chiedere al gran Giove
di soccorrere quelle derelitte:
ma il Tonante rispose: “Non avete
voluto il vostro bene, ora patite
il male”. Sopportate pure voi,
o cittadini, il presente malanno,
perché non sopraggiunga uno peggiore.
LA CORNACCHIA SUPERBA E IL PAVONE
Graculus superbus et pavo (I
3)
Perché a nessuno piaccia farsi bello
coi meriti degli altri, ma piuttosto
viva seguendo la propria natura,
ci ha tramandato Esòpo questo esempio.
Tutta rigonfia di vana superbia,
la cornacchia si adorna delle penne
cadute ad un pavone. Poi, sprezzando
le compagne, si mescola a quel gruppo
di splendidi animali. Ma le penne
quelli le strappano e coi duri becchi
la scacciano. Malconcia la cornacchia
si avvia tutta dolente verso i suoi,
che con aspre rampogne la respingono.
E una di quelle prima disprezzate:
“Se delle nostre sedi fossi stata
contenta e paga della tua natura,
non avresti patito quell’oltraggio,
né la ripulsa nella tua disgrazia”.
IL CANE INGORDO
Canis
per fluvium carnem ferens (I 4)
Perde a ragione il suo chi all’altrui aspira.
Un cane, mentre nuota in un torrente
con della carne in bocca, a un tratto mira
riflettersi sull’acqua trasparente
le sue sembianze: ad altro cane crede
con altra carne e contro avidamente
gli s’avventa, bramoso di due prede.
k’red-dhē-
La sua ingordigia gli è però nociva:
deluso infatti i due bocconi vede
sparire in un istante alla deriva.
LA LEGGE DEL PIU’ FORTE
Vacca,
capella, ovis et leo (I 5)
E’ sempre infido il patto col potente:
lo testimonia questa favoletta.
La vacca, la capretta e la mansueta
pecora, andando a caccia per montani
pascoli insieme col leone, strinsero
con lui un accordo. Catturato un cervo
di gran mole, diviso in quattro parti
il bottino, così parlò il leone:
“La prima è mia, perché sono il leone;
la seconda mi spetta come socio;
poiché ho più forza, è mia pure la terza;
guai, se qualcuno toccherà la quarta”.
Così tutto arraffò la prepotenza.
LE RANE AL SOLE
Ranae ad Solem (I
6)
Vedendo tra gran folla celebrare
d’un ladro suo vicino il matrimonio,
subito Esòpo cominciò a narrare.
Volendo un giorno il Sole prender moglie,
alzarono le rane
le grida fino al cielo.
Mosso da quel frastuono, Giove chiese
la causa del lamento. E una di quelle
abitatrici dello stagno: “ Ora --
disse -- uno solo tutte le pozzanghere
ci secca e ci costringe, noi meschine,
a crepare all’asciutto.
Cosa accadrà quando farà dei figli?”
LA MASCHERA TRAGICA
Vulpes ad
personam tragicam
(I 7)
La volpe vide per caso una maschera
da attore di tragedie e disse: “Oh quanta
magnificenza: ma non ha cervello!”
Questo vale per chi ebbe dalla sorte
onori e fama, non intelligenza.
IL LUPO E LA
GRU
Lupus et gruis (I 8)
Chi s’aspetta un compenso dai malvagi
sbaglia due volte: aiuta chi non merita
e lui stesso s’impègola.
Poiché un osso ingoiato era rimasto
al lupo conficcato nella gola,
dal gran dolore sopraffatto, tutti
gli animali pregava ad uno ad uno,
promettendo una grande ricompensa,
di levargli quel male. Finalmente
la gru, dal giuramento persuasa,
il lunghissimo collo gli introduce
nella gola ed esegue la rischiosa
operazione. Poi la pattuita
ricompensa gli chiede. E il lupo: ”Ingrata!
Dalle mie fauci incolume hai cavato
il capo e mi richiedi anche un compenso”.
IL CERVO ALLA SORGENTE
Cervus ad fontem
(I
12)
Quel che disprezzi spesso si rivela
più prezioso di quello a cui dài pregio.
Questo racconto vale ad attestarlo.
Dopo avere bevuto alla sorgente,
il cervo nelle limpide acque scorse
le sue sembianze. Come lo deluse
la sottigliezza delle gambe e come
ammirò le ramose corna! A un tratto
sente atterrito levarsi le grida
dei cacciatori e per gli aperti campi
elude con fulminea corsa i cani;
poi l’accolse la selva, nel cui folto
restò impigliato con le larghe corna:
subito i cani gli furono addosso
e con crudeli morsi lo sbranarono.
Si dice che morendo pronunciasse
queste parole: “Solo ora capisco,
me sciagurato, quanto m’ era utile
quello che disprezzavo e quanto invece
m’era dannoso quello che ammiravo”.
LA VOLPE E IL CORVO
Vulpes et corvus
(I 13)
Chi si compiace d’essere adulato,
rimane poi deluso e
scorbacchiato.
Il corvo, appollaiato sopra un alto
albero, per godersi del formaggio
sottratto a una finestra, fu adocchiato
dalla volpe, che prese a lusingarlo:
“Come splendono, corvo, le tue penne!
Come sei bello in viso e in tutto il corpo!
Se avessi anche la voce, sulla terra
nessun alato ti supererebbe”.
Per dar fiato alla voce, quello stolto
aprì la bocca e cadde giù il formaggio,
che subito la volpe ingannatrice
agguantò con i suoi denti famelici.
Soltanto allora il corvo della sua
stupidità beffata ben si dolse.
IL PASSERO DÀ CONSIGLI ALLA
LEPRE
Passer
ad leporem consiliator (I 9)
Quanto sia stolto dare
consigli agli altri e non badare a sé
con pochi versi voglio dimostrare.
Una lepre, finita tra le grinfie
di un’aquila, emetteva gravi gemiti.
Un passero così la derideva:
“Dov’è quella tua nota
velocità? Perché il tuo piede è torpido?”
Mentre era così intento a beffeggiarla,
non visto uno sparviero lo ghermì
e l’uccise tra inutili lamenti.
La lepre allora in fin di vita: “Questo
mi consola nell’ora della morte:
tu che sicuro poco fa ridevi
della mia mala sorte, adesso piangi
con simile lamento il tuo destino”.
LA SENTENZA DELLA SCIMMIA
Lupus
et vulpes iudice simio (I 10)
Chiunque è noto per i turpi inganni
non è creduto, anche se dice il vero.
Lo attesta questa favola di Esòpo.
Era la volpe accusata di furto
dal lupo: quella però lo negava:
si sedette tra i due la scimmia a giudice.
Perorata ciascuno la sua causa,
così, si dice, sentenziò la scimmia:
“Tu, sembra, non perdesti ciò che chiedi;
tu, credo, trafugasti ciò che neghi”.
L’ASINO E IL LEONE A CACCIA
Asinus et leo venantes (I 11)
Chi non val niente e si gonfia a parole
inganna chi non sa,
ma da chi sa è deriso.
Volendo andare a caccia in compagnia
dell’asinello, il leone lo copre
tutto di frasche e nel contempo l’incita
ad atterrire con la voce insolita
le fiere: lui le acchiapperebbe in fuga.
L’asino pronto con tutte le forze
gonfia i polmoni e manda fuori una raglio
così strano e potente
che mette lo scompiglio tra le fiere.
Mentre impaurite cercano le note
vie d’uscita, il leone con tremenda
forza le abbatte; poi, stanco di strage,
richiama l’asino e lo fa tacere.
Quello allora arrogante: “Quale effetto
ti sembra che procuri la mia voce?”
E il leone: “Sublime, tale che,
se ignorassi il tuo cuore e la tua stirpe,
sarei fuggito anch’io,
preso dalla medesima paura”.
CREDULITA’ DEL POPOLO
Ex sutore medicus,
(I 14)
Un ciabattino incapace, stremato
dalla miseria, cominciò in un luogo
straniero a fare il medico e, spacciando
sotto un nome ingannevole un antidoto,
si fece un nome con astute frottole.
Ora accadde che il re della città,
afflitto da una grave malattia,
era a letto. Per metterlo alla prova,
chiese un bicchiere: messavi dell’acqua,
finse di mescolare con l’antidoto
un veleno e, promessogli un gran premio,
gli ordinò di inghiottirlo. Quello allora,
temendo di morire, confessò
di non avere alcuna cognizione
medica e di esser diventato celebre
per la stupidità del volgo. Indetta
un’assemblea del popolo, il sovrano
disse: “Quale demenza è mai la vostra,
che ad uno, a cui nessuno porse mai
i piedi da calzare, voi la testa
non esitate ad affidare?”. Questo
racconto è adatto, direi, per coloro
la cui stoltezza è fonte di guadagno
per chi non si vergogna di ingannare.
CAMBIO DI GOVERNO
Asinus ad senem
pastorem (I 15)
Quando cambia il governo, per i poveri
niente in genere cambia fuor che il nome.
Un vecchio timoroso pascolava
nel prato un asinello. All’improvviso
si alzano grida di nemici: preso
dal terrore, cercava di convincere
l’asino a darsi alla fuga e sottrarsi
al nemico. Ma quello, indifferente:
“Credi, di grazia, che mi metterà
il vincitore due basti per volta?”
Il vecchio disse di no. “Che m’importa
dunque a chi servo, se il basto è lo stesso?”
PREVEGGENZA
Ovis, cervus et
lupus (I 16)
Quando a garanti chiama i disonesti,
conta di fare il male l’imbroglione,
invece di una retta operazione.
Chiedeva il cervo in prestito alla pecora
un moggio di frumento, avendo il lupo
mallevadore. Ma quella, fiutando
l’inganno disse: “Il lupo è sempre solito
rubare e scappar via, tu con veloce
corsa sottrarti agli occhi: dove mai
potrò cercarvi, quando sarà giunto
il giorno in cui mi debba essere reso?”
INGANNO
PUNITO
Ovis, canis et lupus (I
17)
Paga solitamente
del male fatto il fio colui che mente.
Mendace un cane chiedeva alla pecora
un pane di cui gli era, sosteneva,
debitrice. Citato a testimone,
il lupo dichiarò che non d’un pane,
ma di dieci era il debito. Per questa
falsa testimonianza condannata,
la pecora pagò quel che non era
dovuto. Pochi giorni dopo trova
stecchito in una fossa
il lupo. Allora esclama: “Questo premio
t’ hanno dato gli dèi per il tuo inganno”.
LA
CAGNA PARTORIENTE
Canis parturiens (I 19)
Nelle blandizie d’un malvagio covano
le insidie: questa favola
insegna ad evitarle.
Una cagna, che stava per sgravare,
chiese a un’altra il favore di deporre
nel suo covile i propri piccolini:
questa di buona grazia acconsentì.
Quando poi lo richiese indietro, quella
la pregò di lasciarle ancora un breve
spazio di tempo, in modo che potessero
mettere un po’ di forza i cucciolini.
Passato pure questo e reclamando
con più forza il covile: “Quando a me
e al mio branco potrai tenere testa –
disse – me ne andrò via da questo posto”.
L’OLTRAGGIO DEL VILE
Leo senex, aper,
taurus et asinus (I 21)
Quando il vecchio prestigio ci abbandona,
anche il vile approfitta del declino.
Poiché il leone, vinto dall’età
e perduta ogni forza ormai, giaceva
esalando il suo ultimo respiro,
andò da lui il cinghiale con i denti
micidiali e gli inferse una zannata
per vendicarsi di un’antica offesa.
Poi lo investì con le nemiche corna
il toro. Quando l’asino si accorse
che si poteva senza alcun pericolo
colpirlo, a calci gli spaccò la testa.
Quello morendo disse: “Ho sopportato
amaramente l’oltraggio dei forti:
ma che debba subire te, vergogna
della natura, è morire due volte”.
LA RANA SCOPPIATA
Rana rupta et bos
(I 24)
Quando
imita il potente, crepa il povero.
La rana vide in mezzo a un prato il bove
e, di tanta grandezza invidiosa,
prese a gonfiare la pelle rugosa.
Poi ai figli domandò se era del bove
più grande. Quelli dissero di no.
Raddoppiando gli sforzi, allora prese
a gonfiarsi di nuovo e, come prima,
chiese chi era più grande ai figli. Quelli
dissero: il bove. In ultimo, stizzita,
mentre vuole gonfiarsi sempre più,
s’afflosciò a terra col corpo scoppiato.
ACCORTEZZA
Canes et corcodili
(I 25)
Chi dà malvagi consigli agli accorti
spreca il suo tempo e viene svergognato.
Si dice che nel Nilo i cani bevano
correndo, per non essere ghermiti
dai coccodrilli. Un cane dunque, mentre
iniziava, bevuto un sorso, a correre,
così da un coccodrillo fu blandito:
“Bevi quanto ti pare, non temere!”.
Ma quello: “Lo farei, se non sapessi
quanto della mia carne sei goloso”.
LA VOLPE E LA CICOGNA
Vulpes et ciconia
(I 26)
A nessuno si deve far del male,
ma se qualcuno t’offende, l’offesa
va ripagata di uguale moneta.
Ce ne dà questa favola l’esempio.
Si dice che la volpe invitò a cena
per prima la cicogna e che le offrì
nel piatto un cibo liquido, che quella,
benché affamata, non poté ingerire,
per quanti sforzi facesse. Fu poi
la cicogna a sua volta a ricambiare
l’invito. Essa le porse un fiasco pieno
di una ghiotta poltiglia: con gran gusto,
inserendovi il becco, se ne sazia
e tormenta la volpe per la fame.
Mentre questa passava inutilmente
la lingua intorno al collo di quel fiasco,
si dice che l’uccello migratore
così le disse: “Di buon grado soffra
ciascuno il male da lui stesso fatto”.
SMANIA DI RICCHEZZA
Canis et thesaurus et vulturius (I 27)
Agli avidi si addice questa favola
e al povero che vuol darsi per ricco.
Mentre scavava tra ossa umane, il cane
trovò un tesoro; e, avendo gli dèi Mani
offeso, fu da questi, come pena
per la mancata devozione, invaso
da smania di ricchezza. Tutto teso
a custodire l’oro, si dimentica
anche il cibo, così che finì esausto
di fame. Un avvoltoio su di lui
così, si dice, gli parlò: “A ragione,
perisci, o cane, poiché tutto a un tratto
hai vagheggiato ricchezze regali,
tu, concepito per strada ed allevato
in un covile nel mezzo allo sterco”.
IL NIBBIO E LE COLOMBE
Milvus et columbae (I 31)
Chi chiede ad un malvagio protezione,
non trova aiuto, ma va in perdizione.
Poiché spesso riuscivano a sfuggire
al nibbio le colombe ed a scansare
con la celerità del loro volo
la morte, quel rapace escogitò
una finzione ed adescò quegli esseri
indifesi con questo trabocchetto:
“Perché vivete sempre nel tremore,
invece che, sancito un patto, eleggermi
per vostro re, così che da
qualunque
offesa vi protegga? ” Quelle credule
abboccarono ; e, appena eletto re,
cominciò a divorarle ad una ad una
e a comandare con unghie crudeli.
Delle poche superstiti una disse:
“A ragione subiamo questa sorte”.
COSCIENZA DI
POETA
Auctor, II epilogo
All’ingegno di Esòpo i Greci alzarono
una statua: benché schiavo, lo posero
su base eterna, perché fosse chiaro
che la via dell’onore è aperta a tutti
e che non si consegue con la nascita
nobile, ma coi meriti la gloria.
Poiché un altro l’aveva conquistata
per primo, m’adoprai perché non fosse
il solo: questo è ciò che mi restava.
Non fu invidia la mia, ma emulazione.
Che se il Lazio vorrà la mia fatica
compensare col suo favore, avrà
da contrapporre ai Greci un altro nome.
Se la livida invidia cercherà
di denigrarla, non potrà dall’animo
strapparmi la coscienza della gloria.
Se giungerà il lavoro a orecchie colte
e fine mente intenderà il sapiente
tessuto delle favole, il piacere
mi caccerà dal petto ogni querela.
Se quest’opera invece, che è maestra
di vita, cadrà in mano di coloro
che perversa natura ha generato
(atti soltanto a mordere i migliori),
sopporterò con duro cuore i colpi
della maligna sorte fino a quando
non abbia la fortuna
della sua colpa alfine a vergognarsi.
CHI LA FA L’ASPETTI
Panthera et pastores (III 2)
Da chi maltratti avrai pari compenso
Una pantera un giorno era caduta
incauta in una fossa. Se ne avvidero
i contadini e chi pezzi di legno,
chi sassi presero a lanciarle; alcuni
impietositi invece per la sua
prossima e certa fine, le gettarono
del pane, per tenerla ancora un poco
in vita. Fece notte: tutti tornano
tranquilli a casa, come se dovessero
il giorno dopo ritrovarla morta.
Ma quella, appena alle perdute forze
ebbe dato ristoro, con un balzo
repentino esce fuori della fossa
e a passi svelti torna alla sua tana.
Passati pochi giorni, irrompe fuori,
massacra il gregge, trucida i pastori,
tutto devasta con furioso assalto.
Tremano pure quelli che l’avevano
commiserata: il danno non rifiutano,
pregano solo per la loro vita.
Ma quella: “Mi ricordo chi coi sassi
prese a colpirmi e chi mi dette il pane.
Cessate di temere: solo a quelli
che infierirono vengo da nemica”.
IL BENE DELLA LIBERTA’
Lupus ad canem (III
7)
Brevemente dirò quanto sia dolce
la libertà. Per caso s’incontrarono
un cane ben pasciuto e un lupo tutto
pelle e ossa. Scambiatisi i saluti,
il lupo disse: “Cosa ha reso, dimmi,
il tuo pelo così lucente? Quale
cibo ti ha messo così bene in carne?
Io, che di te sono molto più forte,
non mi sostengo per la fame.” E il cane
candidamente: “Puoi anche tu godere
della mia condizione, se allo stesso
servizio adempi”. “Quale?” chiese il lupo.
“Sorvegliare la porta della casa
e di notte proteggerla dai ladri”.
“Sono pronto: ora soffro nevi e piogge,
facendo vita grama nelle selve.
Quanto più facile per me sarebbe
stare al riparo d’un tetto e saziarmi
comodamente di abbondante cibo!”
“Vieni dunque con me”. Mentre procedono,
il lupo vede che il collo del cane
è torno torno tutto spelacchiato.
“Questo, amico, cos’è?” “Nulla” “Ma dimmi
lo stesso, te ne prego.” “Poiché sono
troppo vivace, talvolta mi legano,
perché durante il giorno mi riposi
e la notte stia sveglio. Ma al crepuscolo
vado, slegato, dove più mi piace.
Mi si butta del pane; della sua
mensa il padrone mi riserva gli ossi;
la servitù mi dà bocconi ed anche
le pietanze che avanzano. Così
la mia pancia si riempie senza sforzo”.
“Ma dimmi: se ti fa voglia di andare
in qualche luogo, puoi?” “No, questo no”.
“Goditi pure quel che lodi, o cane:
nemmeno il re farei, senza esser libero”.
I VERI AMICI
Socrates ad amicos, (III 9)
Comune il nome, raro il vero amico.
Socrate (non ne fuggirei la stessa
morte, se ne acquistassi pari fama,
come mi arrenderei alla calunnia,
purché ne fossi assolto dopo il cenere)
si faceva una piccola casuccia.
Poiché gli chiese un popolano: “Scusa,
perché un uomo importante come te
si fa una casa così angusta?”, lui:
“Oh potessi di amici veri empirla!”
VALORE MISCONOSCIUTO
Pullus ad
margaritam (III 12)
In una concimaia un
pollo, mentre
ci razzolava,
rintracciò una perla.
“In che luogo del tuo valore indegna –
disse – tu giaci! Se ti avesse visto
qualcuno amante del tuo pregio, avresti
già ripreso l’antico tuo splendore.
Ma, siccome a trovarti sono io,
che apprezzo molto più il mio nutrimento,
questo non può né a me, né a te giovare”.
La favola è per chi non mi capisce.
SUPPLICA
Poeta, III epilogo
Molte favole ancora avrei da scrivere,
ma di proposito mi astengo: primo,
per non sembrare a te troppo molesto,
che da mille faccende sei premuto;
poi, per lasciare spazio a chi volesse
tentare la mia stessa via, quantunque
sia tale l’abbondanza di argomenti,
che piuttosto l’autore alla materia
manca che questa all’autore. A te chiedo
di compensare la mia brevità
come hai promesso: valga la parola.
Ogni giorno la morte è più vicina
e tanto si farà più tenue il dono
quanto più tardi mi sarà concesso.
Se presto lo farai, ne sarà l’uso
più lungo; ne godrò per maggior tempo
quanto prima l’avrò. Finché di questa
cadente età mi resta qualche avanzo,
tempo allora è d’aiuto: inutilmente
cercherà il tuo buon cuore di soccorrermi,
quando ormai cesserà di essermi utile
col beneficio e la morte vicina
imporrà il suo tributo. Credo stolto
pregare chi è pietoso per natura.
Spesso ottenne il perdono il reo confesso,
quanto è più giusto darlo a un innocente!
L’ufficio è tuo; prima di te fu d’altri,
poi d’altri ancora tornerà con simile
vicenda. Tu nel modo che ti dettano
coscienza e rettitudine decidi
e con la gravità del tuo giudizio
proteggimi. La mente ha oltrepassato
il limite che si era posto, ma
è difficile trattenere l’animo,
che, conscio della propria integrità,
subisce l’oppressione dei malvagi.
Mi domandi chi sono? Appariranno
col tempo. Quanto a me, quella sentenza
che lessi da ragazzo, “Mormorare
in pubblico per un plebeo è delitto”,
finché conserverò sano il cervello,
la terrò bene a mente.
RIMPIANTO
DELLA LIBERTA’
Equus et aper (IV 4)
Nelle acque dove usava dissetarsi
il cavallo, si voltola il cinghiale
e le infanga. Da qui nasce una lite.
Il piè-sonante infuriato l’aiuto
cerca dell’uomo: presolo su in groppa,
ritorna giubilante dal nemico.
Dopo che il cavaliere l’ebbe ucciso
con le frecce, così parlò, si dice:
“Sono lieto di averti dato aiuto
in virtù dei tuoi preghi: ho catturato
la preda e appreso quanto mi sei utile”.
E lo costrinse pur nolente al morso.
Mestamente il cavallo allora: “Folle!
Per cercare una piccola vendetta,
ho trovato una dura servitù”.
Questa favola insegna agli iracondi
che è meglio sottostare all’ingiustizia
che perdere la propria libertà.
I DIFETTI DEGLI UOMINI
De vitiis
hominum (IV
11)
Perché
osservi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello
e non consideri la trave che è
nell’occhio tuo?, Matteo 7, 3
Giove ci mise addosso due bisacce:
quella coi propri vizi sulle spalle,
quella coi vizi altrui davanti al petto.
Per questo non vediamo i nostri errori;
ma, se erra un altro, facciamo i censori.
LA RICCHEZZA CORROMPE
Malas esse
divitias (IV
12)
Quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames!, Verg., Aeneis, III 56-57
A ragione disprezza la ricchezza
una nobile anima:
si oppone
lo scrigno pieno ad una vera gloria.
Accolto in cielo per il suo valore,
Ercole, dopo avere salutato
ad uno ad uno tutti gli dèi accorsi
per rallegrarsi, quando sopraggiunse
Pluto, della Fortuna figlio, volse
altrove gli occhi. Al padre che gli chiese
la ragione, rispose: “Odio costui,
perché dei disonesti è amico e tutto
guasta con l’attrazione del denaro”.
LA MONTAGNA PARTORISCE
Mons parturiens, IV 23
Tra le doglie del parto la montagna
alzava al cielo spaventosi gemiti:
l’attesa sulla terra era grandissima.
Ma quella mise al mondo un topolino.
Questo è scritto per te che fai promesse
grandi e solenni e non concludi nulla.
CUORE OLTRE LE FORZE
Canis et sus et
venator, V 10
Un cane di gran forza, che al padrone
aveva reso i massimi servigi
a caccia di veloci fiere, vinto
dall’età, perse l’antico vigore.
Un giorno, aizzato contro un setoloso
cinghiale, lo addentò per un orecchio,
ma, tradito dai denti ormai consunti,
lasciò la preda. Irato il cacciatore
lo sgridava aspramente. Ed a lui il vecchio
cane della Laconia: “Non il cuore,
ma le mie forze ti hanno abbandonato.
Loda chi fui, se quel che sono biasimi”.
Ben sai, Fileto, perché ho scritto questo.
ESOPO
E LO SCRITTORE
Aesopus et scriptor (App. Perott., 7)
Un tale a Esòpo recitò i suoi pessimi
versi, nei quali molto si lodava.
Curioso di sapere cosa il vecchio
ne pensasse, gli chiese: “Forse credi
che sia presuntuoso? La fiducia
che ho nel mio ingegno non è ben fondata?”
Quello, sfinito dagli orrendi versi,
rispose: “Quanto al fatto che ti lodi,
l’approvo pienamente: infatti questo
non potrai mai sentirlo da nessuno”.
ESOPO E LO SCHIAVO FUGGITIVO
Aesopus et servus
profugus (App. 18)
Non
si deve aggiungere male al male.
Uno schiavo, fuggendo dal padrone
poco umano, incontrò il vicino Esopo.
“Perché così agitato?” “A te, che padre
sei degno ch’io ti chiami, lo dirò
francamente, perché qualunque cosa
a te si dica sta bene al sicuro.
Bòtte anche troppe, cibo molto poco;
di frequente mi mandano al podere,
senza darmi un rosicchio da mangiare.
Quando il padrone cena in casa, sto
l’intera notte in piedi; se invitato,
mi sdraio sulla strada fino all’alba.
Pur guadagnatami la libertà,
canuto servo ancora. Se credessi
di avere qualche colpa, di buon grado
sopporterei: la fame mai mi tolgo
e per di più, me sciagurato, soffro
una crudele schiavitù. Per questo
ed altro che sarebbe lungo dire,
ho stabilito di andarmene dove
i piedi mi conducano”. “Perciò”,
gli disse, “ascolta: se sostieni i mali,
che dici, da innocente, che accadrà
quando ti sarai reso anche colpevole?
Quali vantaggi pensi di ottenere?”
Questo consiglio valse a dissuaderlo.
IL GALLO IN LETTIGA
Gallus lectica a felibus vectus (App.
Perott., La Penna 16)
Il gallo aveva come lettighieri
dei gatti. Quando la volpe lo vide
tutto tronfio procedere, gli disse:
“Guardati, ti consiglio, da un inganno:
se infatti osservi i visi di costoro,
dirai che non un carico
portano, ma una preda”.
Appena quella trista compagnia
cominciò ad avvertire l’appetito,
sbranò il padrone e si spartì il delitto.
UNO SQUALLIDO PERSONAGGIO
Cornix et ovis (App. Perott., 24)
Molti
opprimono i deboli e riveriscono i potenti
La cornacchia pestifera sul dorso
di una pecora s’era appollaiata.
Dopo averla più volte e inutilmente
invitata ad andarsene, la pecora
le disse: “Se tu avessi fatto al cane
con i suoi denti aguzzi questo torto,
l’avresti già pagata duramente”.
E quell’ infame: “Disprezzo gl’inermi
e mi piego ai potenti; so chi offendere
e chi leccare, scaltra: in questo modo
da un anno all’ altro vivo mille anni”.
LA LEPRE E IL BIFOLCO
Lepus et bubulcus (App. Perott., 26)
Molti
sono compiacenti a parole e infidi nel cuore
Mentre la lepre col suo piè veloce
fuggiva il cacciatore, fu veduta
da un bifolco: acquattatasi in un folto
cespuglio, così prese a scongiurarlo:
“Te ne prego, bifolco, per i Sùperi
e per le tue speranze, non tradirmi:
mai ho fatto male ai tuoi campi” e il bifolco:
“Non temere: stai pure lì, al sicuro”.
In quella arriva il cacciatore: “Dimmi,
per favore, bifolco, è qui venuta
una lepre?”. “E’ venuta, sì, ma è andata
di là a sinistra” e con gli occhi accennò
verso destra. Di fretta il cacciatore
non fece caso al cenno e tirò via.
Il bifolco alla lepre: “T’ho salvato
la vita: non mi rendi grazie?” e lei:
“Alla tua lingua sono veramente
grata e con tutto il cuore la ringrazio;
ma dei tuoi occhi perfidi vorrei
che tu restassi privo”.
NB. Le immagini sono tratte da edizioni illustrate delle favole di Fedro dei secoli XVII-XVIII..
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