"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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La concezione del dolore e della morte nel mondo antico
L’uomo tende per sua natura allo star bene, alla felicità. “Non è vero che noi tutti, in quanto uomini, vogliamo star bene?” (Plat., Euthyd . 278 e 280 a: Ἆρά γε πάντες ἄνθρωποι βουλόμεθα εὖ πράττειν;). È interessante notare che in greco “star bene, essere in una condizione felice” equivale ad “agire bene”: c’è nella felicità di ciascuno il suo tendere, con l’azione a tale fine. Il contrario è proprio espresso nel termine che indica la sofferenza: πάσχω infatti è il verbo della passività, del subirei esprime la sofferenza inevitabile dovuta a una sventura, al destino avverso o all’azione sfavorevole degli uomini o della divinità. Ma, dato che questa condizione è la costante della vita, la riflessione porta l’uomo a cercare e a tentare di comprenderne il significato: παθὼνδὲ τε νήπιος ἔγνω: “l’inesperto impara soffrendo!” (Hes., Op . 218) ci dice Esiodo. Πάσχω e πάθος sono ben presto accostati ai termini γιγνώσκω, μανθάνω, μάθος: l’uomo impara la propria condizione, il proprio destino, si fa esperto della vita soffrendo. Anzi la sofferenza viene considerata un dono degli dèi che nella loro saggezza guidano così l’uomo a prendere coscienza del loro essere: “Le vie della saggezza Zeus aprì ai mortali, facendo valere la legge che sapere è soffrire. Geme anche nel sonno dinanzi al memore cuore, rimorso di colpe, e così agli uomini, anche loro malgrado, giunge saggezza; e questo è beneficio dei numi che saldamente seggono al sacro timone del mondo” (Aesch., Ag. 176 ss). E così in Erodoto παθήματα uguale μαθήματα: “Le mie sofferenze sono state per me insegnamenti” (Hdt. I, 207, 1). Qui è Creso che parla e proprio lui aveva posto a Solone il problema della felicità. Egli credeva di essere l’uomo più felice perché ancora non aveva subito sventura, ma Solone, da saggio, gli aveva risposto che non si può considerare felice un uomo finché non sia giunto alla fine della sua vita. Ora Creso, dopo i gravi dolori che hanno travagliato la sua vita, capisce finalmente le parole di Solone e, ciò che è più importante, dichiara di aver tratto insegnamento dalle sue sventure. Sembra fin troppo chiaro l’esempio di Creso per dimostrare che la sola vera maturità l’uomo la raggiunge dopo essere stato visitato dalla sofferenza: è come se si trattasse della possibilità di comprendere così il significato della propria vita. “Guai a voi, stirpi umane! Pari al nulla devo stimare la vita. .... Quale, quale uomo ha della fortuna se non l’apparenza, e, dopo l’apparenza, se non la profonda caduta? Se considero la tua sorte, infelice Edipo, essa mi si fa simbolo della vita umana; non v’è nulla ch’io possa stimare ancora felice” (Soph., Oed. Tyr. 118 ss). Sofocle nel dramma di Edipo riprende il concetto del dolore che sconvolge una vita solo apparentemente felice, ma porta fino alle estreme conseguenze il discorso nell’Edipo a Colono; la vita di Edipo dal dolore è stata purificata e resa a tal punto significativa che diventa guida per chi lo accompagna, alla presenza del dio che quasi lo ha scelto per questo: “Il dio è presente, sento che mi spinge. Non esitiamo più. Figliole, seguitemi là. Ora sono io la vostra guida … Non lo spense un fulmine divino, né una tempesta lo rapì venuta dal mare in quel momento. Forse gli fu mandata una guida divina per un viaggio misterioso. Forse la terra profonda si aprì, ma dolcemente, e lo prese senza dolore. Egli scomparve in una calma quasi celeste. Uno stupore sovrumano”. (Soph., Oed. Col. 1658-65). Questa comprensione così alta del dolore naturalmente trova riscontro solo in alcuni testi, in una felice intuizione di alcuni momenti o di alcuni scrittori particolarmente illuminati. Più facile è trovare affermazioni che constatino la presenza del dolore, della sofferenza individuale che si alterna alla gioia, come caratteristiche costanti della vita: “δεῖ δέ σε χαίρειν καὶ λυπεῖσθαι· θνητὸς γὰρ ἔφυς: è necessario che tu provi gioia e dolore, essendo nato mortale” (Eur., Iph. Aul. 31 s; cfr. Soph., Ai. 554 s; Trach. 126 ss, Menandro fr. 281, 8 ss.). Ma proprio questo gioire e soffrire in “un continuo fluire” è “il piacere della vita”, perché chi non prova né gioia né dolore vive come una pietra (cfr. Plat., Gorg . 494 a). Anche una vita di pura ἡδονή sarebbe solo vegetare come un’ostrica (Plat., Phileb. 21). Piacere e dolore vanno sempre insieme; ciò che è all’apparenza una festa e un momento di gioia è causa invece di dolore, come il matrimonio o la nascita dei figli (Eur., Alc. 238 s; Democr., fr. 276). Va notato che noi stessi siamo spesso la causa del nostro dolore: naturalmente è quello che ci arreca più infelicità (Soph., Ai. 260 ss; Oed. Tyr. 1230 s.) Nelle definizioni filosofiche la λύπη viene trattata indirettamente parlando della ἡδονή. Il dolore, cioè, è il negativo che non ci permette di cogliere la ἡδονή nella sua pienezza, (cfr. Plat., Phileb. 31 b; Arist. Pol. 1, 2; Arist., Eth. Nic. 7, 12-15; 10, 1-5). La Stoa pone la λύπη accanto a φόβος, ἐπιθυμία e ἡδονή fra i πάθη dai quali il saggio è esente: “nihil agit dolor; quamvis sis molestus, numquam te esse confitebor malum” (Cic., Tusc. 2, 61): sono le parole di Posidonio che, tormentato dal dolore, non lo riconosce come un male che lo può danneggiare. Il λυπεῖσθαι è un ἁμάρτγημα, liberarsi dal quale tuttavia non è facile. Secondo la filosofia stoica è a un’errata opinione che si deve attribuire un πάθος. Tutte le opere consolatorie di Seneca si rifanno a questo principio: ci sono due atteggiamenti dell’uomo di fronte al dolore: abbandonarsi alla disperazione senza nemmeno tentare di reagire o cercare di dominarlo e di ricomporre l’animo alla serenità. “Se il destino può essere vinto dal pianto, piangiamo, :i. nostri giorni trascorrano tutti tra gemiti, le notti le distrugga una desolazione senza sonno: percuotiamo con le mani il petto straziato, devastiamo il volto stesso e un dolore salutare ci sconvolga con tormenti d’ogni genere. Ma se il pianto non resuscita nessuno, se nessuna infelicità cambia una sorte immutabile e fissata per l’eternità e la morte non abbandona la sua preda, basta con un dolore inutile. Manteniamo, dunque, il dominio di noi stessi e non lasciamoci trascinar via dalla violenza di tali sentimenti”. (Seneca, Cons. ad Marc. VI, 2-3). Anche nella filosofia epicurea la λύπη ha un significato negativo ed è solo frutto di ignoranza; il piacere consiste nella eliminazione del dolore: “Quando noi dunque diciamo che il fine è il piacere, non intendiamo i piaceri dei dissoluti e dei gaudenti .... ma sobrio giudizio che indaghi le pause di ogni scelta o avversione e discacci gli errori onde gli animi sono colmi di inquietudine” (cfr. Epicuro, Epist. Menec., 131-32). “Dolce è mirar dalla riva, quando sconvolgono i venti / l’ampia distesa del mare, l’altrui gravoso travaglio / non perché rechi piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce / ... come mai non vedere / che la natura a gran voce altro per sé non reclama / se non che resti lontana la sofferenza dal corpo / e che, rimosso l’affanno ed il timore, lo spirito / goda di ‘affetti gradevoli’?” (Lucr., rer. nat. II, 1-19). Una considerazione particolare tra i latini merita Vergilio, che del dolore ha fatto uno dei motivi fondamentali della sua poesia, in particolaire nelle Bucoliche e nell’Eneide; “sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt” (Aen. I, 462): in queste parole si può dire sia sintetizzata la sua visione della realtà. Il dolore sembra quasi il mezzo necessario attraverso il quale l’uomo si purifica, giunge alla maturità e al raggiungimento del suo fine. “La poesia dell’Eneide è nel dolore per le sventure umane, per la patria perduta immeritatamente.... per la santità degli affetti famigliari spezzata, per la vita gettata con impeto generoso.... per l’amore che illude e delude.... per tutti i sogni di pace, di lavoro, di santità, .... per la vanità del travaglio umano, della storia; e questo dolore è a volta a tal dubbio, interrogazione, disperazione, accusa, derisione, sfida orgogliosa o pianto, abbandono, rassegnazione, umiltà, è lamento accorato, preghiera, tristezza e stanchezza. ... A momenti lo accetta, cerca di rendersene ragione, se ne fa una legge di vita intima, senza per altro riuscir mai ad amarlo, a giustificarlo a pieno” (T. Fiore, La poesia di Virgilio, Bari, 1930). Il dolore dunque non è una δόξα, una debolezza inaccettabile per il saggio, ma una caratteristica essenziale della vita, anche degli dèi (cfr. Aen. I, 25; II, 594; IV, 679; VI, 464; IX, 426, ecc.) : Infine è caratteristico che per Epitteto e Marco Aurelio la λύπη sia un segno dell’empietà che si oppone alla inabitazione divina nel κόσμος (Epict., diss. 3, 11, 2; 24, 43; 4, 4, 32). Come si legge in Bultmann, Grande Lessico del Nuovo Testamento, s.v. λύπη: “Questa concezione presuppone sempre che la λύπη, in quanto affetto fondato sull’errore, possa derivare all’uomo soltanto da lui stesso, e dal mondo solo in quanto l’uomo non comprende né afferra la propria indipendenza interiore da esso e si arrende al suo attacco; il saggio evita il mondo. Ciò presuppone la concezione dell’uomo come razionale astorico, per cui rimane nascosto il significato che la λύπη assume come fatto per mezzo del quale si schiude all’uomo il suo proprio essere nell’incontro ostile con il mondo. La Stoa ... non è giunta a domandarsi quale senso abbia la λύπη” (Grande Lessico del N.T., s.v. λύπη). Se il dolore pone tanti problemi e lascia aperti tanti interrogativi, la morte è ancor più “misteriosa” e necessita di risposte almeno parziali. Una cosa è certa: tutto ciò che è vita è destinato a finire con la morte. Nessuno perciò deve osare di raddolcire a parole l’asprezza della morte (Hom., Od. XI, 487 ss.). La morte è guardata perciò con orrore; anzi l’ineluttabilità della morte svela la precarietà della vita: “Progenie d’un giorno! Che cosa noi siamo? Che cosa non siamo? È sogno d’un ombra il mortale” (Pind,. Pyth. 8, 96 ss); così anche Sofocle: “ὁρῶ γὰρ ἡμᾶς οὐδὲν ὄντας ἄλλο πλὴν εἴδωλ᾿, ὅσοιπερ ζῶμεν, ἢ κούφην σκιάν” (Soph., Ai.1250). (Si confronti anche Eur. fr. 532: il morto è γῆ, σκιά). La certezza di questa precarietà, gli affanni e i continui dolori che si incontrano nella vita fanno emergere la coscienza che sia preferibile la sorte di chi .non è mai nato o di chi muore molto presto (cfr. Theogn. 425 ss).. È ricorrente questo pensiero espresso con la famosa formulazione: ὃν οἱ θεοὶ φιλοῦσιν ἀποθνῄσκει νέος. La. morte, seguendo tale pensiero, diventa apportatrice di pace, liberazione dai mali (cfr. Aesch., fr. 255; Soph., Trach. 1173; Oed. Col., 955-1225 ss.; Eur., Tro. 606 s). Viene in questo modo giustificato anche il suicidio. Ma, nonostante tutte le considerazioni sul dubbio valore della vita e sulla morte come raggiungimento della pace, è pur vero che quando giunge il giorno della morte nessuno se ne rallegra: “Perché ogni uomo è tanto attaccato alla vita, anche se sventurato? Perché ogni uomo, nel suo attaccamento alla vita, anche se ha incontrato mille pericoli e sembra perciò desiderare la morte, tuttavia preferisce di molto la vita alla morte” (Aesopicae Fabulae 90 p. 44 C Halm; si confronti anche Eur., Alc. 669 ss; Iph. Aul. 1252 s). C’è un aspetto molto importante che dà valore in un certo senso alla morte perché fa vivere nella memoria dei posteri chi ha abbandonato la vita: è il κλέος; o la δόξα della morte valorosa sul campo di battaglia degli eroi omerici, che rischiano la vita per la gloria (Hom., Il. ΧVΙΙΙ, 115 ss) e di chi muore per la patria come ci dice Tirteo: “τεθναμέναι γὰρ καλὸν ἐνὶ προμάχοισι πεσόντα | ἄνδρ᾿ἀγαθόν περὶ ιἧ πατρίδι μαρνάμενον” (Tyrt. fr. 6, 1 s.). L’ἀρετή (ἀνδρεία) è un valore di per sé stessa anche se non ha come obbiettivo il raggiungimento della δόξα: “οὐδὲ ζῆν ἂν ἐγὼ δεξαίμη νδειλός ὢν” “non vorrei nemmeno vivere, se fossi un vile” (Plat., Alc. 115 d). Ma se questo è vero per l’uomo singolo, si deve invece dire che la morte del valoroso è preziosa soprattutto per la πόλις. “Una tale città combattendo, costoro, che nobilmente pretesero di non esserne privati, sono morti, e ognuno dei sopravvissuti è giusto che sia disposto ad affrontare sofferenze per lei ... Più che compiangere, io consolo i genitori dei caduti qui presenti. Sanno di essere vissuti tra avvenimenti di ogni genere: la felicità si ha quando si ottiene la fine più nobile, come costoro, o il più nobile dolore, come voi, e quando la vita è misurata dall’essere felici e contemporaneamente morire” (Thuc. II, 4 1-44). (Cfr. anche Plat., Menex 248 e). Il morire gloriosamente diventa in un certo senso il tentativo e l’illusione di superare la morte, lasciando appunto un buon ricordo di sé per aver concluso eroicamente la vita, come si legge nell’Ifigenia in Tauride: “θανυύμεθ᾿, ἀλλ᾿ὅπως θανούμεθα κάλλιστα” (Eur., Iph.Taur. 321 s). E così anche Platone nel Menesseno: “Avremmo potuto vivere vilmente, abbiamo scelto di morire nobilmente piuttosto che rovesciare su voi e sui vostri discendenti un’onta, piuttosto che disonorare i nostri padri e tutti i nostri antenati, persuasi che non c’è vita per chi disonora i suoi, e che simile individuo non è caro né a uomini né a dèi, né qua sulla terra, né, morto, quando giace sotterra”. (Plat., Menex 246 d; si confronti anche Plat., Leg. 944 c; Arist., Eth. Nic. 1, 8 p. 1169 a 18 s). Tale visione verrà completamente dissolta dal susseguente scetticismo che considererà la morte come cancellazione di ogni differenza, come appare evidente nei Dialoghi dei morti di Luciano. Il problema più rilevante per quanto riguarda la concezione di una vita dopo la morte, appare comunque essere nel mondo classico la mancanza di una nozione precisa di individuo, unico e irripetibile. Infatti è diffusa nella filosofia e negli scrittori classici l’idea dell'anima universale, o di una energia che pervade l'intero κόσμος che dà vita all’uno e la toglie all’altro, come per esempio nella filosofia ionica. Così anche Euripide si richiama spesso alla nozione naturalistica dell’anima universale immortale. Ma Euripide sa anche che il problema della morte è il problema dell’individuo di fronte alla propria morte. È il problema dell’Alcesti, ove Euripide afferma che nessuno può sostituirsi alla morte di un altro, né lenirne il dolore o evitarne l’orrore. Per trovare una risposta, o meglio la ricerca di un senso della morte e perciò stesso della vita, bisogna arrivare a Platone, che parte dal presupposto che la vita e la morte non siano in sé un ἀγαθόν o un κακόν, ma siano valori solo se misurati su ciò che è giusto. Si legge nell’Apologia: “No, tu non dici bene o amico, se pensi che debba chicchessia, il quale sia capace di qualche bene anche piccolo, far calcolo dei rischi di vita o di morte, e non debba invece a questo solo badare quando operi, se operi il giusto o l’ingiusto e se compia azioni di onesto e valoroso uomo o se di vile e malvagio.... Temere la morte non è altra cosa, o cittadini, che credere d’essere sapienti e non esserlo: perché è credere di sapere quello che uno non sa. E invero della morte nessuno sa s’ella non sia per avventura il maggiore di tutti i beni che possano capitare all’uomo; e tuttavia la temono come se sapessero che essa è il maggiore dei mali. E non è ignoranza codesta, e anzi la più vituperevole ignoranza, credere di sapere ciò che uno non sa? Ora io, o cittadini, proprio per questa ragione e su questo punto credo differire dalla più parte degli uomini; e se in alcuna casa osassi dire di essere più sapiente di qualcuno, solamente per questo lo direi, che come non so nulla di preciso delle cose dell’Ade, così neanche credo saperne. Ma commettere ingiustizia e non fare obbedienza a chi è migliore di noi, sia dio sia uomo, questo so bene che è cosa vergognosa e turpe” (Plat., Apol. 28 b; 29 a-c). Il vero problema allora per l’uomo non a tanto ciò che sarà dopo la morte, ma l’atto di morire. Infatti proprio il momento della morte permette all’uomo di dimostrare se è buono e giusto, o malvagio e vile e quindi di superare così l’ultima prova di obbedienza che Dio chiede all’uomo (28 d; 38 e ss; 41 d s.). Nel Fedone questo pensiero viene sviluppato ulteriormente e viene detto in che senso la morte costituisca l’ultima prova della vita. Essa è il compimento supremo di una vita vissuta nella onestà e nella giustizia che va verso il fine cui il Dio la chiama, è la realizzazione dell’unità con il Dio che è fin dall’origine il suo destino (Plat., Phaed. 64 a; 67 e; 80 e; 85 a-b). La morte colpisce solo il σῶμα e tutta la vita del filosofo è tesa a liberare la ψυχή dal σῶμα del quale è come prigioniera. Ultimamente è proprio questa liberazione dal σῶμα che permette al filosofo di non temere la morte, non tanto il sapere quanto ci sarà dopo la morte, come già Socrate aveva spiegato nell’Apologia. Per quanto riguarda l’immortalità dell’anima esiste solo una grande speranza che rimane comunque un κίνδυνος (Plat., Phaed. 114 a. c. d.).
La filosofia stoica concepisce la morte come un fenomeno naturale. La morte è un problema etico (cfr. E. Benz, Das Todesproblem in der stoischen Philosophie, Stuttgart 1929). Il μελετᾶν ἀποθνῄσκειν “consiste nel considerare sé stesso un fenomeno della natura e la morte un indifferente processo naturale. Anche la vita e i suoi beni illusori sono degli ἀδιάφορα fino ad arrivare a una considerazione pessimistica della realtà umana e della storia. Il valore della vita sta nella responsabilità personale dell’individuo di viverla rettamente, come quello della morte nel morire rettamente. La filosofia è l’arte di vivere e morire rettamente e solo il saggio può raggiungere questa capacità. Il μελετᾶν ἀποθνῄσκειν acquista in Epitteto e Marco Aurelio il senso positivo che era già di Platone. La morte è l’ultima prova di una vita vissuta rettamente e il μελετᾶν ἀποθνῄσκειν corrisponde all’ἐπιστρέφωιν εἰς ἑαυτόν. “Continua nei tuoi progressi e capirai che sono meno da temere proprio quelle cose che fanno più paura. Non ha importanza ciò che sta alla fine. La morte viene verso di te: sarebbe da temersi se potesse rimanere con te. ... Non può godere una vita tranquilla chi pensa troppo a prolungarla e annovera tra i grandi beni il vivere a lungo. Tu, invece, sii sempre pronto a lasciare con animo sereno questa vita... Gli uomini in maggioranza ondeggiano tra il timore della morte e i tormenti della vita; non hanno il coraggio di vivere né sanno morire” (Sen. Ep. 3, 26). Da questo atteggiamento di fronte alla vita deriva una grata accettazione del proprio destino attraverso il quale Dio manifesta la sua grazia agli uomini e li educa. Ma deriva anche l’assunzione della responsabilità morale, in quanto l’uomo è chiamato all’esercizio dell’ ἀρετή. Marco Aurelio aggiunge anche che “siamo nati in funzione gli uni degli altri”: ἀλλήλων ἕνεκεν γεγόναμεν (M. Aur., 8, 56;11, 18). La prospettiva della morte fa accettare ciò che si ha tra le mani, il παρόν (M. Aur. 2, 5, 14; 3,10,12; 6, 2; 10,1). Anche per Seneca, come per Marco Aurelio, la morte si deve aspettare ogni momento, come se ci potesse cogliere da un momento all’altro, non ha importanza la durata della vita: “Sei più giovane; ma che importa? La morte non tiene conto degli anni. Non sai in quale momento essa ti aspetti. Perciò aspettala in ogni momento”. (Sen., Ep. 111, 26). Per quanto riguarda ciò che ci attende dopo la morte non si può parlare di una precisa posizione, ma più che altro di accenni a volte in contrasto tra di loro, di supposizioni che oscillano tra la negazione di ogni sopravvivenza e il ricongiungimento con il Dio da cui l’uomo promana. Secondo Marco Aurelio solo la divinità è eterna. L’individuo non ha vita propria che nel breve passaggio di eternità che gli è accordato e separato dalla divinità si perde lui stesso al momento della sua morte per rifondersi nella divinità. Il saggio dice che non appartiene a sé stesso, ma a Dio e si rende a Lui, venuto il momento, con serenità. Anche in Seneca ritroviamo la stessa contraddizione, che deriva comunque dalla concezione di un’anima universale che annulla ogni possibilità di sopravvivenza personale: “La morte è il non essere, ed io già so che cosa significhi il non essere. Dopo di me sarà ciò che fu prima di me” (Sen., ep. 6, 54). Ma nello stesso tempo ci dice anche: “L’anima umana è una cosa grande e nobile, e non tollera che le siano posti altri limiti se non quelli comuni con la divinità. Anzitutto non accetta un’umile patria, sia essa Efeso o Alessandria, o qualunque altra città, anche la più popolosa e là più bella. La sua patria è lo spazio immenso che circonda tutte le cose, questa volta celeste entro cui giacciono i mari con le terre, entro cui l’atmosfera separa e al tempo stesso congiunge l’umano e il divino, entro cui tante luci disposte con divina armonia attendono all’opera propria. Inoltre l’anima non ammette che le si assegni un ristretto periodo di vita: – Tutti gli anni – ella dice – sono miei, non c’è nessun secolo chiuso ai grandi spiriti, nessun’epoca inaccessibile al loro pensiero. Quando verrà quel giorno che separerà questo miscuglio di umano e di divino, lascerò questo corpo là dove l’ho trovato, ed io tornerò fra gli esseri divini. Neppure ora sono completamente scissa da loro, ma il grave peso della materia mi trattiene in basso –. Attraverso il breve decorso di questa vita mortale si prepara a quell’altra migliore e più lunga”. (Sen., Ep. 17, 102).
La concezione epicurea è lapidariamente espressa nella lettera a Meneceo: “Abituati a pensare che nulla è per noi la morte: in quanto ogni bene e male è nel senso, laddove la morte è privazione del senso. Perciò la retta conoscenza che la morte è nulla per noi, rende gioibile la mortalità della vita: non che vi aggiunga interminato tempo, ma sgombra l’immedicato rimpianto dell’immortalità” (Epic., ep. Menec. 124). È una cosa stolta dunque nella concezione epicurea il timore della morte, ma è stolto anche considerarla e desiderarla come riposo dai mali della vita. È solo il non esistere più. Proprio per questo motivo la meditazione della morte e il morire bene non hanno nessun valore. Ciò che conta è solo il tempo della vita che va speso nel modo che dia più “dolce frutto” possibile. Questa concezione ripresa da Lucrezio, non trova invece riscontro nell’epicureismo di Virgilio, il quale si rifà piuttosto alla visione platonica di una sopravvivenza dopo la morte con un trattamento diverso per i ‘beati’ rispetto agli uomini che non si sono fatti alcun merito nella vita. Interessante è notare l’esplicita affermazione di una reincarnazione per alcuni, che ha lo scopo di rendere più pure certe anime che sono particolarmente elette, sempre comunque nella visione dell’anima universale che caratterizza anche le più elevate ἐλπίδες del mondo classico riguardo al destino ultimo dell’uomo.
Paola Tamburini
Nelle immagini: 1. anfora del VI sec. a.C. (attribuita al cd. Pittore di Diosphos) raffigurante Thanatos e Hypnos che portano via il corpo di un eroe morto (Sarpedonte) (New York, Metropolitan Museum); 2. rilievo funerario di Aurelio Erma e sua moglie Aurelia Filemazio (da Roma, via Nomentana, ca. 80 a.C., ora a Londra, British Museum); 3. Hypnos e thanatos (gruppo marmoreo del I sec. d.C., copia di originale del IV-V sec. a.C., proveniente da Roma e oggi al Prado di Madrid).
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