"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

  HomeChi siamoLa rivistaTestiDidatticaAttivitàGuestbookVariaCerca

 

 

 

Orazio e l’epicureismo.

Alcune osservazioni in margine al problema.

 

di Sergio Monaco

 

(da Zetesis 1992/1: fa parte di un numero dedicato al bimillenario della morte di Orazio)

 

Monumento di Orazio nella sua città natale di Venosa (PZ)Scrivendo in occasione del bimillenario della nascita di Orazio, Friedrich Klingner osservava che l’opera del poeta venosino appartiene al presente, dilatato e meditato, della nostra memoria, e costituisce, nonostante i duemila anni che la separano da noi, un pezzo del nostro essere. Tuttavia, continuava, può avvenire che Orazio ci appaia come un poeta ancora da scoprire; e a nessuno vengono risparmiate la fatica e la gioia di una conquista, sempre più autentica e sempre rinnovata, della sua poesia (1). Questa riflessione del grande studioso tedesco appare ancor oggi viva e attuale: in effetti la poesia di Orazio, pur essendo una presenza tra le più feconde e costanti all’interno della nostra cultura, e non solo di quella letteraria (2), mantiene un certo carattere sfuggente, che rende difficile una sua definizione netta e definitiva, non fosse altro che per la varietà di atteggiamenti, di stili, di forme che in essa si riscontra. Questa consapevolezza è forse l’atteggiamento migliore per affrontare un problema così complesso e irto di difficoltà come il rapporto di Orazio con la filosofia, e la filosofia epicurea in particolare (3): le varie osservazioni e considerazioni che via via si esporranno si configurano, in questo modo, come semplici tentativi di illuminare, parzialmente, alcuni aspetti della questione.

L’ode quarta del terzo libro (Descende caelo et dic age tibia / regina longum Calliope melos) contiene l’episodio più remoto che della sua vita ci racconta Orazio; è configurato come una sorta di mito, di mito simbolico: il poeta si rivede fanciullo; elusa la vigilanza della nutrice, vaga tra le selve del Vulture, dove poi, sfinito dalla fatica del gioco, si addormenta; miracolosamente viene ricoperto, dalle colombe, fronde nova, di fronde novelle. Tutti stupiscono dell’inspiegabile prodigio: il fanciullo viene ritrovato serenamente addor­mentato tuto ab atris corpore viperis ... et ursis, protetto dal sacro alloro e dal mirto, non sine dis animosus infans. Il racconto ci richiama a episodi consimili che era tradizione fossero occorsi a grandi poeti greci: Pindaro, Stesicoro, Platone, ai quali, fanciulli, un avvenimento prodigioso era stato presagio di futura grandezza; e riprende un diffuso τόπος letterario, quello della consacrazione a poeta, che risale sino ad Esiodo (4). In questo episodio della sua lontana fanciullezza, così orazianamente compenetrato dì elementi fantastici e reali, di suggestioni mitiche e di particolari dimessi e quotidiani, si rivela la sua natura di poeta (5). E il fatto, sia pur abbellito e poeticamente trasfigurato, è da considerarsi reale e, oltre a significare la vocazione alla poesia, può essere assunto a paradigma e vagheggiamento di una vita lontana da pericoli e affanni, da inquietudini e molestie, di quella sicurezza, insomma, che è ideale umano e filosofico insieme. E’ significativo che proprio in quest’ode alla Musa appaiono echi di concezioni filosofiche riconducibili al pitagorismo, che, soprattutto a partire dal sec. I a.C., a Roma, confluivano nel platonismo e vi si confondevano: la divina melodia modulata dalle Muse è movimento iniziale che rimane poi presente per tutto lo svolgimento successivo e agisce da elemento di coesione, espandendosi e identificandosi prima nell’armonia politica (il lene consilium di v. 41), poi in quella cosmica e universale (la sconfitta dell’empia tracotanza dei Titani).

Ricordo, forse, di quel quaerere verum giovanile tra le selve di Academo, di cui il poeta racconta nell’epistola a Floro (ep. II 2,45)? In ogni modo è innegabile qui la presenza dì elementi o suggestioni filosofiche (anche se, come opportunamente avverte A. La Penna, non è certo il caso, in quest’ode, di “calcare troppo la mano” (6)) di origine e orientamento diversi, ma tra loro armonicamente intrecciati (epicureo, naturalmente, è il motivo iniziale della sicurezza), introdotti senza pesantezza e invadenza alcuna, del tutto assorbiti nella poesia e fatti poesia essi stessi. Alla luce dì tali considerazioni, quest’ode può essere presa come una sorta di riferimento ideale per un’indagine intorno alla questione del rapporto di Orazio (e si intende qui soprattutto l’Orazìo dei sermones) con la filosofia. Ché Orazio filosofo non fu, e nemmeno mai fu inclinato alla speculazione filosofica; e sempre motivi e suggestioni filosofiche si trovano fusi e integrati nella poesia, anche se certo non sempre con quella incantevole levità dell’ode sopra ricordata.

Occorre tener conto, innanzitutto, di quanto fosse importante a Roma la preparazione filosofica per l’uomo colto, lo scrittore, a partire dalla tarda età repubblicana, e forse ancor prima.

Significativi sono, a questo proposito, i versi autobiografici di Orazio nella seconda epistola del secondo libro (vv. 41-45):

 

                                 Romae nutriri mihi contigit, atque doceri

                                 iratus Grais quantum nocuisset Achilles.

                                 Adiecere bonae paulo plus artis Athenae,

                                 scilicet ut vellem curvo dinoscere rectum,

                                 atque inter silvas Academi quaerere verum.

 

Orazio, dunque, come si ricordava anche poco sopra, impara proprio nel bosco di Academo a quaerere verum, a ricercare la verità. Ma se suggestioni platoniche continueranno a rimanere vive nell’animo di Orazio (e se ne è visto un esempio nell’ode III 4), senza tuttavia mai imporsi con assoluta e incontestabile chiarezza, decisivo fu l’incontro con la filosofia epicurea, forse favorito dalla possibile frequentazione della scuola epicurea di Filodemo di Gadara e di Sirone (7).

In ogni caso Orazio non sarà mai un seguace in senso stretto della filosofia epicurea, rimanendo sempre fondamentalmente estraneo alle sottili discus­sioni dottrinali: il suo nullius ... iurare in verba magistri (ep. I 1, 14) è rivelatore di un atteggiamento antisettario, che sarà una costante nella vita di Orazio. Non a torto, infatti, si è anche parlato di un suo “pratico sincretismo” (8),  per cui vengono accolti dalle varie scuole filosofiche dell’epoca motivi potenzialmente poetici e meditativi, o tali da trovare un diretto riscontro nella vita di tutti i giorni; nell’epistola sopra ricordata Orazio si dichiara pronto a passare dallo stoicismo più rigido all’edonismo di Aristippo (9) (vv. 10-19):

 

                              Nunc itaque et versus et celera ludicra pono;

                              quid verum atque decens, curo et rogo et omnis in hoc sum;

                              condo et compano quae mox depromere possim.

                              Ac  ne forte roges quo me duce, quo lare tuter,

                              nullius addictus iurare in verba magistri,

                              quo me cumque rapiit tempestas, deferor hospes.

                              Nunc agilis fio et mersor civitibus undis,

                              virtutis verae custos rigidusque satelles;

                              nunc in Aristippi furtim praecepta relabor,

                              et mihi res, non me rebus subiungere conor.

 

riecheggiando, con elegante tecnica allusiva, proprio una frase attribuita allo stesso Aristippo (10).

Non è possibile precisare e determinare quali furono le effettive letture epicuree di Orazio, considerando anche che certe idee e certi spunti potevano circolare a Roma tra gli ambienti colti del tempo ed essere così assimilati anche senza espliciti riferimenti a un’opera definita. Fuori discussione è, naturalmente, la conoscenza di Lucrezio (la cui presenza in Orazio è importante non certo solo dal punto di vista filosofico, e si può riscontrare in tutto il percorso della sua opera). Ricca di spunti lucreziani, in particolare, è la terza satira del primo libro, soprattutto ai versi 99 ss., con la descrizione dell’umanità ferina dei primordi e il rapido schizzo di storia dell’ incivilimento umano, dove è evidente il modello del quinto libro del De rerum natura. Eco lucreziana anche in sat. I 5,101-103:

                                  

                                   ... namque deos didici securum agere aevum

                                   nec si quid miri faciat natura, deos id

                                   tristis ex alto caeli demittere tecto.

 

che riprende, con efficace sintesi, De rerum natura V, 82-90 = VI, 58-66 (11).

Busto di Epicuro (Pergamon Museum, Berlino)Una conoscenza diretta di testi dello stesso Epicuro non è con certezza dimostrabile, ma neppure può essere esclusa (12). Più sicura è, invece, la conoscenza degli epicurei contemporanei, come Filodemo; e di più che probabile ascendenza filodemea è la satira seconda del primo libro (contro gli adulteri e in difesa della Venus vulgivaga), come si evince dal confronto con alcuni passi di Origene, che rimandano, come ha dirnostrato Q.Cataudella, a una fonte comune, da riconoscere, molto verosimilmente, appunto in Filodemo, forse il Filodemo del περὶ κακιῶν  e del περὶ ἔρωτος (13).

Così come accertata è la frequentazione delle opere di Bione, in cui Orazio ritrovò, espressa in forma di diatriba, una concezione della vita per molti aspetti analoga a quella epicurea (14).

Certo, l’epicureismo di Orazio (anche quello, più scoperto, delle satire) non è mai adesione dottrinaria a una scuola: l’interesse è circoscritto agli aspetti morali (pressoché ignorate la fisica e la cosmologia, che così appassionata­mente interessarono Lucrezio), e anche questi sono trattati senza pretesa alcuna di sistematicità e coerenza. “I suoi (di Orazio) atteggiamenti morali e polemici − osserva A. La Penna (15) − vanno saggiati e definiti tenendo presenti innanzi tutto i problemi che di volta in volta affronta, i suoi stati d’animo e, per una visione più ampia, il suo gusto personale, l’umore e il colore dell’uomo Orazio”. L’atteggiamento fondamentale e più caratteristico, se vogliamo, è quello espressamente dichiarato in sat. I 4,115-120:                                

                                

                                 aiebat (sc. pater): “sapiens, vitatu qidque petitu

                                 sit melius,  causas reddet libi: mi satis est si       

                                 traditum ab antiquis morem servare tuamque,

                                 dum custodis eges, vitam famamque tueri

                                 incolumem possum; simul ac duraverit aetas

                                 membra animumque tuum nabis sine cortice”…

.

Il filosofo potrà solo dare un fondamento razionale e dottrinario a una verità intuita attraverso l’esperienza e saldamente radicata nel mos maiorum. Non a caso, nelle satire, i veri “maestri” di Orazio sono persone semplici, che incarnano, però, nella loro apparente rozzezza, il buon senso naturale, istintivo, ma capace di cogliere i valori essenziali della vita. Oltre ai padre, abbiamo il praeceptor Ofello, della seconda satira del secondo libro (rusticus, abnormis sapiens crassaque Minerva, v. 3) (16); o il Cervio della sesta satira del secondo libro, la cui saggezza si esprime nella gustosa favola del topo di campagna e del topo di città (vv. 77 ss.).

Vorrei ora richiamare l’attenzione su alcuni aspetti caratteristici dell’opera di Orazio, che sembrano riflettere, in modo discreto ma non meno limpido, un’adesione spirituale, di tipo certo “più sentimentale che dottrinario” (17) all’epicureismo, o meglio, forse, una sorta di consonanza interiore con questa filosofia.

Il primo è quello che si potrebbe chiamare il “sentimento della festa”. In Epicuro l’edonismo si converte nell’ascetismo. Contro l’opinione comune che identifica l’edonista con il gaudente dissoluto, Epicuro ammonisce (ep. ad Men. 131-132):

 

Ὅταν οὖν λέγωμεν ἡδονὴν τέλος ὑπάρχειν, οὐ τὰς τῶν ἀσώτων ἡδονὰς καὶ τὰς ἐν ἀπολαύσει κειμένας λέγομεν, ὥς τινες ἀγνοοῦντες καὶ οὐχ ὁμολογοῦντες ἢ κακῶς ἐκδεχόμενοι νομίζουσιν, ἀλλὰ τὸ μήτε ἀλγεῖν κατὰ σῶμα μήτε ταράττεσθαι κατὰ ψυχήν. οὐ γὰρ πότοι καὶ κῶμοι συνείροντες οὐδ' ἀπολαύσεις παίδων καὶ γυναικῶν οὐδ' ἰχθύων καὶ τῶν ἄλλων ὅσα φέρει πολυτελὴς τράπεζα, τὸν ἡδὺν γεννᾷ βίον, ἀλλὰ νήφων λογισμὸς καὶ τὰς αἰτίας ἐξερευνῶν πάσης αἱρέσεως καὶ φυγῆς καὶ τὰς δόξας ἐξελαύνων, ἐξ ὧν πλεῖστος τὰς ψυχὰς καταλαμβάνει θόρυβος.

 

Si tratta del piacere catastematico, che consiste e coincide con la completa eliminazione del dolore, con lo stato permanente di un senso di serenità. Il piacere autentico non è, pertanto, il processo di soddisfacimento del bisogno, ma lo stato di soddisfazione già conseguito; e la felicità richiede soltanto ciò che basta a eliminare, nel modo più semplice e diretto, il dolore del bisogno. Da qui l’ αὐτάρκεια, la capacità, propria del saggio,di restringere al massimo l’ambito della propria vita e di divenire così padroni del proprio destino. Se quindi il piacere consiste nella completa eliminazione del dolore, il bisogno deve essere eliminato, e il desiderio contenuto ed eliminato anch’esso. “La via che conduce alla beatitudine è... quella negativa dell’eliminare alcunché, non quella positiva dell’acquistare; quella della rinuncia e non quella del possesso” (18).

Tuttavia l’ascetismo epicureo presenta un aspetto singolarmente mite e moderato. Infatti, mentre esige la soppressione totale dei desideri non naturali, Epicuro, per quanto riguarda i desideri non necessari ma naturali, pretende soltanto che se ne riconosca la natura e che non siano falsamente ritenuti necessari: per questi desideri, per il superfluo, infatti, “si richiede non che si debba, ma che si possa fare a meno” (19):

 

Καὶ τὴν αὐτάρκειαν δὲ ἀγαθὸν μέγα νομίζομεν, οὐχ ἵνα πάντως τοῖς ὀλίγοις χρώμεθα, ἀλλ' ὅπως, ἐὰν μὴ ἔχωμεν τὰ πολλά, τοῖς ὀλίγοις ἀρκώμεθα, πεπεισμένοι γνησίως ὅτι ἥδιστα πολυτελείας ἀπολαύουσιν οἱ ἥκιστα ταύτης δεόμενοι, καὶ ὅτι τὸ μὲν φυσικὸν πᾶν εὐπόριστόν ἐστι, τὸ δὲ κενὸν δυσπόριστον, οἵ τε λιτοὶ χυλοὶ ἴσην πολυτελεῖ διαίτῃ τὴν ἡδονὴν ἐπιφέρουσιν, ὅταν ἅπαν τὸ ἀλγοῦν κατ' ἔνδειαν ἐξαιρεθῇ, καὶ μᾶζα καὶ ὕδωρ τὴν ἀκροτάτην ἀποδίδωσιν ἡδονήν, ἐπειδὰν ἐνδέων τις αὐτὰ προσενέγκηται. τὸ συνεθίζειν οὖν ἐν ταῖς ἁπλαῖς καὶ οὐ πολυτελέσι διαίταις καὶ ὑγιείας ἐστὶ συμπληρωτικὸν καὶ πρὸς τὰς ἀναγκαίας τοῦ βίου χρήσεις ἄοκνον ποιεῖ τὸν ἄνθρωπον καὶ τοῖς πολυτελέσιν ἐκ διαλειμμάτων προσερχομένοις κρεῖττον ἡμᾶς διατίθησι καὶ πρὸς τὴν τύχην ἀφόβους παρασκευάζει.  (ep. ad Men. 130-131).

 

Così commenta il passo Domenico Pesce: “Si direbbe quasi che la distinzione tra il necessario e il non necessario sia riportata all’altra tra il quotidiano e il festivo e che la filosofia di Epicuro si preoccupi tra l’altro di recuperare appunto il sentimento della festa” (20).

Un tale “sentimento della festa” troviamo pure in Orazio: esso caratterizza    l’atmosfera di molte odi, e trova espressione esplicita in sat. II 2,82-86:

 

                              hic (colui che segue un victus tenuis) tamen

                              ad melius poterit transcurrere quondam,

                              sive diem festum rediens advexerit annus,

                              seu recreare volet tenuatum corpus, ubique

                              accedent anni et tractari mollius aetas

                              imbecilla volet...

 

Lo stesso motivo del carpe diem acquista tutta la sua pregnanza e profondità quando lo si rapporti alla più autentica spiritualità epicurea, a quella “disposizione elementare ed esistenziale di gratitudine per la vita” (21), al valore assoluto che acquista, in questa prospettiva, il semplice fatto di esistere, la gioia di vivere. “Il saggio è ... l’uorno che vive nell’essere, che accetta la realtà effettiva delle cose e ad esse si adegua, di che la conferma si ha nel fatto che, invertendo la tendenza dell’uomo comune che ha sempre lo sguardo rivolto al futuro, da esso attendendosi quella felicità che invano ha fino ad ora ricercato, esso vive e gode nel presente e, se occorre, si rifugia nel passato. Sull’insoddisfazione ricorrente, sull’aspirazione continua ad una vita che non è dato quaggiù sperimentare, si era fondato Platone per costruire la sua filosofia della speranza; ammonendo che è nella dimensione del presente che si può toccare l’assoluto, Epicuro fonda la sua dottrina della certezza” (22).

In Orazio l’ode IV 7 (Diffugere nives, redeunt iam gramina campis / arboribusque comae) illustra con particolare chiarezza “contrapponendola alla reparatio cosmica, l’unicità della fugace esistenza individuale, per derivare proprio da questa opposizione il diritto, anzi la necessità, di prender coscienza della gioia di vivere contenuta nell’oggi” (23). Così anche in carm. I l1 (Tu ne quaesieris...) e soprattutto in carm. III 29, 32-43:

 

                                                ... . quod adest memento

                                  componere aequus; cetera fluminis

                                  ritu feruntur, nunc medio alveo
                                  cum pace delabentis Etruscum  
.
                                  in mare, nunc lapides adesos

                                  stirpesque raptas e tpecus et domos
                                  volventis una non sine montium
                   

                                  clamore vicinaeque silvae,
                                  cum fera diluvies quietos
                                  irritat amnis. Ille potens sui
                                  laetusque deget, cui licet in diem
                                  dixisse “vixi”...

 

Con tutti questi passi si può confrontare un testo di Epicuro:

 

Γεγόναμεν ἅπαξ, δὶς δὲ οὐκ ἔστι γενέσθαι· δεῖ δὲ τὸν αἰῶνα μηκέτι εἶναι· σὺ δὲ οὐκ ὢν τῆς αὔριον κύριος ἀναβάλλῃ τὸ χαῖρον· ὁ δὲ βίος μελλησμῷ παραπόλλυται καὶ εἷς ἕκαστος ἡμῶν ἀσχολούμενος ἀποθνῄσκει. (Gnomol. Vat. 14)

 

Si tratta, in definitiva, di una sorta di “esercizio spirituale” (24) 

Ἀκολουθεῖν δεῖ τὸν παρὰ τῶν ἄλλων ἔπαινον αὐτόματον, ἡμᾶς δὲ γενέσθαι περὶ τὴν ἡμῶν ἰατρείαν.

 

e ep. ad Men. 122:

 

οὔτε γὰρ ἄωρος οὐδείς ἐστιν οὔτε πάρωρος πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον.

 

E la salvezza, rigorosamente racchiusa entro un orizzonte terreno, altro non è che la definitiva liberazione da ogni affanno, da ogni turbamento, da ogni ansietà, il raggiungimento e la conquista di una autentica gioia di esistere, a cui si è condotti, appunto, attraverso una ascesi fatta di meditazione assidua e ininterrotta. Cfr. ep. ad Men. 135:

 

Ταῦτα οὖν καὶ τὰ τούτοις συγγενῆ μελέτα πρὸς σεαυτὸν ἡμέρας καὶ νυκτὸς <καὶ> πρὸς τὸν ὅμοιον σεαυτῷ, καὶ οὐδέποτε οὔθ' ὕπαρ οὔτ' ὄναρ διαταραχθήσῃ, ζήσῃ δὲ ὡς θεὸς ἐν ἀνθρώποις. οὐθὲν γὰρ ἔοικε θνητῷ ζῴῳ ζῶν ἄνθρωπος ἐν ἀθανάτοις ἀγαθοῖς.

 

Seguiamo, a questo punto, la densa e illuminante esposizione di P. Hadot: “Ma la meditazione, semplice o dotta, non è l’unico esercizio spirituale epicureo. Diversamente dalla tesi degli stoici, per guarire l’anima non bisogna esercitarla a tendersi, ma, al crla a distendersi. Anziché rappresentarci i mali in anticipo, per prepararci a subirli, dobbiamo, al contrario, staccare la nostra mente dalla visione delle cose dolorose, e fissare lo sguardo sui piaceri. Occorre fare rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri del presente, riconoscendo quanto siano grandi e gradevoli tali piaceri del presente. Si tratta di un esercizio spirituale ben determinato: non più la vigilanza continua dello stoico, che si sforza di essere sempre pronto a salvaguardare, ogni istante, la sua libertà morale, ma la scelta deliberata, sempre rinnovata, della distensione e della serenità, e una gratitudine profonda verso la natura e la vita che, se sappiamo trovarli, ci offrono incessantemente il piacere e la gioia. Analogamente, l’esercizio spirituale che consiste nello sforzo di vivere nel momento presente è molto diverso negli stoici e negli epicurei. Per i primi è tensione dello spirito, veglia costante della coscienza morale; per i secondi è, ancora una volta, invito alla distensione e alla serenità: la cura, la preoccupazione volta al futuro, che ci lacera, ci nasconde il valore incomparabile del semplice fatto di esistere:  ‘Si nasce una volta, due volte non è concesso, ed è necessario non essere più in eterno; tu, pur non essendo padrone del tuo domani, procrastini la gioia, ma la vita trascorre nell’ indugiare e ciascuno di noi muore senza aver mai goduto della pace’. E’ il famoso verso di Orazio: carpe diem: ‘Mentre noi parliamo, è fuggito il tempo invidioso: cogli l’oggi, senza alcuna fiducia nel futuro!’. Infine per gli epicurei proprio il piacere è esercizio spirituale: piacere intellettuale della contemplazione della natura, pensiero del piacere passato e presente, infine piacere dell’amicizia” (25). E’ facile riconoscere, in questa ricostruzione, molti aspetti, forse i più intimi, di Orazio. La stessa amicizia, uno dei temi centrali della poesia oraziana, acquista, in questa luce, profondità e intensità nuove, diventa parte integrante della saggezza. “Lo scambi o intellettuale, il sostegno reciproco degli affetti, infatti, non portano soltanto a rafforzarsi reciprocamente nella ricerca di scienza astratta, ma sono essi stessi il fine: nella comunione dei cuori risiede la pace dell’anima, cioè la perfetta εὐδαιμονία” (26).

Tutta l’opera di Orazio è attraversata da questo motivo, uno dei più sentiti del mondo e della spiritualità oraziani, ma si può ricordare, in particolare, quella che potrebbe essere definita la “satira sull’amicizia”, la terza del primo libro: il vero amico è come l’innamorato, che non vede i difetti dell’amata, o li considera come pregi; o come il padre, che non prova fastidio per le manchevolezze del figlio:


                        Illuc praevertamur, amatorem quod amicae
                        turpia decipiunt caecum vitia, aut etiam ipsa haec
                        delectant, veluti Balbinum polypus Hagnae.
                        Vellem in amicitia sic erraremus, et isti
                        errori nomen virtus posuisset honestum.
                        At pater ut gnati sic nos debemus amici
                        si quod sit vitium non fastidire: strabonem
                        appellat paetum pater, et pullum, male parvus
                        si cui filius est, ut abortivus fuit olim
                        Sisyphus; hunc varum distortis cruribus, illum
                        balbutit scaurum pravis fultum male talis.
                        Parcius hic vivit: frugi dicatur. Ineptus
                        et iactantior hic paulo est: concinnus amicisis
                        postulat ut videatur. At est truculentior atque
                        plus aequo liber: simplex fortisque habeatur.
                        Caldior est: acris inter numeretur. Opinor,
                        haec res et iungit iunctos et servat amicos.
(vv. 38-54)
 

E saranno proprio i dulces amici, con la loro indulgenza benevola e affettuosa, a rendere la vita più beata di quella di un re (vv. 139-142)

 

                                               ... et mihi dulces

                                  ignoscent, si quid peccaro stultus, amici,

                                  inque vicem illorum patiar delicta libenter,

                                  privatusque magis vivam te rege beatus.

 

E non è un semplice dato statistico osservare che nei centoquarantadue versi della satira le parole amicus o amicitia ricorrono ben quattordici volte (27), a confermare la centralità del motivo e l’amorevole insistenza con cui Orazio vi ritorna.

Non manca neppure, in Orazio, la pratica dell’esame di coscienza (28): essa è ben riconoscibile negli ultimi versi della quarta satira del primo libro: i propri mediocria vitia potranno essere eliminati, in parte, dall’età, dalla franchezza degli amici e dal

 

                            consilium proprium: neque enim, cum lectulus aut me

                            porticus excepit, desum mihi: “rectius hoc est:

                            hoc faciens vivam melius: sic dulcis amicis

                            occurram: hoc quidam non belle; numquid ego illi

                            imprudens olim faciam simile?” haec ego mecum

                            compressis agito labris; ubi quid datur oti

                            illudo chartis... (vv. 133-139)

 

Compressis labris, ubi quid datur oti / illudo chartis rimandano a ben precisi momenti dell’esame di coscienza: ripercorrere mentalmente, a labbra chiuse, le azioni della giornata, in dialogo con se stessi, e, eventualmente, annotare per iscritto (29).

Il rapporto di Orazio con l’epicureismo appare quindi fondato non tanto su una stretta adesione dottrinaria ai principi filosofici della scuola, quanto su una profonda, intima consonanza con un ideale di saggezza, sulla condivisione di uno stile di vita, di una visione complessiva della vita e del mondo, su un’interiorità che sa cogliere l’essenziale in ogni situazione e in ogni accadimento umano. Al di là di eventuali incoerenze e contraddizioni, questo ci appare il volto più autentico di Orazio, e in questo senso è legittimo parlare di un epicureismo di Orazio.


1) Friedrich Klingner, Horaz, in Die Antike, Bd. XII (1936), p. 65 (anche in Römische Geisteswelt, Monaco 1965, p. 327)

2) Significativo, a questo proposito, il titolo del saggio di A. La Penna premesso all’ edizione sansoniana delle opere di Orazio: Orazio e la morale mondana europea.

3) Numerosi sono gli studi specifici sulla cultura filosofica di Orazio e sui suoi rapporti con le varie scuole filosofiche del tempo. Tra i più importanti si ricordano: E. Courbaud, Horace. Sa vie et sa pensée à l’époque des épîtres: étude sur le premier livre, Parigi 1914 (In quest’opera si sostiene la tesi di una “conversione” di Orazio dall’epicureismo allo stoicismo); J. Kroll, Horaz’ Oden und die Philosophie, in “Wiener Studien” 1915, pp. 223 ss.; V. Ussani, Orazio e la filosofia popolare, in “Atene e Roma” 19 (1916), pp. 1 ss.; H. K. Beck, Das Verhältnis des Horaz zum Epikureismus in historischer Entwicklung, Erlagen 1921; A. Rabe, Das Verhaltnis des Horaz zur Philosophie, in “Archiv für Geschichte der Philosophie und Soziologie 1929, pp. 77 ss.; O. Tescari, La filosofia in Orazio, in “Convivium” 1937, pp. 193 ss.; C. Diano, Figure del mondo augusteo: Orazio e l’epicureismo, in “Nuova Antologia” 1 settembre 1938, pp. 83 ss.; G. Vanella, Il  mondo di Orazio satiro. Fonti. Pensiero. Originalità, Napoli 1968.

4) Occorre, naturalmente, tener conto anche della “voga che già nel I sec. a.C. hanno autobiografìe in cui elementi miracolosi, specialmente prodigi preannunzianti il futuro, hanno un peso non trascurabile” (A. La Penna, Orazio e la morale mondana europea, in: Q. Orazio Fiacco, Tutte le opere, Firenze 1968, p. XII. Il La Penna suggerisce di chiamare “carismatico” questo tipo di autobiografia).

5) Scrive A. La Penna: “...(in Orazio) 1’autobiografia riflette la vita reale e quotidiana, ma spogliata di dettagli gratuiti: il fine non è la ricchezza di particolari e neppure la vivacità: Orazio trasceglie alcuni particolari densi di significato. I particolari si iscrivono in un destino unitario dell’uomo e del poeta, lo preannunziano; direi, se non temessi l’ambiguità del termine, che lo simboleggiano” (o. c., p. XI).

6) In: Orazio, Le opere. Antologia, Firenze 1969, p. 355.

7) Se effettivamente Orazio abbia frequentato il circolo epicureo napoletano, è questione che, come è noto, dipende dall’integrazione del nome proprio, di cui si leggono solo le ultime lettere, nel papiro filodemo di Ercolano 253 fr. 12. Cfr. W. Schmid, Epicuro e l’epicureismo cristiano, tr. it. Brescia 1984, p. 127 (l’opera è la traduzione italiana della voce Epikur, che W. Schmid scrisse per il Reallexikon für Antike und Christentum, Stoccarda 1961, vol. V, 681-819). Qui si possono trovare ulteriori indicazioni bibliografiche sull’argomento.

8) Cfr. E. Mandruzzato: “... proprio Orazio ... è forse il più genuino esempio del sincretismo spirituale del suo tempo” (in: Orazio, Le lettere, Milano 1983, p. 42). Eccessivamente schematica la sintesi proposta da A. Rabe (o. c., p. 87): “1. Horaz war im Grunde seines Herzens ein Anhänger Epikurs. 2. Nachdem er in seiner Jugend und im frühen Mannesalter, in der Zeit seiner Satiren und Epoden, als Epikureer aufgetreten war, zeigte er sich im reiferen Mannesalter, in der Zeit seiner Oden und Episteln, als Eklektiker. 3. Hierbei bekannte er sich in den zunächst für seine Freunde bestimmten Oden und Briefen zu einem fast reinen und unverfalschten Epikureismus, aber in den von vornherein für das römische Volkund den kaiserlichen Hof verfärbten Oden und Briefen zu einem ebenso fast reinen und unverfalschten Stoizismus”.

9) E’ sicuramente da rivalutare 1’importanza che ebbe Aristippo nella formazione di Orazio. Si leggano, al proposito, le osservazioni dì E. Mandruzzato (o.c., pp. 42 ss.) e le sue considerazioni conclusive: “Probabilmente, se potessimo dire a Orazio che del suo Aristippo non abbiamo letto neppure una riga, dubiterebbe molto della nostra possibilità di capirlo” (p. 44).
Oltre che in questa epistola, Aristippo è ricordato anche in ep. 17,13 ss., dove ne viene lodata la condotta di vita.

10) E’ la risposta di Aristippo a chi gli rimproverava la sua relazione con l’etera Laide: ἔχω, ἀλλ᾿ οὐκ ἔχομαι. ἐπεὶ τὸ κρατεῖν καὶ μὴ ἡττᾶσθαι ἡδονῶν ἄριστον, οὐ τὸ μὴ χρῆσθαι (Diog. Laert, II 75).

11) Il didici sembrerebbe essere un accenno più esplicito a un regolare insegna­mento epicureo; ma probabilmente vuole soltanto esprimere una divertita e bonaria ironia, rivolta più a se stesso che all’epicureismo e ai suoi seguaci. Le osservazioni di A. Ronconi, che parla di “sorridente scetticismo verso tutte le filosofie” (in Orazio satiro, Bari 1946, p. 23 = Introduzione a Orazio satiro in Da Lucrezio a Tacito. Letture critiche, Firenze 1968, p. 161) vanno forse oltre il segno, nel negare a Orazio un seppure minimo interesse alla filosofia, ma sono in linea con l’interpretazione complessiva che questo studioso dà dell’opera oraziana.

12) Secondo R. Heinze, per esempio (in Vom Geist des Romertums, 1938, pp. 240 s.), il primo libro delle epistole oraziane sarebbe stato stimolato dalle lettere di Epicuro. Cfr. W. Schmid, o.c. , p.128.

13) Q. Cataudella, Filodemo nella satira I, 2 di Orazio, in Utriusque linguae. Studi e ricerche di letteratura greca e latina, tomo II, Messina-Firenze 1974, pp. 79 ss. (già pubblicato nella “Parola del Passato” 1950). Il passo di Origene è Contra Celsum VII 63 (riportato, come fr. 53, negli Epicurea di H. Usener). Un confronto puntuale tra lo svolgimento della satira oraziana e il passo origeniano è anche in G. Pasquali (nell’appendice Cercida e Orazio del suo Orazio lirico, Firenze 1920, pp. 226 ss., soprattutto 234 ss.), che però non giunge a riconoscere la fonte comune in Filodemo.

14) Cfr. A. Rabe, o.c., p. 88. Fondamentale, sull’argomento, R. Heinze, De Horatio Bionis imitatore, diss. Bonn 1889.

15) o.c., p. XLV.

16) “Questo Ofello è un uomo alla buona, simbolo di quella morale spicciola del buon senso e dell’equilibrio che Orazio mette al di sopra di tutte le dottrine e dei loro, spesso derisi, paradossi” (A. Ronconi, o. c., p. 112)

17) A. La Penna, in: Orazio, Le opere. Antologia, cit., p.19.

18) D. Pesce, Saggio su Epicuro, Brescia 1988, pp. 163 s.

19) D. Pesce, o.c., p. 167

20) o.c., p.l67.

21) W. Schmid, o.c., p.69.

22) D. Pesce, o.c., p.119.

23) W. Schmid, o.c.,p. 69.

24) Per gli “esercizi spirituali” nel mondo antico, fondamentale è l’opera di P. Rabbow, Seelenfuhrung. Methodik der Exerzitien in der Antike, Monaco 1954 (l’autore, tra l’altro, inserisce gli stessi Exercitia spiritualia di S. Ignazio da Loyola nel solco tracciato dalla tradizione antica). Più recente, e altrettanto prezioso, P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofìa antica, tr. it. Torino 1988 (qui a p. 31 n. 6 si può trovare ulteriore bibliografia sull’argomento). Per gli esercizi spirituali epicurei, in. particolare, si veda P.-H. Schrijvers, Horror ac divina Voluptas. Etudes sur la poétique et la poesie de Lucrèce, Amsterdam 1970.

25) o.c., pp. 41 s.

26) A. J. Festugìère, Epicuro e gli dèi, tr. it. Milano 1987, p. 55. L’opera del Festugière è una delle sintesi più preziose e più profonde sull’epicureismo; essa “non si limita alla sola presentazione della teologia e della religiosità del Giardino” e “risulta particolarmente indicata per un primo accesso allo spirito della filosofia epicurea in generale: al di là della semplice esposizione dei ‘dogmi’ filosofici, Festugière cerca di dare una risposta alla domanda più importante, cioè: come ha potuto una dottrina, al cui centro si trova un calcolo razionalmente misurato di ‘quanti’ di piacere e di dolore, acquistare quella forza di attrazione che poi esercitò, come è pur documentabile, ben oltre il periodo ellenistico?” (W. Schmid, o.c., p. 64). Notevoli, in particolar modo, le pagine dedicate all’amicizia epicurea (pp. 42 ss.).

27) Precisamente ai versi: 1, 5, 26, 33, 38, 41, 43, 50, 54, 69, 73, 84, 93, 140; per due volte, poi, amicus è congiunto con l’aggettivo dulcis (v. 69 e vv. 139-140, una volta con iucundus (v. 93).

28) Per l’esame di coscienza cfr. P. Rabbow, o.c., pp. 180 ss. e 344 ss.; e P. Hadot, o.c., p. 37.

29) Per questo particolare cfr. P. Rabbow, o.c., p, 311 n. 64 e P. Hadot, o.c., p.37 n. 41.



Per tornare alla home
Per contattare la Redazione


 

 

 

(torna all'indice della sezione Testi)

Print Friendly and PDFCliccando sul bottone hai questa pagina in formato stampabile o in pdf



Per tornare alla home
Per contattare la Redazione


Questo sito fa uso di cookies. Privacy policy del sito e autorizzazione all'uso dei cookie: clicca qui