"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Orazio e l’epicureismo.
Alcune osservazioni in margine al problema.
di Sergio Monaco
(da Zetesis 1992/1: fa parte di un numero dedicato al bimillenario della morte di Orazio)
Scrivendo in occasione del bimillenario della nascita di Orazio, Friedrich Klingner osservava che l’opera del poeta venosino appartiene al presente, dilatato e meditato, della nostra memoria, e costituisce, nonostante i duemila anni che la separano da noi, un pezzo del nostro essere. Tuttavia, continuava, può avvenire che Orazio ci appaia come un poeta ancora da scoprire; e a nessuno vengono risparmiate la fatica e la gioia di una conquista, sempre più autentica e sempre rinnovata, della sua poesia (1). Questa riflessione del grande studioso tedesco appare ancor oggi viva e attuale: in effetti la poesia di Orazio, pur essendo una presenza tra le più feconde e costanti all’interno della nostra cultura, e non solo di quella letteraria (2), mantiene un certo carattere sfuggente, che rende difficile una sua definizione netta e definitiva, non fosse altro che per la varietà di atteggiamenti, di stili, di forme che in essa si riscontra. Questa consapevolezza è forse l’atteggiamento migliore per affrontare un problema così complesso e irto di difficoltà come il rapporto di Orazio con la filosofia, e la filosofia epicurea in particolare (3): le varie osservazioni e considerazioni che via via si esporranno si configurano, in questo modo, come semplici tentativi di illuminare, parzialmente, alcuni aspetti della questione. L’ode quarta del terzo libro (Descende caelo et dic age tibia / regina longum Calliope melos) contiene l’episodio più remoto che della sua vita ci racconta Orazio; è configurato come una sorta di mito, di mito simbolico: il poeta si rivede fanciullo; elusa la vigilanza della nutrice, vaga tra le selve del Vulture, dove poi, sfinito dalla fatica del gioco, si addormenta; miracolosamente viene ricoperto, dalle colombe, fronde nova, di fronde novelle. Tutti stupiscono dell’inspiegabile prodigio: il fanciullo viene ritrovato serenamente addormentato tuto ab atris corpore viperis ... et ursis, protetto dal sacro alloro e dal mirto, non sine dis animosus infans. Il racconto ci richiama a episodi consimili che era tradizione fossero occorsi a grandi poeti greci: Pindaro, Stesicoro, Platone, ai quali, fanciulli, un avvenimento prodigioso era stato presagio di futura grandezza; e riprende un diffuso τόπος letterario, quello della consacrazione a poeta, che risale sino ad Esiodo (4). In questo episodio della sua lontana fanciullezza, così orazianamente compenetrato dì elementi fantastici e reali, di suggestioni mitiche e di particolari dimessi e quotidiani, si rivela la sua natura di poeta (5). E il fatto, sia pur abbellito e poeticamente trasfigurato, è da considerarsi reale e, oltre a significare la vocazione alla poesia, può essere assunto a paradigma e vagheggiamento di una vita lontana da pericoli e affanni, da inquietudini e molestie, di quella sicurezza, insomma, che è ideale umano e filosofico insieme. E’ significativo che proprio in quest’ode alla Musa appaiono echi di concezioni filosofiche riconducibili al pitagorismo, che, soprattutto a partire dal sec. I a.C., a Roma, confluivano nel platonismo e vi si confondevano: la divina melodia modulata dalle Muse è movimento iniziale che rimane poi presente per tutto lo svolgimento successivo e agisce da elemento di coesione, espandendosi e identificandosi prima nell’armonia politica (il lene consilium di v. 41), poi in quella cosmica e universale (la sconfitta dell’empia tracotanza dei Titani). Ricordo, forse, di quel quaerere verum giovanile tra le selve di Academo, di cui il poeta racconta nell’epistola a Floro (ep. II 2,45)? In ogni modo è innegabile qui la presenza dì elementi o suggestioni filosofiche (anche se, come opportunamente avverte A. La Penna, non è certo il caso, in quest’ode, di “calcare troppo la mano” (6)) di origine e orientamento diversi, ma tra loro armonicamente intrecciati (epicureo, naturalmente, è il motivo iniziale della sicurezza), introdotti senza pesantezza e invadenza alcuna, del tutto assorbiti nella poesia e fatti poesia essi stessi. Alla luce dì tali considerazioni, quest’ode può essere presa come una sorta di riferimento ideale per un’indagine intorno alla questione del rapporto di Orazio (e si intende qui soprattutto l’Orazìo dei sermones) con la filosofia. Ché Orazio filosofo non fu, e nemmeno mai fu inclinato alla speculazione filosofica; e sempre motivi e suggestioni filosofiche si trovano fusi e integrati nella poesia, anche se certo non sempre con quella incantevole levità dell’ode sopra ricordata. Occorre tener conto, innanzitutto, di quanto fosse importante a Roma la preparazione filosofica per l’uomo colto, lo scrittore, a partire dalla tarda età repubblicana, e forse ancor prima. Significativi sono, a questo proposito, i versi autobiografici di Orazio nella seconda epistola del secondo libro (vv. 41-45):
Romae nutriri mihi contigit, atque doceri iratus Grais quantum nocuisset Achilles. Adiecere bonae paulo plus artis Athenae, scilicet ut vellem curvo dinoscere rectum, atque inter silvas Academi quaerere verum.
Orazio, dunque, come si ricordava anche poco sopra, impara proprio nel bosco di Academo a quaerere verum, a ricercare la verità. Ma se suggestioni platoniche continueranno a rimanere vive nell’animo di Orazio (e se ne è visto un esempio nell’ode III 4), senza tuttavia mai imporsi con assoluta e incontestabile chiarezza, decisivo fu l’incontro con la filosofia epicurea, forse favorito dalla possibile frequentazione della scuola epicurea di Filodemo di Gadara e di Sirone (7). In ogni caso Orazio non sarà mai un seguace in senso stretto della filosofia epicurea, rimanendo sempre fondamentalmente estraneo alle sottili discussioni dottrinali: il suo nullius ... iurare in verba magistri (ep. I 1, 14) è rivelatore di un atteggiamento antisettario, che sarà una costante nella vita di Orazio. Non a torto, infatti, si è anche parlato di un suo “pratico sincretismo” (8), per cui vengono accolti dalle varie scuole filosofiche dell’epoca motivi potenzialmente poetici e meditativi, o tali da trovare un diretto riscontro nella vita di tutti i giorni; nell’epistola sopra ricordata Orazio si dichiara pronto a passare dallo stoicismo più rigido all’edonismo di Aristippo (9) (vv. 10-19):
Nunc itaque et versus et celera ludicra pono; quid verum atque decens, curo et rogo et omnis in hoc sum; condo et compano quae mox depromere possim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare tuter, nullius addictus iurare in verba magistri, quo me cumque rapiit tempestas, deferor hospes. Nunc agilis fio et mersor civitibus undis, virtutis verae custos rigidusque satelles; nunc in Aristippi furtim praecepta relabor, et mihi res, non me rebus subiungere conor.
riecheggiando, con elegante tecnica allusiva, proprio una frase attribuita allo stesso Aristippo (10). Non è possibile precisare e determinare quali furono le effettive letture epicuree di Orazio, considerando anche che certe idee e certi spunti potevano circolare a Roma tra gli ambienti colti del tempo ed essere così assimilati anche senza espliciti riferimenti a un’opera definita. Fuori discussione è, naturalmente, la conoscenza di Lucrezio (la cui presenza in Orazio è importante non certo solo dal punto di vista filosofico, e si può riscontrare in tutto il percorso della sua opera). Ricca di spunti lucreziani, in particolare, è la terza satira del primo libro, soprattutto ai versi 99 ss., con la descrizione dell’umanità ferina dei primordi e il rapido schizzo di storia dell’ incivilimento umano, dove è evidente il modello del quinto libro del De rerum natura. Eco lucreziana anche in sat. I 5,101-103:
... namque deos didici securum agere aevum nec si quid miri faciat natura, deos id tristis ex alto caeli demittere tecto.
che riprende, con efficace sintesi, De rerum natura V, 82-90 = VI, 58-66 (11). Una conoscenza diretta di testi dello stesso Epicuro non è con certezza dimostrabile, ma neppure può essere esclusa (12). Più sicura è, invece, la conoscenza degli epicurei contemporanei, come Filodemo; e di più che probabile ascendenza filodemea è la satira seconda del primo libro (contro gli adulteri e in difesa della Venus vulgivaga), come si evince dal confronto con alcuni passi di Origene, che rimandano, come ha dirnostrato Q.Cataudella, a una fonte comune, da riconoscere, molto verosimilmente, appunto in Filodemo, forse il Filodemo del περὶ κακιῶν e del περὶ ἔρωτος (13). Così come accertata è la frequentazione delle opere di Bione, in cui Orazio ritrovò, espressa in forma di diatriba, una concezione della vita per molti aspetti analoga a quella epicurea (14). Certo, l’epicureismo di Orazio (anche quello, più scoperto, delle satire) non è mai adesione dottrinaria a una scuola: l’interesse è circoscritto agli aspetti morali (pressoché ignorate la fisica e la cosmologia, che così appassionatamente interessarono Lucrezio), e anche questi sono trattati senza pretesa alcuna di sistematicità e coerenza. “I suoi (di Orazio) atteggiamenti morali e polemici − osserva A. La Penna (15) − vanno saggiati e definiti tenendo presenti innanzi tutto i problemi che di volta in volta affronta, i suoi stati d’animo e, per una visione più ampia, il suo gusto personale, l’umore e il colore dell’uomo Orazio”. L’atteggiamento fondamentale e più caratteristico, se vogliamo, è quello espressamente dichiarato in sat. I 4,115-120:
aiebat (sc. pater): “sapiens, vitatu qidque petitu sit melius, causas reddet libi: mi satis est si traditum ab antiquis morem servare tuamque, dum custodis eges, vitam famamque tueri incolumem possum; simul ac duraverit aetas membra animumque tuum nabis sine cortice”… . Il filosofo potrà solo dare un fondamento razionale e dottrinario a una verità intuita attraverso l’esperienza e saldamente radicata nel mos maiorum. Non a caso, nelle satire, i veri “maestri” di Orazio sono persone semplici, che incarnano, però, nella loro apparente rozzezza, il buon senso naturale, istintivo, ma capace di cogliere i valori essenziali della vita. Oltre ai padre, abbiamo il praeceptor Ofello, della seconda satira del secondo libro (rusticus, abnormis sapiens crassaque Minerva, v. 3) (16); o il Cervio della sesta satira del secondo libro, la cui saggezza si esprime nella gustosa favola del topo di campagna e del topo di città (vv. 77 ss.). Vorrei ora richiamare l’attenzione su alcuni aspetti caratteristici dell’opera di Orazio, che sembrano riflettere, in modo discreto ma non meno limpido, un’adesione spirituale, di tipo certo “più sentimentale che dottrinario” (17) all’epicureismo, o meglio, forse, una sorta di consonanza interiore con questa filosofia. Il primo è quello che si potrebbe chiamare il “sentimento della festa”. In Epicuro l’edonismo si converte nell’ascetismo. Contro l’opinione comune che identifica l’edonista con il gaudente dissoluto, Epicuro ammonisce (ep. ad Men. 131-132):
Ὅταν οὖν λέγωμεν ἡδονὴν τέλος ὑπάρχειν, οὐ τὰς τῶν ἀσώτων ἡδονὰς καὶ τὰς ἐν ἀπολαύσει κειμένας λέγομεν, ὥς τινες ἀγνοοῦντες καὶ οὐχ ὁμολογοῦντες ἢ κακῶς ἐκδεχόμενοι νομίζουσιν, ἀλλὰ τὸ μήτε ἀλγεῖν κατὰ σῶμα μήτε ταράττεσθαι κατὰ ψυχήν. οὐ γὰρ πότοι καὶ κῶμοι συνείροντες οὐδ' ἀπολαύσεις παίδων καὶ γυναικῶν οὐδ' ἰχθύων καὶ τῶν ἄλλων ὅσα φέρει πολυτελὴς τράπεζα, τὸν ἡδὺν γεννᾷ βίον, ἀλλὰ νήφων λογισμὸς καὶ τὰς αἰτίας ἐξερευνῶν πάσης αἱρέσεως καὶ φυγῆς καὶ τὰς δόξας ἐξελαύνων, ἐξ ὧν πλεῖστος τὰς ψυχὰς καταλαμβάνει θόρυβος.
Si tratta del piacere catastematico, che consiste e coincide con la completa eliminazione del dolore, con lo stato permanente di un senso di serenità. Il piacere autentico non è, pertanto, il processo di soddisfacimento del bisogno, ma lo stato di soddisfazione già conseguito; e la felicità richiede soltanto ciò che basta a eliminare, nel modo più semplice e diretto, il dolore del bisogno. Da qui l’ αὐτάρκεια, la capacità, propria del saggio,di restringere al massimo l’ambito della propria vita e di divenire così padroni del proprio destino. Se quindi il piacere consiste nella completa eliminazione del dolore, il bisogno deve essere eliminato, e il desiderio contenuto ed eliminato anch’esso. “La via che conduce alla beatitudine è... quella negativa dell’eliminare alcunché, non quella positiva dell’acquistare; quella della rinuncia e non quella del possesso” (18). Tuttavia l’ascetismo epicureo presenta un aspetto singolarmente mite e moderato. Infatti, mentre esige la soppressione totale dei desideri non naturali, Epicuro, per quanto riguarda i desideri non necessari ma naturali, pretende soltanto che se ne riconosca la natura e che non siano falsamente ritenuti necessari: per questi desideri, per il superfluo, infatti, “si richiede non che si debba, ma che si possa fare a meno” (19):
Καὶ τὴν αὐτάρκειαν δὲ ἀγαθὸν μέγα νομίζομεν, οὐχ ἵνα πάντως τοῖς ὀλίγοις χρώμεθα, ἀλλ' ὅπως, ἐὰν μὴ ἔχωμεν τὰ πολλά, τοῖς ὀλίγοις ἀρκώμεθα, πεπεισμένοι γνησίως ὅτι ἥδιστα πολυτελείας ἀπολαύουσιν οἱ ἥκιστα ταύτης δεόμενοι, καὶ ὅτι τὸ μὲν φυσικὸν πᾶν εὐπόριστόν ἐστι, τὸ δὲ κενὸν δυσπόριστον, οἵ τε λιτοὶ χυλοὶ ἴσην πολυτελεῖ διαίτῃ τὴν ἡδονὴν ἐπιφέρουσιν, ὅταν ἅπαν τὸ ἀλγοῦν κατ' ἔνδειαν ἐξαιρεθῇ, καὶ μᾶζα καὶ ὕδωρ τὴν ἀκροτάτην ἀποδίδωσιν ἡδονήν, ἐπειδὰν ἐνδέων τις αὐτὰ προσενέγκηται. τὸ συνεθίζειν οὖν ἐν ταῖς ἁπλαῖς καὶ οὐ πολυτελέσι διαίταις καὶ ὑγιείας ἐστὶ συμπληρωτικὸν καὶ πρὸς τὰς ἀναγκαίας τοῦ βίου χρήσεις ἄοκνον ποιεῖ τὸν ἄνθρωπον καὶ τοῖς πολυτελέσιν ἐκ διαλειμμάτων προσερχομένοις κρεῖττον ἡμᾶς διατίθησι καὶ πρὸς τὴν τύχην ἀφόβους παρασκευάζει. (ep. ad Men. 130-131).
Così commenta il passo Domenico Pesce: “Si direbbe quasi che la distinzione tra il necessario e il non necessario sia riportata all’altra tra il quotidiano e il festivo e che la filosofia di Epicuro si preoccupi tra l’altro di recuperare appunto il sentimento della festa” (20). Un tale “sentimento della festa” troviamo pure in Orazio: esso caratterizza l’atmosfera di molte odi, e trova espressione esplicita in sat. II 2,82-86:
hic (colui che segue un victus tenuis) tamen ad melius poterit transcurrere quondam, sive diem festum rediens advexerit annus, seu recreare volet tenuatum corpus, ubique accedent anni et tractari mollius aetas imbecilla volet...
Lo stesso motivo del carpe diem acquista tutta la sua pregnanza e profondità quando lo si rapporti alla più autentica spiritualità epicurea, a quella “disposizione elementare ed esistenziale di gratitudine per la vita” (21), al valore assoluto che acquista, in questa prospettiva, il semplice fatto di esistere, la gioia di vivere. “Il saggio è ... l’uorno che vive nell’essere, che accetta la realtà effettiva delle cose e ad esse si adegua, di che la conferma si ha nel fatto che, invertendo la tendenza dell’uomo comune che ha sempre lo sguardo rivolto al futuro, da esso attendendosi quella felicità che invano ha fino ad ora ricercato, esso vive e gode nel presente e, se occorre, si rifugia nel passato. Sull’insoddisfazione ricorrente, sull’aspirazione continua ad una vita che non è dato quaggiù sperimentare, si era fondato Platone per costruire la sua filosofia della speranza; ammonendo che è nella dimensione del presente che si può toccare l’assoluto, Epicuro fonda la sua dottrina della certezza” (22). In Orazio l’ode IV 7 (Diffugere nives, redeunt iam gramina campis / arboribusque comae) illustra con particolare chiarezza “contrapponendola alla reparatio cosmica, l’unicità della fugace esistenza individuale, per derivare proprio da questa opposizione il diritto, anzi la necessità, di prender coscienza della gioia di vivere contenuta nell’oggi” (23). Così anche in carm. I l1 (Tu ne quaesieris...) e soprattutto in carm. III 29, 32-43:
... . quod adest memento componere aequus; cetera fluminis
ritu feruntur, nunc medio alveo stirpesque
raptas e tpecus et domos
clamore vicinaeque silvae,
Con tutti questi passi si può confrontare un testo di Epicuro:
Γεγόναμεν ἅπαξ, δὶς δὲ οὐκ ἔστι γενέσθαι· δεῖ δὲ τὸν αἰῶνα μηκέτι εἶναι· σὺ δὲ οὐκ ὢν τῆς αὔριον κύριος ἀναβάλλῃ τὸ χαῖρον· ὁ δὲ βίος μελλησμῷ παραπόλλυται καὶ εἷς ἕκαστος ἡμῶν ἀσχολούμενος ἀποθνῄσκει. (Gnomol. Vat. 14)
Si tratta, in definitiva, di una sorta di “esercizio spirituale” (24) Ἀκολουθεῖν δεῖ τὸν παρὰ τῶν ἄλλων ἔπαινον αὐτόματον, ἡμᾶς δὲ γενέσθαι περὶ τὴν ἡμῶν ἰατρείαν.
e ep. ad Men. 122:
οὔτε γὰρ ἄωρος οὐδείς ἐστιν οὔτε πάρωρος πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον.
E la salvezza, rigorosamente racchiusa entro un orizzonte terreno, altro non è che la definitiva liberazione da ogni affanno, da ogni turbamento, da ogni ansietà, il raggiungimento e la conquista di una autentica gioia di esistere, a cui si è condotti, appunto, attraverso una ascesi fatta di meditazione assidua e ininterrotta. Cfr. ep. ad Men. 135:
Ταῦτα οὖν καὶ τὰ τούτοις συγγενῆ μελέτα πρὸς σεαυτὸν ἡμέρας καὶ νυκτὸς <καὶ> πρὸς τὸν ὅμοιον σεαυτῷ, καὶ οὐδέποτε οὔθ' ὕπαρ οὔτ' ὄναρ διαταραχθήσῃ, ζήσῃ δὲ ὡς θεὸς ἐν ἀνθρώποις. οὐθὲν γὰρ ἔοικε θνητῷ ζῴῳ ζῶν ἄνθρωπος ἐν ἀθανάτοις ἀγαθοῖς.
Seguiamo, a questo punto, la densa e illuminante esposizione di P. Hadot: “Ma la meditazione, semplice o dotta, non è l’unico esercizio spirituale epicureo. Diversamente dalla tesi degli stoici, per guarire l’anima non bisogna esercitarla a tendersi, ma, al crla a distendersi. Anziché rappresentarci i mali in anticipo, per prepararci a subirli, dobbiamo, al contrario, staccare la nostra mente dalla visione delle cose dolorose, e fissare lo sguardo sui piaceri. Occorre fare rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri del presente, riconoscendo quanto siano grandi e gradevoli tali piaceri del presente. Si tratta di un esercizio spirituale ben determinato: non più la vigilanza continua dello stoico, che si sforza di essere sempre pronto a salvaguardare, ogni istante, la sua libertà morale, ma la scelta deliberata, sempre rinnovata, della distensione e della serenità, e una gratitudine profonda verso la natura e la vita che, se sappiamo trovarli, ci offrono incessantemente il piacere e la gioia. Analogamente, l’esercizio spirituale che consiste nello sforzo di vivere nel momento presente è molto diverso negli stoici e negli epicurei. Per i primi è tensione dello spirito, veglia costante della coscienza morale; per i secondi è, ancora una volta, invito alla distensione e alla serenità: la cura, la preoccupazione volta al futuro, che ci lacera, ci nasconde il valore incomparabile del semplice fatto di esistere: ‘Si nasce una volta, due volte non è concesso, ed è necessario non essere più in eterno; tu, pur non essendo padrone del tuo domani, procrastini la gioia, ma la vita trascorre nell’ indugiare e ciascuno di noi muore senza aver mai goduto della pace’. E’ il famoso verso di Orazio: carpe diem: ‘Mentre noi parliamo, è fuggito il tempo invidioso: cogli l’oggi, senza alcuna fiducia nel futuro!’. Infine per gli epicurei proprio il piacere è esercizio spirituale: piacere intellettuale della contemplazione della natura, pensiero del piacere passato e presente, infine piacere dell’amicizia” (25). E’ facile riconoscere, in questa ricostruzione, molti aspetti, forse i più intimi, di Orazio. La stessa amicizia, uno dei temi centrali della poesia oraziana, acquista, in questa luce, profondità e intensità nuove, diventa parte integrante della saggezza. “Lo scambi o intellettuale, il sostegno reciproco degli affetti, infatti, non portano soltanto a rafforzarsi reciprocamente nella ricerca di scienza astratta, ma sono essi stessi il fine: nella comunione dei cuori risiede la pace dell’anima, cioè la perfetta εὐδαιμονία” (26). Tutta l’opera di Orazio è attraversata da questo motivo, uno dei più sentiti del mondo e della spiritualità oraziani, ma si può ricordare, in particolare, quella che potrebbe essere definita la “satira sull’amicizia”, la terza del primo libro: il vero amico è come l’innamorato, che non vede i difetti dell’amata, o li considera come pregi; o come il padre, che non prova fastidio per le manchevolezze del figlio:
E saranno proprio i dulces amici, con la loro indulgenza benevola e affettuosa, a rendere la vita più beata di quella di un re (vv. 139-142)
... et mihi dulces ignoscent, si quid peccaro stultus, amici, inque vicem illorum patiar delicta libenter, privatusque magis vivam te rege beatus.
E non è un semplice dato statistico osservare che nei centoquarantadue versi della satira le parole amicus o amicitia ricorrono ben quattordici volte (27), a confermare la centralità del motivo e l’amorevole insistenza con cui Orazio vi ritorna. Non manca neppure, in Orazio, la pratica dell’esame di coscienza (28): essa è ben riconoscibile negli ultimi versi della quarta satira del primo libro: i propri mediocria vitia potranno essere eliminati, in parte, dall’età, dalla franchezza degli amici e dal
consilium proprium: neque enim, cum lectulus aut me porticus excepit, desum mihi: “rectius hoc est: hoc faciens vivam melius: sic dulcis amicis occurram: hoc quidam non belle; numquid ego illi imprudens olim faciam simile?” haec ego mecum compressis agito labris; ubi quid datur oti illudo chartis... (vv. 133-139)
Compressis labris, ubi quid datur oti / illudo chartis rimandano a ben precisi momenti dell’esame di coscienza: ripercorrere mentalmente, a labbra chiuse, le azioni della giornata, in dialogo con se stessi, e, eventualmente, annotare per iscritto (29). Il rapporto di Orazio con l’epicureismo appare quindi fondato non tanto su una stretta adesione dottrinaria ai principi filosofici della scuola, quanto su una profonda, intima consonanza con un ideale di saggezza, sulla condivisione di uno stile di vita, di una visione complessiva della vita e del mondo, su un’interiorità che sa cogliere l’essenziale in ogni situazione e in ogni accadimento umano. Al di là di eventuali incoerenze e contraddizioni, questo ci appare il volto più autentico di Orazio, e in questo senso è legittimo parlare di un epicureismo di Orazio.
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