"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Finzione e realismo
Intervento tenuto alla sessione di Accademia dell’1/4/2012
di Giulia Regoliosi
I due termini che costituiscono il titolo sono in sé ambigui. Che sia ambiguo finzione è evidente, meno evidente, più facilmente equivocabile, è l’ambiguità di realismo. Preciso pertanto che intendo i due termini nella loro accezione letteraria e artistica, che ne fa due modalità di approccio di quello che è l’essenziale, cioè la realtà o la verità. Per comprendere meglio la questione partirò da due passi di poeti greci vissuti a distanza di circa quattro secoli fra loro, il secondo dei quali esplicitamente cita il primo (e i suoi lettori, il pubblico colto di Alessandria, lo capiscono). Il testo più antico fa parte del proemio della Teogonia di Esiodo, un poema in cui l’autore sistematizza la tradizione religiosa greca, la storia primordiale degli dèi e del loro rapporto coi primi uomini. Nel proemio il poeta racconta che quand’era un pastorello gli erano apparse le Muse in una teofania straordinaria, che si traduce in una specifica investitura poetica: “Noi sappiamo dire molte menzogne simili a cose vere; ma, quando vogliamo, sappiamo cantare il vero”. Dissero così le figlie del grande Zeus dal franco parlare, e mi diedero come bastone un ramo di florido alloro che avevano colto, mirabile. E mi ispirarono il canto profetico, perché cantassi il futuro e il passato, e mi comandarono di celebrare la stirpe dei beati eterni, e di cantare loro stesse all’inizio e alla fine sempre. (vv.27 segg.). Nell’età ellenistica Teocrito racconta di un incontro fra un giovane pastore agli inizi della sua attività poetica (lui stesso con un nome fittizio, secondo un uso che resterà nella poesia bucolica fino all’Arcadia) e un capraio poeta già affermato che riconosce in lui uno che ne condivide la concezione poetica: Il mio bastone-disse-voglio donarti, perché sei un virgulto di Zeus tutto forgiato sulla verità (Teocrito, Le Talisie). E’ evidente la ripresa dell’investitura poetica, rappresentata dal passaggio del bastone: ma, tralasciando qui la complessa questione dell’interpretazione del personaggio del capraio, la verità di Teocrito risulta chiaramente qualcosa d’altro rispetto alla verità di Esiodo. Per questo è la verità ultima sugli dèi e sugli uomini narrata in forma mitica; per Teocrito, nel quadro generale della poetica ellenistica di cui dovremo riparlare, è l’imitazione convenzionale della vita quotidiana dei ceti più poveri, i pastori o la piccola borghesia urbana: poesia realistica o, con termine più appropriato, poesia mimetica (Mimesis è appunto il titolo dell’opera di Auerbach sul realismo nella letteratura occidentale). Vediamo alcuni momenti cronologicamente
intermedi fra questi due testi. Anzitutto la nascita del teatro, sia
tragico sia comico: per eccellenza il genere della finzione in ogni
epoca, ma ancor più il teatro ateniese del sec. V a.C., che è
programmaticamente irrealistico (maschere, uso di dialetti diversi, di
recitazione e canto, di attori che fanno più parti, di miti): ma al
poeta è chiesto di essere maestro della città, e al pubblico di cogliere
nella finzione (direi anzi proprio attraverso la finzione) la verità
sottesa. In modo un po’ paradossale così spiegava il sofista Gorgia,
secondo la citazione di Plutarco: Ebbe
grande fama anche la tragedia, meraviglioso spettacolo da udirsi e
vedersi per gli uomini di allora, che attraverso miti ed eventi forniva
un inganno, come dice Gorgia, in cui “chi riusciva ad ingannare era più
giusto di chi non ingannava e chi si faceva ingannare più saggio di chi
non si faceva ingannare” (Plutarco,
La gloria degli Ateniesi 5 p.48 C, che cita Gorgia, fr. 23 K).
Inganno, cioè appunto finzione: il poeta migliore è quello che coinvolge
maggiormente il pubblico, lo porta ad immedesimarsi, e lo spettatore più
saggio è chi accetta questo coinvolgimento, invece che assistere con
distacco o scetticismo a ciò che vede, e si lascia educare. Non c’è
nella tragedia la rottura della finzione scenica, momenti in cui i
personaggi prendono atto di parlare ad un pubblico; mentre nella
commedia di quest’epoca la rottura della finzione è demandata ad un
momento specifico, un’esplicita interruzione (che prende il nome di
parabasi), dopo di che si riprende la finzione come se non fosse
accaduto nulla.
Un
secondo passaggio (sec.V/IV). Nel dialogo Fedro Platone introduce
l’uso del mito come comunicazione della verità. Sia a proposito del mito
di Borea e Orizia, sia per quello di Theuth Socrate polemizza con i
razionalisti, fra cui il suo giovane interlocutore, che criticano la
modalità del discorso invece di coglierne l’essenza:
Quelli che stavano nel tempio
di Zeus a Dodona dicevano che i primi discorsi profetici ebbero origine
da una quercia. A quelli di allora, che non erano sapienti come voi
giovani, bastava ascoltare una quercia e una pietra, per ingenuità,
purché dicessero il vero: invece a te forse fa differenza chi parla e
che origine ha. Non è forse soltanto a questo che guardi, se è in un
modo o nell’altro? Il giovane riconosce il rimprovero, e si rimangia
l’accusa un po’ spiritosa di avere inventato delle storie: e il dialogo
riprende da qui, cioè dal significato del mito narrato. Terzo passaggio.
Aristotele nella Poetica (e siamo nel secolo IV, alla vigilia
dell’ellenismo) contrappone poesia e storiografia. Per lui la poesia è
più affine alla filosofia perché crea dei tipi con carattere definito
cui adegua parole e azioni (secondo la concezione del rapporto fra
carattere e azioni esposta nell’Etica Nicomachea); la
storiografia invece si occupa di singoli individui: Storico e poeta
differiscono perché l’uno racconta ciò che è accaduto e l’altro ciò che
potrebbe accadere. Di conseguenza, la poesia è più filosofica e più
nobile della storia, in quanto narra l’universale, mentre la storia il
particolare. Ora, rientra nell’universale che un individuo di un certo
carattere (hethos) faccia e
dica cose determinate secondo i principi della verosimiglianza e della
inevitabilità: e a questo appunto mira la poesia, aggiungendo ai
personaggi dei nomi. Invece il particolare si occupa di ciò che fatto o
ha subìto qualcuno, per esempio Alcibiade
(1451b).
Da questa concezione
aristotelica deriva tutta
la tipizzazione della letteratura ellenistica, la modificazione della
commedia, l’epigramma con le brevissime presentazioni di personaggi che
tanto piacquero a Edgar Lee Masters che li imitò nell’Antologia di
Spoon River, e la stessa produzione mimetica di Teocrito che
citavamo all’inizio: il realismo ellenistico
è dunque - completiamo la precedente definizione - la creazione
di caratteri coerenti in un contesto credibile. Vale forse la pena di
soffermarsi in particolare sulla modificazione della commedia
ellenistica, poiché da
questa dipende la commedia latina e attraverso di essa molta parte del
teatro europeo e perfino il teatro indiano. Prendiamo in esame
il prologo di una delle commedie di Menandro, l’autore di cui i
papiri ci hanno restituito, a partire dalla fine dell’800, un numero
discreto di testi (il titolo è Dyskolos, traducibile più o meno
L’intrattabile): Pensate che questo
sia il luogo dell’Attica chiamato File, e che
il posto da cui esco sia la grotta sacra alle ninfe degli
abitanti di File e di chi è capace di coltivare
le pietre da queste parti, un santuario molto famoso. Il campo
qui a destra lo abita Cnemone, un uomo senza umanità, intrattabile verso
tutti, ostile alla folla… E alla
fine : Questa è in breve la vicenda; i particolari li vedrete se
vorrete, ma vogliatelo! La finzione è svelata
fin dall’inizio: il pubblico è invitato in seconda persona plurale a
pensare che il palcoscenico sia Atene, l’ingresso della scena sia un
santuario, a destra ci sia un campo sassoso: pensare, ritenere,
non credere: il pubblico ormai assiste, non è più parte di una
realtà condivisa. Nel contempo viene presentato il carattere su cui
ruota tutta la commedia, e che si comporterà secondo i dettami
aristotelici, agendo e parlando in corrispondenza alle
caratteristiche assegnate. Il realismo segue, come si diceva, i
principi dell’Etica, tanto che anche la modificazione finale di
Cnemone, dovuta alla scoperta che l’autosufficienza è impossibile e che
esistono persone capaci di gratuità, non può rovesciare un carattere
ormai radicato. Vediamo il prologo di
una commedia di Plauto, l’autore in cui più frequente è la rottura della
finzione scenica anche nel corso della commedia, con battute ad effetto
rivolte al pubblico, della cui presenza “ci si accorge”. E’ il prologo
dei Captivi: Questi due
prigionieri che vedete stare qui in piedi / quelli che sono qui / tutti
e due stanno in piedi, non seduti;/ su questo mi siete testimoni che
dico il vero. Per una sorta di
sberleffo vero è ciò
che materialmente si vede, cioè come sono in scena i
due personaggi. Poi, dopo
il racconto degli antefatti,
una frase variamente interpretata, ma che potrebbe tradursi così:
Da noi questa vicenda sarà compiuta, per voi invece
sarà una commedia. Anche
Plauto, che segue i modelli ellenistici, è attento alla creazione di
caratteri, di tipi coerenti, tanto da far rilevare le discrepanze dovute
a vicende esterne. Così del vecchio protagonista, che compera schiavi di
guerra per poterli scambiare col figlio prigioniero, viene detto: Ora costui ha
cominciato per amore del figlio un commercio disonorevole e del tutto
estraneo al suo carattere. E lo stesso
protagonista si premurerà di spiegare ad uno dei prigionieri che non
intende guadagnare nulla dallo scambio, ma solo riavere il figlio. Ho avuto occasione di citare poco fa
Mimesis di Auerbach.
Quest’opera segue la storia del realismo in letteratura dalle origini
greche fino al ‘900, utilizzando come modalità l’analisi e il confronto
di alcuni passi d’autore delle diverse epoche. Va però specificato che,
benché esista in tedesco la parola Realismus, Auerbach usa nel
sottotitolo l’espressione Dargestellte Wirklichkeit, cioè
Realtà rappresentata, che ci pare abbia un significato più ampio del
termine realismo nel senso specifico che abbiamo indicato.
Tralasciando per ovvi motivi la complessità del lungo periodo, vorrei
però soffermarmi su un punto che mi pare un passaggio fondamentale. Nel
II capitolo il passo d’autore scelto è tratto dal
Satyricon di Petronio: alla
tavola del liberto arricchito Trimalcione un invitato, di bassissima
estrazione sociale, descrive al vicino la moglie del padrone di casa. Il
discorso è un esempio di realismo stilistico e linguistico: un latino
infarcito di volgarismi, di grecismi (siamo in una città del sud
Italia), di espressioni proverbiali, ben adattato alla tipologia del
parlante. Ma l’attenzione di Auerbach è rivolta al confronto di questo
testo, e di quest’opera, con un testo all’incirca contemporaneo, la
pericope 14, 66-72 del Vangelo
di Marco, che narra la triplice negazione di Pietro. L’assunto
di Auerbach è che il Nuovo Testamento ha sconvolto i canoni del
realismo grecoromano, influendo sulle epoche successive e in particolare
sulla letteratura medioevale e su Dante. Dell’ampia trattazione di
Auerbach traggo solo qualche riga: La
scena estremamente realistica per il luogo e per gl’interlocutori
– si osservi specialmente la loro bassa condizione sociale – è della più
profonda problematicità e tragicità. San Pietro …è un ritratto d’uomo
nel senso più sublime, profondo e tragico…Tale mescolanza (scil.dei
campi stilistici) venne messa in luce e in maggior contrasto
dall’incarnazione divina in un uomo di basso rango sociale, dal suo
passaggio sulla terra fra uomini e cose ordinarie, dalla sua passione
ignominiosa secondo concetti terreni. D’altra parte la lezione di Aristotele ha dato
luogo ad un lungo dibattito sul rapporto fra verità poetica e verità
storica, contribuendo quindi ad appannare la questione del rapporto fra
diverse modalità creative. Dall’umanesimo che
con Lorenzo Valla capovolge il giudizio di valore di Aristotele la
questione giunge fino alla riflessione manzoniana sul rapporto
storia/invenzione che mette in crisi l’invenzione stessa. Ma in questo
modo mi sembra che si sia persa una parte della questione, cioè sia la
comunicazione della verità attraverso la finzione, sia il rapporto fra
la finzione e la realtà incontrabile sia, quindi, la genesi della
finzione stessa. Ma qual è tale
rapporto e tale genesi? In un romanzo di Agatha Christie, The seven
dials mistery, la protagonista racconta una sua avventura ad un
amico, che non le crede perché sono cose che succedono solo nei romanzi.
E lei obietta: Dopo tutto la finzione si fonda sulla realtà. Finché
le cose non capitano la gente non riesce ad immaginarle. E in
effetti, a ben vedere, tutte le parole che indicano l’individuazione
dell’argomento, del contenuto, sono parole del “trovare”: così in latino
invenio e reperio, così in greco eyrisko. La scelta
dell’argomento, il primo passo del lavoro dello scrittore, si chiama
inventio in latino, euresis in greco; repperit dice il
favolista Fedro alludendo al suo modello greco: Aesopus auctor quam
materiam repperit / hanc ego polivi versibus senariis
“quella materia
che il mio modello Esopo ha trovato / io l’ho forbita in versi
senarii”(prol. I); eyre
dice il lirico greco Alcmane presentando il suo lavoro poetico: “parole
e musica trovò Alcmane, componendo in forma linguistica la voce delle
pernici” (PMG 39). L’idea si è così
radicata che per un processo inverso le stesse parole di area romanza
trovare, trouver, ecc. sono nate da termini che in lingua d’oc e
d’oil definiscono i poeti, trovatori e trovieri, la cui origine
etimologica è altra, in quanto connessa quasi certamente col termine
retorico e musicale tropo.
Poi la creazione
artistica comporta il poiéo, il fingo (da cui poesia
e fiction), ma all’origine della creazione artistica c’è una
realtà così ampia che in essa si può trovare uno spunto per ogni
immaginazione, sempre che l’autore sappia vedere e trasfigurare.
Così come si può trovare la
spiegazione dei dati, la soluzione dei problemi: la forma più celebre
del verbo eyrisko è l’eyreka di Archimede. Del resto, avendo
citato Manzoni, vorrei ricordare che l’interesse per la realtà è
fondamentale nella poetica romantica, con un’ampiezza che le epoche
successive (il realismo naturalista e verista) finiranno per ridurre,
riportandosi ad una scelta di ambientazione e linguaggio più
convenzionale. Un testo teorico del romanticismo francese, la prefazione
alla tragedia Cromwell di
Victor Hugo, ben sottolinea l’importanza di un’arte che tenga conto
della realtà intera, e non solo di una sua parte: Si domanderà (scil.
lo scrittore) se la ragione stretta e relativa dell’artista
deve avere la meglio sulla ragione infinita, assoluta, del creatore: se
l’uomo deve rettificare Dio; se una natura mutilata sarà più bella; se
l’arte ha diritto di dimezzare, per così dire, l’uomo, la vita, la
creazione… Ma non a caso ho citato la Christie. Appartiene a quello straordinario universo culturale che è la fiction in lingua inglese, vale a dire quella vastissima produzione in prosa che ha avuto in comune per secoli il gusto del raccontare, l’affabulazione, e ha creato generi letterari nuovi come il giallo, la fantascienza, la fantastoria e la fantasy: un universo da cui sono nati anche autori esplicitamente cattolici come Chesterton, Lewis e Tolkien, in grado di operare la realizzazione di un mondo secondario (come dice Lewis di Tolkien), o un’opera di (presunta) immaginazione storica (come dice Lewis del suo romanzo Till we have faces). Ma vorrei concludere con un riferimento ad un altro autore inglese, Dickens di Hard Times. All’inizio del romanzo viene presentato un sistema educativo e didattico fondato sui fatti e sulla ragione, dove per fatti s’intendono solo quelli in qualche modo misurabili, e la ragione viene usata solo per misurare e definire. Alla ragazzina che azzarda un I fancy… viene detto perentoriamente che non deve immaginare, e alla giovane che dice I wonder… viene ordinato di non porsi domande. C’è un modo di parlare di fatti, di realtà, perfino di ragione, che chiude e riduce. Nei personaggi del romanzo citato il metodo elimina non solo immaginazione e domande, ma sentimenti, criteri di scelta, gusto e speranze; chi vi aderisce giunge all’indifferenza, alla noia, al tradimento del proprio cuore, fino alla delazione e alla colpa. Si salva chi è fin dall’inizio estranea al metodo, l’ultima della classe, che non ha mai percepito i fatti solo come tali ma li ha giudicati in tutte le loro implicazioni, in tutta l’ampiezza dell’umano che valorizza anche la minima percentuale delle statistiche contemplando l’intera realtà di affetti e di sofferenza degli uomini.
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