"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Le Storie di Erodoto. A cura di Aristide Colonna e Fiorenza Bevilacqua. UTET, Torino, 1996. 2 voll. di pagg. 828 e 774. Appare nella collana dei Classici Greci della UTET una pregevole edizione delle Storie di Erodoto. Si tratta di un lavoro di grande impegno e di pregevole fattura, coerentemente con lo standard, sempre elevato, della collana diretta da Italo Lana. La cura del volume è dovuta ad Aristide Colonna e a Fiorenza Bevilacqua: del primo sono, secondo quanto si legge nel frontespizio, l’introduzione, le note biografica, bibliografica e critica e la cura del testo greco, della seconda la traduzione italiana e il commento: in realtà questo genere di lavori presume una collaborazione stretta e regolare tra i due curatori, cosicché non stupisce per esempio apprendere, dalla Nota critica premessa al secondo volume, che la Bevilacqua è intervenuta anche nella costituzione del testo greco. L’Introduzione informa in modo succinto, ma puntuale ed equilibrato, delle principali problematiche riguardanti la figura e l’opera di Erodoto. Si afferma che il titolo di ‘padre della storiografia’ che gli viene attribuito in genere non è fuori luogo: Erodoto è il primo a cercare le fonti, a verificarne l’attendibilità, a metterle a confronto se sono più di una, a vagliarne l’attendibilità, a dare conto al lettore dei processi attraverso i quali si pronunzia sull’autenticità o meno delle notizie che riferisce. Il prologo di Erodoto può avere qualche vaga somiglianza col prologo di Ecateo, ma le differenze programmatiche tra i due autori sono notevoli, perché Ecateo attinge dai poemi omerici tradizioni mitiche che vengono sottoposte "al vaglio soggettivo dell’autore, il quale tra le innumerevoli versioni di un mito sceglie quella che appare più verisimile" (pp. 10-11), mentre Erodoto pone al centro della sua ricerca "i fatti ( 1rga) compiuti dagli uomini … quelli che, pur uscendo dal comune, sono degni di ammirazione (qwmastá), e la cui fama deve essere trasmessa alla posterità". Pagine molto dense (pp. 17 ss.) sono dedicate alla visione religiosa di Erodoto. Nell’opera di Erodoto leggiamo le vicende di uomini insignificanti divenuti in breve ricchi o potenti o viceverse quelle di uomini grandi trascinanti improvvisamente a rapidi declini o a imprevisti disastri. A monte di quest’alternanza vi è la presenza di "una forza superiore che domina e governa il corso di tutto il mondo, e che lo storico identifica con la provvidenza divina (toû qeíou Ó pronoíh), alla quale (come alle Moire della poesia omerica) nessuno può sfuggire, né uomo mortale, né dio immortale". Tuttavia il rapporto tra l’uomo e questa provvidenza che anima il cosmo e ne determina i ritmi è problematica, perché l’atteggiamento della divinità nei confronti dell’uomo non è benevolo, bensì animato da un’invidia che porta spesso la divinità a entrare nelle vicende umane apportandovi scompiglio e turbamento. La divinità intervniene nel corso delle azioni umane in modo imprevedibile "talvolta più dura nel colpire senza una ragione precisa, talvolta più mite nel condannare il colpevole". L’Introduzione si sofferma sui rapporti tra Erodoto e la cultura di Atene: all’epoca di Pericle, quando Sofocle stava mettendo in scena la sua Antigone, Erodoto leggeva pubblicamente agli ateniesi le pagine della sua storia. Nell’approntare la stesura definitiva delle Storie Erodoto diede un’organicità al materiale che aveva utilizzato durante queste pubbliche declamazioni, eliminando quegli elementi che più difficilmente si sarebbero inseriti nel piano generale dell’opera: cosicché, mentre ampio spazio è dato alla descrizione della cultura egiziana o di altri popoli orientali, è stata omessa la descrizione della cultura assira, che pure viene preannunziata in I 184. La simpatia di Erodoto per la cultura ateniese traspare anche da scelte linguistiche: molti atticismi compaiono nel testo erodoteo in luogo degli ionismi che ci si attenderebbe, e sia la qualità sia la quantità di tali elementi rendono inverosimile l’ipotesi che si tratti sempre di infiltrazioni dialettali dovute a rimaneggiamento del testo originario operato dai copisti successivi. Se dal punto di vista storico Erodoto si attinge con molta cautela alle notizie trasmesse dai logografi o dalla tradizione epica, dal punto di vista letterario l’influenza omerica è assai robusta. Erodoto scrive in prosa ionica, perché lo ionico era alla sua epoca la lingua di riferimento della prosa, ma accoglie forme ormai superate dalla lingua del tempo, come si rileva dal fatto che non sono più in uso nelle iscrizioni a lui contemporanee: basti citare gli imperfetti e gli aoristi iterativi in -skon, ionismi che non hanno nessuna attestazione al di fuori di Omero e della tradizione che a lui si riconnette.Quanto detto fin qui rivela anche i gravi, e praticamente insuperabili, problemi che il testo di Erodoto pone al critico moderno. Il testo di Erodoto è andato incontro a vicissitudini assai complesse, che hanno finito o per eliminare le forme ioniche originarie (sostituendole con forme attiche più recenti) o per introdurre nell’opera forme linguistiche problematiche o inventate di sana pianta (iperionismi). Rinviando ad altra sede il lettore che volesse maggiori informazioni su questa problematica, ci limiteremo a dire che le scelte operate dai curatori sono molto assennate e ragionevoli. Nei primi quattro libri l’edizione Colonna-Bevilacqua si forma sulla più recente edizione critica erodotea, la teubneriana di H. B. Rosén (Leipzig 1987), che, pur non essendo del tutto esente da mende, è comunque quella che presenta l’apparato più ricco e completo e si fonda sul sistematico esame del testo erodoteo compiuto da un indeuropeista e grecista di provata esperienza. Giustamente però alcune durezze dell’edizione Rosén vengono temperate: ad esempio appaiono assurde, in un testo in cui l’oscillazione linguistica è la regola, certe espunzioni di Rosén motivate semplicemente dal fatto che certe forme linguistiche appaiono incongrue con la lingua erodotea: è il caso p.es. di IV 156, 3, in cui l’atetesi è dovuta alla presenza di un pólei ritenuto inaccettabile, quando nei temi in -i apofonici oscillazioni tra il tipo attico in -ei e il tipo ionico in -œ costituiscono la regola: condivisibile dunque l’intervento degli editori, che ripristinano il testo della tradizione manoscritta. Altrettanto condivisibile, p.es., quanto detto sull’oscillazione in II 120, 1 tra \kontoj e Þékontoj e accettabili le motivazioni che inducono a scrivere o÷qén in I 123, 4. Nel secondo volume (libri V-IX), non essendo ancora disponibile il secondo volume dell’edizione Rosén (che sarebbe uscito solamente nel 1997), il testo di riferimento è quello dell’oxoniense di Hude. Il carattere meno completo dell’apparato di Hude e le diversità di criterio (soprattutto sotto il profilo linguistico) con cui questi opera rispetto a Rosén giustificano la maggiore ampiezza e puntualità della premessa critica che apre il volume.La traduzione italiana è sempre chiara e scorrevole. Molto succinto il commento (come è nelle regole della collana), ma tale da offrire anche al lettore non specialista le informazioni necessarie per seguire in modo completo il dipanarsi della narrazione erodotea. In conclusione si tratta di un lavoro di grande interesse, che non dovrebbe mancare nelle biblioteche scolastiche e, possibilmente, nelle biblioteche private degli insegnanti. |
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