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Cicale


Un percorso tematico


di Giulia Regoliosi Morani


(da Zetesis 2004-2, con aggiunte e integrazioni)

Shizukesaya / Iwa ni Shimiiru / Semi no koe
Che silenzio! Frinire di cicale trivella le rocce
(Haiku del poeta giapponese
Bashō, 1644-1694)

Indice:

1. L'estate

2. Il canto

3. Otium e negotium: la rilettura moralistica

4. La vecchiaia



1. L’estate

Le cicale sono uno degli elementi topici che identificano l’estate: il loro canto è connesso con la calura, l’aridità, l’arsura, la ricerca di ombra e ristoro, e ne costituisce il sottofondo sonoro, spesso l’unico.

 

a) L’archetipo è un passo esiodeo:

Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 582 segg.:

Ἧμος δὲ σκόλυμός τ' ἀνθεῖ καὶ ἠχέτα τέττιξ
δενδρέῳ ἐφεζόμενος λιγυρὴν καταχεύετ' ἀοιδὴν
πυκνὸν ὑπὸ πτερύγων, θέρεος καματώδεος ὥρῃ,
τῆμος πιόταταί τ' αἶγες, καὶ οἶνος ἄριστος,
μαχλόταται δὲ γυναῖκες, ἀφαυρότατοι δέ τοι ἄνδρες
εἰσίν, ἐπεὶ κεφαλὴν καὶ γούνατα Σείριος ἄζει,
αὐαλέος δέ τε χρὼς ὑπὸ καύματος· ἀλλὰ τότ' ἤδη
εἴη πετραίη τε σκιὴ καὶ βίβλινος οἶνος ...

Quando il cardo fiorisce e l’echeggiante cicala appollaiata su un albero riversa il suo canto melodioso muovendo fittamente le ali, nella stagione della faticosa estate, allora le capre sono più grasse, il vino più buono, le donne più dissolute, gli uomini più fiacchi, perché Sirio inaridisce testa e ginocchia, e la pelle è secca per la calura: ma allora vi sia l’ombra di una roccia e vino di palma ...

 

b) La descrizione viene ripresa da Alceo: notiamo come il mutamento formale (eolico invece di ionico, asclepiadei maggiori invece di esametri) non impedisca l’imitazione, anche se vi sono degli spostamenti: ad esempio l’idea del canto echeggiante della cicala è resa da Esiodo con un attributo, da Alceo con il verbo corradicale. Il fondamentale spostamento riguarda il tema di fondo: la descrizione del ciclo della natura in Esiodo, il tema simposiaco in Alceo. Di qui la collocazione alla fine o all’inizio dell’invito al ristoro.

Fr. 347 V:

        τέγγε πλεύμονας οἴνωι, τὸ γὰρ ἄστρον περιτέλλεται,

ἀ δ' ὤρα χαλέπα, πάντα δὲ δίψαισ' ὐπὰ καύματος,
ἄχει δ' ἐκ πετάλων ἄδεα τέττιξ ...
ἄνθει δὲ σκόλυμος, νῦν δὲ γύναικες μιαρώταται
λέπτοι δ' ἄνδρες, ἐπεὶ <    > κεφάλαν καὶ γόνα Σείριος
ἄσδει

Bagna i polmoni col vino, infatti l’astro compie il suo giro, e la stagione è terribile, e tutte le cose hanno sete per la calura, ed echeggia dalle foglie dolcemente la cicala, e fiorisce il cardo, e ora le donne sono più turpi e gli uomini smunti, perché Sirio inaridisce testa e ginocchia

 
c) Anche la cornice paesaggistica del Fedro platonico comprende le cicale all’interno di un’ampia descrizione di un locus amoenus estivo (riportiamo solo la parte finale):

Tosena_paviei

Platone, Fedro, 230

τὸ εὔπνουν τοῦ τόπου ὡς ἀγαπητὸν καὶ σφόδρα ἡδύ θερινόν τε καὶ λιγυρὸν ὑπηχεῖ τῷ τῶν τεττίγων χορῷ. πάντων δὲ κομψότατον τὸ τῆς πόας, ὅτι ἐν ἠρέμα προσάντει ἱκανὴ πέφυκε κατακλινέντι τὴν κεφαλὴν παγκάλως ἔχειν. ὥστε ἄριστά σοι ἐξενάγηται, ὦ φίλε Φαῖδρε.


Com’è amabile e dolcissima la gradevole aria del luogo! Qualcosa di estivo e melodioso echeggia nel canto delle cicale. Ma la cosa più piacevole di tutte è l’erba, che in leggero pendio riesce a sostenere benissimo la testa per chi vi si sdraia. Sei una guida eccellente, caro Fedro.

 

d) In Virgilio incontriamo due scene estive, in cui compare il topos delle cicale. In un passo delle Georgiche che si colloca nella tradizione esiodea l’estate è identificata dai due elementi sete/cicale. Dato il tema generale del III libro (l’allevamento del bestiame) la calura e il ristoro sono visti solo in funzione degli animali:

 

Georg. III, 327 segg.

inde ubi quarta sitim caeli collegerit hora

et cantu querulae rumpent arbusta cicadae,

ad puteos aut alta greges ad stagna iubebo

currentem ilignis potare canalibus undam.


Poi, quando l’ora quarta del cielo accumulerà la sete e le cicale lamentose eromperanno attraverso gli arbusti col loro canto, inviterò a portare le greggi presso i pozzi o gli stagni profondi, a bere l’acqua che scorre nei canali di legno di leccio.

 

Invece nel seguente passo della seconda ecloga protagonista è l’uomo (Coridone), per cui la calura estiva aggiunge sofferenza al dolore di un amore non corrisposto:

 

Ecl. II, 8 segg.

Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant,

nunc viridis etiam occultant spineta lacertos,

Thestylis et rapido fessis messoribus aestu

alia serpyllumque herbas contundit olentis.

At mecum raucis, tua dum vestigia lustro,

sole sub ardenti resonant arbusta cicadis.


Ora anche le greggi cercano ombre e frescura, ora anche i roveti nascondono le verdi lucertole, e Testili pesta aglio e serpillo, erbe odorose, ai mietitori stanchi per la violenta calura. Ma con me, mentre seguo le tue tracce, sotto il sole ardente gli arbusti echeggiano il canto delle roche cicale.

 

e) Ritroviamo l’elemento topico nella seguente poesia di Montale, in cui contribuisce insieme con pochi altri elementi (il muro rovente, il sole che abbaglia) a creare l’ambito dove si colloca la solitaria contemplazione del poeta, diviso fra la ristrettezza dell’al di qua (il muro sbarrato) e le improvvise rivelazioni dell’oltre (la scaglie di mare):

 

Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d’orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.

 

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

a sommo di minuscole biche.

 

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

 

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia                                                                                           

                                            (Ossi di seppia)

                                             ascolta questa poesia dalla voce di Montale

                                

                                                                                                                                                    

f) Così diffuso è l’elemento topico che da solo può identificare l’estate: expectate cicadas dice Giovenale (IX, 69) nel senso di attendete l’estate.


g) Per Quasimodo, nella breve lirica intitolata Estate, le cicale sono il segno fondamentale della stagione, con le loro caratteristiche (il sole, le foglie). Ma qui abbiamo anche l’immedesimazione del poeta  con le cicale, secondo una tendenza a condividere con la natura il cambio di stagioni che si incontra anche in altre poesie (ad esempio Specchio, qui riportata nella sezione dedicata alla primavera)

Cicale, sorelle, nel sole
con voi mi nascondo
nel folto dei pioppi
e aspetto le stelle.

 

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2. Il canto


Da elemento topico la cicala diviene simbolo: del canto e della poesia. Il testo fondamentale in Platone, nello stesso Fedro già citato, con uno dei miti sull’origine delle cicale:

 

a) Platone, Fedro, 258-59ù

ΣΩ. Σχολὴ μὲν δή, ὡς ἔοικε· καὶ ἅμα μοι δοκοῦσιν ὡς ἐν τῷ πνίγει ὑπὲρ κεφαλῆς ἡμῶν οἱ τέττιγες ᾄδοντες καὶ ἀλλήλοις διαλεγόμενοι καθορᾶν καὶ ἡμᾶς. εἰ οὖν ἴδοιεν καὶ νὼ καθάπερ τοὺς πολλοὺς ἐν μεσημβρίᾳ μὴ διαλεγομένους ἀλλὰ νυστάζοντας καὶ κηλουμένους ὑφ' αὑτῶν δι' ἀργίαν τῆς διανοίας, δικαίως ἂν καταγελῷεν, ἡγούμενοι ἀνδράποδ' ἄττα σφίσιν ἐλθόντα εἰς τὸ καταγώγιον ὥσπερ προβάτια μεσημβριάζοντα περὶ τὴν κρήνην εὕδειν· ἐὰν δὲ ὁρῶσι διαλεγομένους καὶ παραπλέοντάς σφας ὥσπερ Σειρῆνας ἀκηλήτους, ὃ γέρας παρὰ θεῶν ἔχουσιν ἀνθρώποις διδόναι, τάχ' ἂν δοῖεν ἀγασθέντες.
ΦΑΙ. Ἔχουσι δὲ δὴ τί τοῦτο; ἀνήκοος γάρ, ὡς ἔοικε, τυγχάνω ὤν.
ΣΩ. Οὐ μὲν δὴ πρέπει γε φιλόμουσον ἄνδρα τῶν τοιούτων ἀνήκοον εἶᾥναι. λέγεται δ' ὥς ποτ' ἦσαν οὗτοι ἄνθρωποι τῶν πρὶν Μούσας γεγονέναι, γενομένων δὲ Μουσῶν καὶ φανείσης ᾠδῆς οὕτως ἄρα τινὲς τῶν τότε ἐξεπλάγησαν ὑφ' ἡδονῆς, ὥστε ᾄδοντες ἠμέλησαν σίτων τε καὶ ποτῶν, καὶ ἔλαθον τελευτήσαντες αὑτούς· ἐξ ὧν τὸ τεττίγων γένος μετ' ἐκεῖνο φύεται, γέρας τοῦτο παρὰ Μουσῶν λαβόν, μηδὲν τροφῆς δεῖσθαι γενόμενον, ἀλλ' ἄσιτόν τε καὶ ἄποτον εὐθὺς ᾄδειν, ἕως ἂν τελευτήσῃ, καὶ μετὰ ταῦτα ἐλθὸν παρὰ Μούσας ἀπαγγέλλειν τίς τίνα αὐτῶν τιμᾷ τῶν ἐνθάδε.


Socrate: Abbiamo tempo libero, mi pare. E mi sembra che nell’afa le cicale cantando e dialogando fra loro sulle nostre teste guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi, come fanno i più sul mezzogiorno, non dialoghiamo ma sonnecchiamo e per pigrizia mentale ci facciamo affascinare da loro, giustamente riderebbero, ritenendo che degli schiavi siano venuti in questo rifugio a dormire, come greggi sul mezzogiorno presso una fonte; qualora invece vedano che dialoghiamo e le oltrepassiamo navigando, come davanti alle Sirene, senza farci affascinare, compiacendosi ci darebbero il dono che hanno l’incarico di dare agli uomini da parte degli dèi.

Fedro: Qual è questo dono che hanno? Non mi sembra di averne mai sentito parlare.

Socrate: Non è conveniente che un uomo amante delle Muse non abbia mai sentito tali cose. Si dice che un tempo queste fossero uomini, di quelli vissuti prima della nascita delle Muse; e quando nacquero le Muse e si manifestò il canto, alcuni degli uomini di allora furono così colpiti dal piacere che cantando trascurarono cibo e bevanda, e morirono senza accorgersene. Da loro in seguito sorge la stirpe delle cicale, che ottenne dalle Muse il dono di non aver bisogno fin dalla nascita di nutrimento, ma di cantare subito senza cibo né bevanda, sino alla fine. E poi si recano dalle Muse e riferiscono chi fra gli uomini di quaggiù onora ciascuna di loro.

 

b) L’idea che le cicale non avessero bisogno di cibo, ma al più si nutrissero di rugiada, diviene presto proverbiale: così in questo passo di Virgilio:


Ecl. V, 76 segg:

Dum iuga montis aper, fluvios dum piscis amabit,

dumque thymo pascentur apes, dum rore cicadae,

semper honos nomenque tuum laudesque manebunt

Finché il cinghiale amerà i gioghi del monte e il pesce i fiumi, finché le api si nutriranno di timo e le cicale di rugiada, sempre resteranno il tuo onore, il tuo nome e la tua gloria.

 

c) Il canto delle cicale suggerisce al Carducci una gioiosa riflessione sulla sua condizione di poeta:

Da: Le “risorse” di San Miniato al Tedesco, I


Prima una, due, tre, quattro, da altrettanti alberi; poi dieci, venti, cento, mille, non si sa di dove, pazze di sole, come le sentì il greco poeta; poi tutto un gran coro che aumenta d’intonazione e d’intensità co’l calore e co’l luglio, e canta, canta, canta, su’ capi, d’attorno, a’ piedi de’ mietitori. Finisce la mietitura, ma non il coro. Nelle fiere solitudini del solleone, pare che tutta la pianura canti, e tutti i monti cantino, e tutti i boschi cantino: pare che essa la terra dalla perenne gioventù del suo seno espanda in un inno immenso il giubilo de’ suoi sempre nuovi amori co’l sole. A me in quel nirvana di splendori e di suoni avviene e piace di annegare la conscienza di uomo, e confondermi alla gioia della mia madre Terra: mi pare che tutte le mie fibre e tutti i miei sensi fremano, esultino, cantino in amoroso tumulto, come altrettante cicale. Non è vero che io sia serbato ai freddi silenzi del sepolcro! io vivrò e canterò, atomo e parte della mia madre immortale.

 

d) Un’identificazione con la cicala anche nella lirica Cigarra! (in Libro de Poemas) del poeta spagnolo Federico García Lorca.

Lorca considera felice la cicala che, a differenza degli uomini,  non muore curva sulla terra, ma cantando e avvolta dalla luce:

 

Mas tù, cigarra encantada,                  
demarrando son, te mueres                  
y quedas transfigurada                        
en sonido y luz celeste.                        

 

Ma tu, cicala incantata,

prodigando suono muori

e resti trasfigurata

in suono e luce celeste.

 

 e) Una canzone dell’argentina Maria Elena Walsh, composta nel 1973, è divenuta simbolo della sopravvivenza ad ogni dittatura. Anche qui ricorre il tema della morte che risale alla lunga al Fedro platonico ma che rispetto a Lorca si risolve nella possibilità di rivivere e ricominciare a cantare..

 
Como la cigarra Come la cicala
Tantas veces me mataron,
tantas veces me morí,
sin embargo estoy aquí
resucitando.
Gracias doy a la desgracia
y a la mano con puñal
porque me mató tan mal,
y seguí cantando.

 

Tante volte mi hanno uccisa,

tante volte sono morta,

eppure sono qui

resuscitata.

Ringrazio la disgrazia

e la mano col pugnale

perché mi uccise così male

e ho continuato a cantare.

 

Cantando al sol como la cigarra
después de un año bajo la tierra,
igual que sobreviviente
que vuelve de la guerra.

Cantare al sole come la cicala

dopo un anno sotto la terra,

come un sopravvissuto

che torna dalla guerra.

Tantas veces me borraron,
tantas desaparecí,
a mi propio entierro fuí
sola y llorando.
Hice un nudo en el pañuelo
pero me olvidé después
que no era la única vez,
y volví cantando.

Tante volte mi hanno cancellata,

tante sono scomparsa,

sono stata al mio funerale

sola e piangente.

Ho fatto un nodo al fazzoletto

però poi mi sono dimenticata

che non era l’unica volta

e sono tornata a cantare.

 

Cantando al sol como la cigarra
después de un año bajo la tierra,
igual que sobreviviente
que vuelve de la guerra.

Cantare al sole come la cicala

dopo un anno sotto la terra,

come un sopravvissuto

che torna dalla guerra.

 

Tantas veces te mataron,
tantas resucitarás,
tantas noches pasarás
desesperando.
A la hora del naufragio
y la de la oscuridad
alguien te rescatará
para ir cantando.

Tante volte ti hanno ucciso,

tante resusciterai,

tante notti passerai

disperando.

All’ora del naufragio

e dell’oscurità

qualcuno ti libererà

perché tu vada a cantare.

Cantando al sol como la cigarra
después de un año bajo la tierra,
igual que sobreviviente
que vuelve de la guerra.

Cantare al sole come la cicala

dopo un anno sotto la terra,

come un sopravvissuto

che torna dalla guerra.

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3. Otium e negotium: la rilettura moralistica

E’ significativo che il simbolismo cicala/poeta abbia un risvolto negativo: l’idea cioé che la cicala/poeta non lavora, non produce, quindi è inutile a sé e agli altri. In questo contesto moralistico, anche la concezione della cicala che si nutre di rugiada, o non si nutre del tutto perché vive del suo canto, si modifica: la cicala non ha di che nutrirsi appunto perché non fa un lavoro produttivo. L’antagonista, l’animale che lavora per sé e la collettività, è la formica.

 

a) In Esopo troviamo due varianti della stessa favola:

 

μύρμηξ καὶ τέττιξ
ψῦχος ἦν καὶ χειμὼν κατ' Ὀλύμπου. μύρμηξ δὲ πολλὰς συνάξας ἐν ἀμητῷ ἐν ἰδίοις οἴκοις ἀπέθηκε. τέττιξ δὲ ἐπὶ τρώγλης ἐνδύνας ἐξέπνει τῇ πείνῃ λιμῷ κατεχόμενος καὶ ψύχει πολλῷ· ἐδεῖτο οὖν τοῦ μύρμηκος τροφῆς μεταδοῦναι, ὅπως καὶ αὐτὸς πυροῦ τινος γευσάμενος σωθείη. ὁ δὲ μύρμηξ πρὸς αὐτόν· "ποῦ, φησίν, ἦς τῷ θέρει; πῶς οὐ συνῆξας τροφὰς ἐν ἀμητῷ;" καὶ ὁ τέττιξ φησί· "ᾖδον καὶ ἔτερπον τοὺς ὁδοιποροῦντας." ὁ δὲ μύρμηξ γέλωτα πολὺν <αὐτῷ> καταχέας ἔφη· "οὐκοῦν χειμῶνος ὀρχοῦ."
διδάσκει ἡμᾶς ὁ μῦθος, ὅτι οὐδὲν κρεῖττον τοῦ φροντίζειν τῶν ἀναγκαίων τροφῶν καὶ μὴ ἀπασχολεῖσθαι εἰς τέρψιν καὶ κωμασίαν.  (114)

 

χειμῶνος ὥρᾳ τῶν σίτων βραχέντων οἱ μύρμηκες ἔψυχον. τέττιξ δὲ λιμώττων ᾔτει αὐτοὺς τροφήν. οἱ δὲ μύρμηκες εἶπον αὐτῷ· "διὰ τί τὸ θέρος οὐ συνῆγες τροφήν;" ὁ δὲ εἶπεν· "οὐκ ἐσχόλαζον ἀλλ' ᾖδον μουσικῶς." οἱ δὲ γελάσαντες εἶπον· "ἀλλ' εἰ θέρους ὥραις ηὔλεις, χειμῶνος ὀρχοῦ."
ὁ μῦθος δηλοῖ, ὅτι οὐ δεῖ τινα ἀμελεῖν ἐν παντὶ πράγματι, ἵνα μὴ λυπηθῇ καὶ κινδυνεύσῃ. (114 b)

 

La formica e la cicala

Era freddo e inverno giù dall’Olimpo. La formica avendo raccolto molto al tempo della mietitura l’aveva riposto nella sua casa. La cicala nascostasi in una cavità stava per morire per la fame, stretta dalla penuria di cibo, e per il gran freddo. Pregò dunque la formica di prestarle un po’ di cibo, in modo che anch’essa si salvasse assaggiando qualche po’ di grano. Ma la formica le dice: “Dov’eri in estate? come mai non hai raccolto del cibo al tempo della mietitura?” La cicala dice: “Cantavo e rallegravo i viandanti”. E la formica deridendola molto disse: “Dunque d’inverno balla”.

La favola ci insegna che niente è più importante che preoccuparsi del cibo necessario e non perder tempo in allegria e feste. (114)

Nella stagione invernale, essendosi bagnato il grano, le formiche avevano freddo.

La cicala affamata chiese loro del cibo. Ma le formiche le dissero: “Perché in estate non hai raccolto il cibo?” E quella disse: “Non avevo tempo, ma cantavo artisticamente”.

E quelle ridendo dissero: “Se d’estate suonavi, d’inverno balla”.

La favola mostra che non bisogna essere negligenti in ogni cosa, per non soffrire e non correre rischi. (114 b)

 

La favolistica successiva riprende più volte il tema, o rilevando semplicemente la differenza fra i due comportamenti o riportando il dialogo col gioco di parole cantare ~ ballare. Ricordiamo ad esempio la favola 1 del retore Aftonio, la favola 2 di Teofilatto Simocatta, la favola 43 di Sintipa, la favola 1 dell’anonimo Brancatianus, tutte comprese nel corpus Aesopicum.

 

b) Ritroviamo il topos nel favolista francese del Seicento La Fontaine:

 

La cigale et la fourmi       

La cicala e la formica

La cigale, ayant chanté 

tout l’été, 

se trouva fort dépourvue 

quand la bise fut venue:

pas un seul petit morceau   

de mouche ou de vermisseau:  

elle alla crier famine  

chez la fourmi sa voisine,

la priant de lui prêter  

quelche grain pour subsister

jusqu’à la saison nouvelle:

«Je vous paierai, lui dit-elle,

avant l’août, foi d’animal     

interêt et principal»       

La fourmi n’est pas prêteuse:

c’est là son moindre défaut;

«Que faisiez-vous au temps chaud?,

dit-elle à cette emprunteuse.  

«Nuit et jour à tout venant

je chantais, ne vous déplaise».

«Vous chantiez! j’en suis fort aise.

Eh bien! dansez maintenant».

                    

                           (Livre I, fable 1)

 La cicala, avendo cantato

                tutta l’estate,

si trovò molto sprovvista

quando venne il freddo:

neanche un solo pezzettino

di mosca o di vermicello:

andò a lamentare la carestia

alla sua vicina formica

pregandola di prestarle

qualche granello per sopravvivere

 fino alla nuova stagione:

«Vi pagherò, le disse,

entro agosto, parola d’animale,

il capitale e l’interesse»

La formica non è prodiga:

è il suo minimo difetto;

«Che facevate nella stagione calda?,

disse a quella accattona.

«Notte e giorno continuamente

cantavo, se non vi spiace »

«Cantavate! Ne sono molto lieta.

Ebbene! ballate adesso».

 

Vai alla traduzione poetica di Emilio de Marchi

 

c) Ma con La Fontaine la variante moralistica sembra fermarsi. Nella sua opera pedagogica Émile Rousseau contesta il valore educativo della favola, che fornisce “una lezione di crudeltà” (Vol. I, libro II). Su un altro versante la contesta l’entomologo H. Fabre (1823-1915), che analizzando le abitudini degli insetti arriva a capovolgere il rapporto fra i due e insieme a fornire una base scientifica alla concezione classica della cicala “che non mangia e non beve”:

 

In luglio, nelle ore afose del pomeriggio, quando il popolo degli insetti, estenuato dalla sete, erra cercando invano di abbeverarsi sui fiori appassiti, secchi, la cicala se la ride della penuria generale. Col suo rostro, fine succhiello, buca una parte della sua cantina inesauribile. Stabilitasi sempre cantando su un ramoscello d’arbusto, fora la scorza ferma e liscia che una linfa maturata dal sole gonfia... Numerosi assetati la spiano, in effetti; scoprono il pozzo... I più piccoli, per avvicinarsi alla sorgente, s’insinuano sotto il ventre della cicala che, gentile, si rizza sulle zampe e lascia via libera agli importuni... Le più ostinate sono le formiche.

                                    (Souvenirs entomologiques).

 

Bisogna supporre che il poeta romano Trilussa (1871-1950) conoscesse il passo di Fabre, perché una delle poesie dedicate al tema ricalca proprio questo testo, con l’aggiunta della satira politica:

La cecala e le formiche

Tutta l’estate la Cecala canta;

ma, quanno sente che je viè l’arsura,

lassa perde la musica e procura

de fa’ un succhiello ar ramo d’una pianta:

e sbucia e scava e trapana e lavora

finché nun vede l’acqua ch’esce fòra.

 

Ma c’è però chi aspetta er bon momento

pe’ sfruttà tante povere fatiche:

e so’ precisamente le Formiche

che vanno a pizzicalla a tradimento

finché la bestia, mezza stramortita,

se stacca, casca e perde la partita.

 

Allora c’è l’assarto. Detto fatto

le Formiche cominceno er via-vai:

ma ne la furia c’è chi beve assai,

chi beve poco e chi nun beve affatto.

Nun ce se bada più: chi ariva ariva,

come a la Società Coperativa.
                                        (Le storie)

 

Più accentuata la satira politico/sociale in queste due poesie dello stesso autore:

La cecala d’oggi

Una Cecala, che pijava er fresco

all’ombra der grispigno e de l’ortica,

pe’ da’ la cojonella a ‘na Formica

cantò ‘sto ritornello romanesco:

                               ─ Fiore di pane,

io me la godo, canto e sto benone,

e invece tu fatichi come un cane,

─ Eh! da qui ar bel vedé ce corre poco:

─ rispose la Formica ─

nun t’hai da crede mica

ch’er sole scotti sempre come er foco!

Amomenti verrà la tramontana:

commare, stacce attenta... ─

Quanno venne l’inverno

la Formica se chiuse ne la tana;

ma, ner sentì che la Cecala amica

seguitava a cantà tutta contenta,

uscì fòra e je disse: ─ Ancora canto?

ancora nun la pianti?

─ Io? ─ fece la Cecala ─ manco a dillo:

quer che facevo prima faccio adessi;

Mò ciò l’amante: me mantiè quer Grillo

che 'sto giugno me stava sempre appresso.

Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia!

M’aricordo mi’ nonna che diceva:

Chi lavora cià appena una camicia,

e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.

                                        (Le favole)

 

La cecala rivoluzzionaria

Una cecala rivoluzzionaria

diceva a la Formica:

─ Povera proletaria!

Schiatti da la fatica

senza pensà che un giorno finirai

sott’a zampe de la borghesia

che a le formiche nun ce guarda mai!

Ma che lavori a fa’, compagna mia?

Pianta er padrone e sciopera

prima ch’arivi un piede propotente

che te voja fregà la mano d’opera!

Tu guarda a me: d’inverno nun fo gnente,

e ammalappena sento li calori

me sdrajo in faccia ar sole e canto l’Inno

de li Lavoratori!

                                (ibid.)

Nel ventesimo secolo la contestazione del topos moralistico assume le forme più varie e più popolari. Una storia a fumetti disneyana degli anni ’50 introduce una sorta di compromesso: la cicala non viene respinta dal popolo delle formiche, ma viene ospitata e invitata a suonare per rallegrare le formiche durante il lungo inverno; tuttavia quello che sembrerebbe uno scambio equo e il riconoscimento dei diversi compiti ha una conclusione che riprende l’antica morale: la cicala canta “in fa”, esaltando la necessità del lavoro.

 

Il fumetto (che in realtà riprende un cartone animato del 1934, inserito nelle Si film Disney del 1934lly Symphonies) parla di una cavalletta, e il disegno sembra riprodurre più il tipo della cavalletta che quello della cicala (qui accanto, la copertina del 45 giri commercializzato nel 1962, che conteneva la canzone del cartone animato, con la voce di Pinto Colvig). Presumibilmente dobbiamo risalire ad un equivoco lessicale. L’inglese  non possiede un termine per “cicala”: i dizionari riportano per lo più solo cicada (con plurale cicadas o cicadae), un latinismo di uso scientifico; quando riportano un altro termine, questo è grasshopper, parola dall’evidente etimologia (“che balza nell’erba”) e che indica (cercandola dall’inglese) diversi altri tipi di insetti, fra cui il grillo e soprattutto la cavalletta. E’ probabile che il creatore americano della storia disneyana sia partito dalla traduzione inglese di una favola in cui era usata la parola grasshopper e abbia frainteso; il traduttore italiano si è adeguato soprattutto al disegno. Ma non c’è dubbio che all’origine vi sia una rilettura del topos tradizionale.

 

Il cartone animato del 1934 è accessibile su YouTube:   clicca qui per vederlo.

 
In modo più netto Rodari rivendica la gratuità della poesia in una delle sue favolette:

 

Chiedo scusa alla favola antica
se non amo l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala.

 

Stranamente è proprio il compito che la cicala si era assunta nella favola esopica: rallegrare col suo canto gratuitamente i viandanti; ma in Esopo un moralismo piuttosto gretto aveva eliminato come improduttivo questo compito.

 

Una canzoncina che faceva da sigla allo show televisivo Fantastico 1981, cantata e ballata da Heather Parisi, contestava scherzosamente il topos favolistico, ricorrendo a un gioco di parole che temiamo non sia stato capito da molti:xxx

 

Cicale

Delle cicale

ci cale, ci cale, ci cale,

della formica

invece non ci cale mica...

(di Testa, Miseria, De Vita, Testi, Ricci, ed. Sugar Music Peer).

 

Per accedere a un video della canzone clicca a uno dei seguenti indirizzi:

https://www.dailymotion.com/video/x3q2kr2

http://it.youtube.com/watch?v=sAqqpWmt2EU&feature=related

 

Ultimamente si è aggiunta anche la voce del premio Nobel 1993, la scrittrice americana Toni Morrison, autrice di un libro intitolato “Chi ha più coraggio? La formica o la cicala?” (ed. it. Frassinelli). In un'intervista spiega: “La formica sarà stata anche brava a fare le provviste per l’inverno, ma è stato il canto della cicala a incoraggiarla nel suo lavoro. Noi artisti, insomma, non siamo così inutili”

 


4. La vecchiaia


 

Eos e Titono (vaso da Vulci, secolo V)Fra le varianti del mito di Eos (Aurora) e Titono ve n’è una che termina nella metamorfosi in cicala. Il mito nella sua storia di base è già presente nell’Inno omerico ad Afrodite:

ὣς δ' αὖ Τιθωνὸν χρυσόθρονος ἥρπασεν Ἠὼς
ὑμετέρης γενεῆς ἐπιείκελον ἀθανάτοισι.
βῆ δ' ἴμεν αἰτήσουσα κελαινεφέα Κρονίωνα
ἀθάνατόν τ' εἶναι καὶ ζώειν ἤματα πάντα·
τῇ δὲ Ζεὺς ἐπένευσε καὶ ἐκρήηνεν ἐέλδωρ.
νηπίη, οὐδ' ἐνόησε μετὰ φρεσὶ πότνια Ἠὼς
ἥβην αἰτῆσαι, ξῦσαί τ' ἄπο γῆρας ὀλοιόν.
τὸν δ' ἦ τοι εἵως μὲν ἔχεν πολυήρατος ἥβη,
Ἠοῖ τερπόμενος χρυσοθρόνῳ ἠριγενείῃ
ναῖε παρ' Ὠκεανοῖο ῥοῇς ἐπὶ πείρασι γαίης·
αὐτὰρ ἐπεὶ πρῶται πολιαὶ κατέχυντο ἔθειραι
καλῆς ἐκ κεφαλῆς εὐηγενέος τε γενείου,
τοῦ δ' ἦ τοι εὐνῆς μὲν ἀπείχετο πότνια Ἠώς,
αὐτὸν δ' αὖτ' ἀτίταλλεν ἐνὶ μεγάροισιν ἔχουσα
σίτῳ τ' ἀμβροσίῃ τε καὶ εἵματα καλὰ διδοῦσα.
ἀλλ' ὅτε δὴ πάμπαν στυγερὸν κατὰ γῆρας ἔπειγεν
οὐδέ τι κινῆσαι μελέων δύνατ' οὐδ' ἀναεῖραι,
ἥδε δέ οἱ κατὰ θυμὸν ἀρίστη φαίνετο βουλή ·
ἐν θαλάμῳ κατέθηκε, θύρας δ' ἐπέθηκε φαεινάς.
τοῦ δ' ἦ τοι φωνὴ ῥεῖ ἄσπετος, οὐδέ τι κῖκυς
ἔσθ' οἵη πάρος ἔσκεν ἐνὶ γναμπτοῖσι μέλεσσιν. (vv. 218-238)
Così Aurora dal trono d’oro rapì a sua volta Titono, simile agli immortali della vostra stirpe. Andò poi a chiedere al Cronide adunatore di nembi che fosse immortale e vivesse per sempre: e Zeus annuì e le esaudì il desiderio. Sciocca, non venne in mente alla venerabile Aurora di chiedere la giovinezza e di allontanare l’odiosa vecchiaia. Così finché egli godette dell’amabile giovinezza, abitò presso le correnti dell’Oceano ai confini della terra, rallegrandosi insieme ad Aurora mattutina, dal trono d’oro; ma quando dalla bella testa e dal nobile mento si diffusero i primi crini bianchi, la venerabile Aurora lo cacciò dal suo letto, curandolo però nella casa, con cibo e ambrosia e belle vesti. Quando poi lo prese del tutto l’orribile vecchiaia e non poteva più muovere né alzare le membra, le venne nell’animo questo ottimo progetto: lo chiuse nel talamo, e serrò le splendide porte. La voce di lui corre incessante, ma non c’è più la forza che prima era nelle agili membra.

 

 Ma una conclusione diversa troviamo ad esempio in:

 

a) Schol Hom. ad Il. XI, 1:

Ἱερώνυμος (fr. 15 We.) φησὶ τὸν Τιθωνὸν αἰτήσασθαι ἀθανασίαν παρὰ τῆς Ἠοῦς, οὐ μέντοι καὶ ἀγηρασίαν· ὡς δώὲ πολλῷ τῷ γήρᾳ χρώμενος ἐδυσφόρει, αἰτήσασθαι θάνατον· ἡ δὲ ἀδυνατοῦσα εἰς τέττιγα αὐτὸν μεταβάλλει, ὅπως ἥδοιτο διηνεκῶς τῆς φωνῆς αὐτοῦ ἀκούουσα.

 

Gerolamo (fr. 15 We.) dice che Titono chiese l’immortalità ad Aurora, ma non l’assenza di vecchiaia; quando poi oppresso pesantemente dalla vecchiaia era in tristi condizioni chiese la morte; ma lei non avendone la possibilità lo trasforma in cicala, per gioire sentendo continuamente la sua voce.

 

Quella che nell’Inno appariva una scelta crudele (anche se qualificata come ottima dall’autore) in questa variante diviene segno di affetto: la conservazione della voce dell’amato. Nell’Inno Titono continua a cianciare da solo, oltre le porte chiuse; qui perde la sua immagine ormai triste, ma la voce continua a rallegrare la sua antica compagna.

 

b) Se questa è la raffigurazione mitica dell’analogia vecchiaia-cicala, il tertium comparationis era già in Omero: implicitamente l’inutilità della cicala e del vecchio rispetto alla vita attiva, esplicitamente l’abilità di parlare/cantare. Risale ad Omero, dunque, l’alternativa attività/parola, senza che vi sia una negatività per il secondo elemento: negotium ed otium hanno ciascuno il suo posto.

 

Iliade, III, vv.149 segg.:

ἥατο δημογέροντες ἐπὶ Σκαιῇσι πύλῃσι,
γήραι δὴ πολέμοιο πεπαυμένοι, ἀλλ' ἀγορηταὶ
ἐσθλοί, τεττίγεσσιν ἐοικότες οἵ τε καθ' ὕλην
δενδρέῳ ἐφεζόμενοι ὄπα λειριόεσσαν ἱεῖσι
 

 

Sedevano gli anziani al di sopra delle porte Scee, esclusi dalla guerra per la vecchiaia, ma abili parlatori, simili alle cicale che nel bosco, appollaiate su un albero, emettono una voce dolce come un giglio.

 

c) Nel prologo degli Aitia Callimaco opera una sintesi fra i due simbolismi della cicala, facendo un doppio paragone con se stesso: poeta e anziano:

fr. 1 Pf.

ἐνὶ τοῖς γὰρ ἀείδομεν οἳ λιγὺν ἦχον
τέττιγος, θ]όρυβον δ' οὐκ ἐφίλησαν ὄνων.
θηρὶ μὲν οὐατόεντι πανείκελον ὀγκήσαιτο
ἄλλος, ἐγ]ὼ δ' εἴην οὑλ[α]χύς, ὁ πτερόεις,
ἆ πάντως, ἵνα γῆρας ἵνα δρόσον ἣν μὲν ἀείδω
πρώκιον ἐκ δίης ἠέρος εἶᾥδαρ ἔδων,
αὖθι τὸ δ' ἐκδύοιμι, τό μοι βάρος ὅσσον ἔπεστι
τριγλώχιν ὀλοῷ νῆσος ἐπ' Ἐγκελάδῳ.
Μοῦσαι γὰρ ὅσους ἴδον ὄθματι παῖδας
μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους.

Infatti noi cantiamo fra quelli che amano l’echeggiare melodioso della cicala, non lo schiamazzo degli asini. Un altro si gonfi come l’orecchiuto animale, ma io sia la lieve, l’alata, ahimè! in tutto, nella vecchiaia e nella rugiada: io canti nutrendomi di questa come rorido cibo sceso dall’etere divino, e di quella mi possa liberare, che pesa su di me quanto l’isola trinacria sull’odioso Encelado. Infatti quanti le Muse guardarono da piccoli con occhio non ostile, anche quando sono canuti li hanno cari.



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Le immagini: 1. Immagine di cicala esotica (Tosena paviei); 2. Francobollo commemorativo per il centenario della nascita di Montale, emesso dalla Repubblica Italiana nel 1998; 3. Illustrazione del pittore e disegnatore inglese Francis Barlow (1626-1704) per un'edizione, da lui stesso pubblicata, delle favole di Esopo tradotte in inglese (Oxford 1687); 4. Illustrazione di Gustave Doré (1882-1883) per un'edizione ottocentesca delle Favole di La Fontaine; 6. L'entomologo H. Fabre; 7. Copertina originale del disco 45 giri Grasshopper and Ant, produzione W. Disney; 8. Immagine della sigla televisiva di Fantastico (edizione 1982), con la canzone Cicale cantata da Heather Parisi (il video a cui si può accedere facendo clic sull'immagine rinvia a un collegamento esterno); 9. Eos insegue Titono (vaso attico a figure rosse, circa 470-460 a.C., da Vulci; Museo del Louvre, Parigi); 10. Cicale su un albero.

(Vai alla pagina iniziale della sezione Testi)


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