"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Poesia latina della decadenza (II)
Una pista di lettura facile da seguire e
immediatamente produttiva, per chi utilizza l'antologia di poeti latini
della decadenza che abbiamo nominato nel nostro precedente intervento
(1), è quella che rileva il tenace attaccamento a Roma
da parte dei letterati dell'età imperiale, letterati che, lo si tenga
sempre nella dovuta considerazione, sono per la maggior parte cresciuti
e vissuti alla periferia dell'impero. Si legga ad esempio nel brano di
Claudio Claudiano riportato nell'antologia e tratto dal De consulatu
Stilichonis, il lungo elogio di Roma (2). La
lettura è tanto più impressionante, se si tien conto del fatto che
queste parole furono scritte l'anno 400, quando la potenza politica di
Roma doveva essere poco più di un ricordo e lo stesso impero d'occidente
si avviava rapidamente e inesorabilmente a una fine non indolore. Ma non
è tanto il giudizio politico ad animare la voce del poeta (ché
altrimenti le sue parole suonerebbero vuote e retoriche: e le si possono
mettere a confronto con le pagine del De civitate dei agostiniano,
ove la consapevolezza della caducità dell'opera umana conferisce ben
altro taglio e ben altro peso alla considerazione in chiave politica e
teologica degli avvenimenti contemporanei): Claudiano afferma piuttosto
con orgoglio la piena e compiuta realizzazione di un progetto di natura
culturale che ha portato all'affermazione di una civiltà: "Haec est
in gremium victos quae sola recepit | humanumque genus communi
nomine fovit, | matris, non dominae ritu, civesque vocavit
| quos domuit nexuque pio longinqua revinxit". Ancora più
marcata l'esaltazione di questa opera unificatrice nel noto passo del
De
reditu suo di Rutilio Namaziano, anch'esso riportato nell'antologia
(3): qui l'affermazione è ancor più significativa,
perché dall'insieme del poemetto aleggia una sensazione di squallore e
di desolazione, soprattutto negli insistiti accenni a illustri città
ormai abbandonate e a luoghi abbandonati e malsani. Non è neppure da
sottovalutare il limite di questo atteggiamento: un tenace attaccamento
ai riti del paganesimo ormai moribondo (si veda in Rutilio la nostalgica
descrizione degli antichi riti in onore di Osiride), e il rifiuto pieno
di livore di culture diverse da quella romana, come appare dalla
violenta e sgradevole invettiva di Rutilio contro i giudei. Da un punto
di vista letterario questo atteggiamento si esprime con la ripresa di
tematiche mitologiche ormai lontane dalla sensibilità comune, con la
conseguente creazione di poemetti di fattura accurata, ma
sostanzialmente vuoti di contenuto e di afflato poetico. In sostanza, il
tono poetico è stanco e ripetitivo quando l'autore si cimenta con
tematiche di natura epica, sia nella forma più ampia del poema sia nel
componimento più breve dell'epillio: lo si rileverà, facendo sempre
riferimento a brani contenuti nell'antologia citata, sia dai passi del
De raptu Proserpinae di Claudiano (4) sia da altri
componimenti di minor valore e notorietà come il Concubitus Martis
et Veneris di Reposiano (5): si potranno trovare
qua e là occasionalmente dei momenti di vera poesia (si veda nel De
raptu Proserpinae la descrizione dell'alba sul mare
[6]), ma si tratta di evenienze tutto sommato rare. (1) Poeti latini della
decadenza a cura di Carlo Carena, Torino, Einaudi 1988
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