Il latino medievale
Nuova Secondaria, 15 aprile 1993, pag. 67
Quello del latino medievale è un caso singolare.
L. Bieler lo definisce "una lingua senza popolo", rilevando l'unicità di
questa caratteristica: "Le lingue del mondo, sia antiche sia moderne,
sono per definizione parlate e capite da numerosi individui che non le
hanno come lingue madri: ma esse, altrettanto per definizione, sono
anche le lingue parlate di determinati popoli" (1). Il
latino medievale non pare adattarsi alla definizione né di lingua viva
né di lingua morta: "la lingua di una tradizione" la chiama R.Meister:
"né una lingua nazionale né una lingua universale... Non è
esclusivamente lingua della Chiesa, né la lingua di una classe. E' una
lingua senza comunità linguistica, e tuttavia non una lingua morta. Il
latino medievale è la lingua di una comunione di idee" (2).
Quest'impostazione del problema è suggestiva. Che il latino medievale
non sia da considerare una lingua morta è provato da molte
considerazioni. E' vero che nel Medioevo non ha parlanti nativi: ma, pur
appresa nella scuola, è una lingua largamente praticata in numerosi
ambiti sociali: le modalità di apprendimento del latino nel Medioevo e
la sua diffusione non sono granché dissimili da quelle dell'italiano del
Sette-Ottocento, definito polemicamente e provocatoriamente "lingua
morta" da Carlo Gozzi e Foscolo (3). Il carattere di
lingua viva del latino medievale è riconoscibile non tanto o non
soltanto, come è stato detto, dalla presenza di componimenti poetici,
perché l'ispirazione poetica può rendere vivo qualunque materiale (i
componimenti latini di Pascoli sono poesia vera, e ciò non toglie che a
quell'epoca il latino sia una lingua morta). Più che dall'esistenza di
componimenti poetici, la vitalità della lingua è mostrata dalla sua
capacità di dar vita e adattarsi a ritmi e regole prosodiche nuove,
differenti da quelle della poesia classica legate a condizioni di
pronunzia ormai desuete (si pensi agli esametri rimati del Ruodlieb).
Ancora, a rendere vivo il latino medievale è la varietà delle sue
espressioni: una lingua rimane viva finché esiste una interazione fra la
norma (la "langue") e il suo concreto attuarsi nella "parole" e, nel
medesimo tempo, finché la "langue" può essere plasmata secondo le
esigenze espressive degli autori. Tutto questo è vero per il latino
medievale: la gamma delle varietà in cui la lingua si modella è pari al
numero degli autori che la usano. La prosa, più o meno corretta a
seconda della cultura dei vari autori, si rifà ai modelli latini tardi,
sottolineando così la continuità di questa lingua rispetto al passato da
cui muove i suoi passi.
La definizione del latino medievale come "lingua senza popolo" lascia
perplessi, e sottende un'idea sostanzialmente romantica e inattuale di
popolo. Il latino medievale è la lingua del popolo cristiano dell'Europa
occidentale e centrale, che nell'uso di esso trova lo strumento per
cementare un'unità culturale in via di formazione che trascende la
diversità delle vicende etnico-culturali e linguistiche anteriori
all'incontro di popoli latini, celtici, germanici, slavi, ugro-finnici e
altro ancora. E' vero che il latino non fu solo la lingua della Chiesa,
ma è anche vero che la Chiesa cattolica si servì del latino come di un
patrimonio proprio ed esclusivo, così che, come ha mostrato in un bel
volume V. Coletti, l'equazione volgare = (potenzialmente) eretico venne
a lungo accredita: non era possibile un insegnamento dottrinale
alternativo a quello della Chiesa cattolica se non in una lingua diversa
dal latino: patrimonio culturale latino e ortodossia cattolica
costituivano un binomio indissolubile (4).
Perché e come il latino divenne una lingua morta? Morì di morte naturale
o fu ucciso? L'una cosa e l'altra, scrive M. Van Uytfange
(5). L'abbandono del latino è sintomo insieme di una crisi e di un
consolidamento: la crisi di un modello culturale che faceva del
Cristianesimo il perno di ogni momento della vita, e il consolidamento
di una unità culturale ormai sufficientemente solida per permettersi di
esprimersi in lingue, la cui struttura mostravano comunque ampiamente un
lungo sforzo di adeguamento ai modelli latini. Nel momento in cui
l'occhio e il cuore sono rivolti non più a Cristo, bensì ai valori
pagani, il latino medievale viene giudicato barbarie: paradossalmente,
lo sforzo degli umanisti di ripristinare lo stile ciceroniano suona come
una condanna a morte del latino: in luogo del fluire incessante e vario
della vita, la rigidità del cadavere: l'uso del latino riformato potrà
proseguire in determinati ambiti scientifici anche per secoli (si
trovano opere di linguistica o matematica scritte in latino ancora nel
secolo XIX), ma si tratta di una lingua ormai convenzionale, il cui
carattere stanco e artificioso appare immediatamente. egli parla e quella
dell'autore classico si chiamino entrambe greco: nonostante la
continuità dell'evoluzione, lingua antica, lingua moderna scritta e
lingua popolare reappresentano ormai realtà fortemente differenziate,
vasi incomunicanti fra loro, se non si ha una preparazione specifica.
(1) L. Bieler, Das Mittellatein als Sprachproblem,
"Lexis" vol. 2 (1949), pag. 98-104.
(2) R. Meister, Latein als Traditionssprache,
in Liber Floridus, Festschrift Paul Lehmann, 1950.
(3) Sulla questione cfr. T. De Mauro, Storia
linguistica dell'Italia unita, Roma-Bari 19842, in
particolare i capitoli primo e secondo.
(4) Cfr. V. Coletti, Parole dal Pulpito,
Casale Monferrato 1986.
(5) M. Van Uytfange, Après les "morts" successives
du latin: quelques réflexions sur son avenir, in Hommages à
Jozef Veremans, Bruxelles 1986, pag. 328-354.
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