La pronunzia del latino (III)
Delineate così le principali caratteristiche della restituta,
si può procedere a un tentativo di giudizio sulla sua utilizzabilità
didattica, anche in confronto con la pronunzia tradizionale. Ci sembra
che vari aspetti debbano essere messi in rilievo.
1. Innanzitutto una pratica corretta della restituta comporta
un impegno tutt’altro che indifferente e approda sempre e comunque a
risultati parziali, lontani dagli intendimenti a cui si mira.
Pronunziare il latino secondo la restistuta significa infatti
mettere in rilievo tutte le vocali lunghe e le brevi. In caso contrario,
si ha semplicemente una pronunzia italiana con consonanti velari, u
consonantiche e poco più, una risciacquatura della pronunzia nazionale
che ha scarso significato. Valuti dunque l’insegnante se, nella scarsità
di tempo che ha a disposizione, valga la pena impegnarsi alla corretta
resa della quantità, alla sottolineatura che la prima i di
infelix e insanus è lunga e quella di incertus e
intentus è breve. Il risultato a cui si perviene anche dopo
questo sforzo defatigante (e a nostro parere superfluo) è comunque
sempre approssimativo, perché la realizzazione dei fonemi può essere
ricostruita con discreta sicurezza, ma quella dei tratti prosodici no:
come abbiamo già visto, non siamo in grado di dire quale tipo di accento
avesse il latino dell’età classica.
2. Se si confrontano fra loro pronunzia tradizionale e restituta, si ha
da una parte la continuazione di una prassi che si rifà alla tradizione
scolastica tardoantica, dall’altra una ricostruzione moderna
scientificamente corretta, ma pur sempre astratta e artificiosa. Non si
dimentichi che la pronunzia del latino in Italia si pone in modo
totalmente diverso rispetto alle altre nazioni europee: la pronunzia
italiana è al termine di una storia che affonda le sue radici nel mondo
tardoantico (la nostra pronunzia potrebbe corrispondere all’incirca alla
pronunzia colta dell’epoca di Boezio, tanto per avere un punto
riferimento), mentre quella degli altri paesi europei (Caesar
pronunziato Sesàr dai francesi, Zésar dai tedeschi,
Sisa dagli inglesi) è priva di senso, perché grosso modo
applica ai classici le norme e le consuetudini della pronunzia moderna.
3. Se l’intendimento è quello di avvicinarsi il più possibile, nella
lettura dei testi, alla situazione antica, rifiutando di leggere
Cicerone e Virgilio in una maniera che avrebbe ripugnato alle loro
orecchie, si parte da una posizione di principio corretta, ma non tale
da risolvere il problema, perché si finirebbe per leggere Cicerone e
Virgilio in una maniera un po’ più vicina a quella da loro usata, ma si
cadrebbe di nuovo nell’anacronismo quando si leggessero testi delle
epoche precedenti o seguenti. In Tacito, ad esempio, au era
letto o, non più au. La parola mulierem era
letta mùlierem da Plauto, mulìerem da Cesare,
muljèrem nell’età tarda (da cui it. mogliera e spagnolo
mujer). Si dovrebbe, a questo punto, leggere ogni autore
secondo la pronunzia del suo tempo: ma questo, come ognuno capisce, è
inattuabile. Dunque la scelta della restituta non può vantare
una sia pure astratta superiorità di rigore metodologico o scientifico:
la restituta non può essere considerata la “vera” pronunzia del
latino, perché si tratta di una modalità di esecuzione che ha limiti
cronologici e sociolinguistici ben definiti e sarebbe un abbaglio
pensare di poterla estendere a tutta la Latinità.
4. Infine, c’è un’ultima considerazione che vorremmo sottolineare.
Finora abbiamo parlato di pronunzia nazionale italiana: dovremmo, più
correttamente, parlare di pronunzia ecclesiastica, perché la nostra
pronunzia tradizionale corrisponde alla pronunzia dell’uso
ecclesiastico, esplicitamente raccomandata da Pio X (a prezzo di
durissime polemiche e contestazioni, soprattutto in Francia) in una
lettera pastorale del 1912. Ciò significa che la pronunzia tradizionale
ha una diffusione ben superiore ai nostri confini, anzi ha un carattere
di universalità, essendo utilizzata non solamente nelle celebrazioni
cattoliche finlandesi o neozelandesi, ma anche in tutto quel gigantesco
repertorio di opere vocali e artistiche che fanno capo alla tradizione
cristiana. Nessuno si sognerebbe di cantare il Magnificat di
Bach con la pronunzia restituta!
In sostanza. Ci sembra giusto e corretto che gli alunni sappiano che il
nostro modo di pronunziare il latino non corrisponde a quello usato da
Cesare ed è giusto che l’insegnante faccia presente le principali
differenze tra le due modalità, magari in qualche caso dando un saggio
di lettura dei testi secondo pronunzie diverse. Ci sembra giusto
ribadire la sostanziale impossibilità di riprodurre in modo adeguato la
pronunzia che si usava nel Foro all’epoca di Cicerone. Abbiamo messo in
rilievo il costo, in termini di impegno didattico e di utilizzazione del
tempo a disposizione, che avrebbe un tentativo di realizzare la
restituta in modo coerente. Abbiamo richiamato le ragioni di carattere
storico (e ideale) che fanno propendere per la pronunzia tradizionale.
Fermo restando che la scelta finale è affidata alla sensibilità del
docente, vorremmo concludere con un’osservazione che a noi sembra
comunque prioritaria. Studiare il latino oggi ha tra le sue motivazioni
fondamentali quella di una ripresa di coscienza della nostra tradizione
culturale e della nostra identità, fondata sull’incontro tra cultura
antica e Cristianesimo (come ci è stato ribadito più volte, in questi
ultimi mesi, anche dalla voce autorevole di Benedetto XVI). Si tratta
quindi di motivazioni saldamente e profondamente culturali. In questa
prospettiva la conoscenza della lingua è strumento indispensabile per
perseguire questa finalità in modo non superficiale e non dilettantesco.
Va da sé che si deve trovare il giusto equilibrio tra acquisizione delle
strutture linguistiche e riflessione sulla cultura e sulla civiltà. Non
ci pare (ma questa è una nostra convinzione personale) che una
sproporzionata insistenza sugli aspetti esteriori aiuti in questa
direzione né il docente né il discente.
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