La pronunzia del latino (II)
Se l’intendimento della pronunzia classica è quello di riprodurre, nei
limiti del possibile, la pronunzia corrente nell’età cesariana, si
dovrebbe tenere conto anche di quelli che i linguisti sono soliti
chiamare “tratti prosodici”. Senza entrare in particolari troppo
tecnici, ci limitiamo a richiamare per il latino il tratto della
quantità e l’accento.
In latino le vocali possono essere pronunziate con una maggiore o minore
durata: la diversa lunghezza della vocale costituisce un tratto
distintivo per cui venit ‘viene’ è diverso da venit
‘venne’, e populus ‘pioppo’ è diverso da populus
‘popolo’; il parlante percepisce la diversa quantità vocalica, e la sua
sensibilità è tale che, come ci racconta Cicerone, l’attore che sulla
scena sbaglia nel pronunziare una lunga o una breve viene fischiato dal
pubblico. Con un processo attuatosi in maniera diversa e in epoca
diversa nelle varie province dell’impero, ma sicuramente iniziato
abbastanza presto, la distinzione quantitativa è stata abbandonata,
sostituita da una diversa organizzazione del sistema vocalico basato
sull’apertura e sul timbro delle vocali: anziché opporre la lunga alla
breve il parlante oppone la vocale chiusa alla vocale aperta, come si
può apprezzare anche dalla situazione italiana: lat. novem dà in
italiano nove (con o aperta), mentre solem dà sole (con o chiusa).
Notiamo per inciso che quanto detto finora riguarda la quantità delle
vocale, non delle sillabe: ai fini metrici a determinare i piedi e i
versi è la quantità delle sillabe, che è in relazione con la quantità
vocalica, ma non coincide con questa: una sillaba con vocale breve e
terminante per consonante può essere considerata lunga se la sillaba
successiva inizia per consonante: in arma virumque cano solamente
l’ultima vocale (e di conseguenza la sillaba in cui essa si trova) è
lunga, ma dal punto di vista metrico vanno considerate lunghe anche le
sillabe ar di arma e rum di virumque.
Per quanto riguarda l’accento la situazione è molto più complessa. Noi
sappiamo dove si collocava l’accento latino in epoca classica: le regole
cosiddette della terzultima e del trisillabismo ci consentono di
stabilire che in divitem l’accento è sulla prima sillaba e in debere
sulla seconda. Sappiamo anche che questa regola non ha validità assoluta
in ogni epoca del latino. Nell’età più antica, anteriormente alla
nascita della letteratura, l’accento cadeva sistematicamente e
invariabilmente sulla prima sillaba della parola. Questo accento aveva
natura espiratoria, vale a dire che la sillaba accentata era distinta
dalla maggiore energia articolatoria con cui la sillaba tonica veniva
realizzata, e questo sforzo determinava anche un’articolazione meno
vigorosa (e spesso meno chiara) delle altre sillabe. È in grazia di
questo accento molto forte che le vocali brevi in interno di parola
cambiano timbro, spesso diventando i (confacio, conteneo
divengono conficio, contineo), o cadono del tutto (audacter
da *audaciter, reppuli da *repepuli, pono
da *posino, ecc.). All’epoca di Plauto l’accento poteva ancora
retrocedere fino alla quartultima sillaba, e si poteva pronunziare
fàcilius, séquimini. Nell’età tarda abbiamo di nuovo un accento
espiratorio: la sua collocazione corrisponde spesso, ma non sempre a
quella del latino classico: p.es. si pronunzia revídet,
pariétem, nonostante che le due vocali siano brevi (da qui in
italiano rivede, parete), sínapi (> it.
senape), benché la a sia lunga. Abbiamo ancora una certa
debolezza del vocalismo interno che tende a cadere (meno spesso in
italiano e rumeno, quasi sempre nelle lingue romanze occidentali),
cosicché p.es. genuculum, diminutivo di genu, diviene
genuclu e poi ginocchio, capulum diviene
caplum e poi cappio, vetulus diviene vetlus,
poi veclus e infine vecchio, e via dicendo. Abbiamo
dunque discrete certezze per quanto riguarda il latino anteriormente
all’epoca classica e posteriormente a questa. Ma all’epoca di Cicerone
qual era veramente la natura dell’accento latino? A questa domanda sono
state date due diverse risposte: secondo gli studiosi della scuola
tedesca l’accento latino classico era espiratorio, come quello
dell’epoca precedente e quello dell’epoca seguente; secondo gli studiosi
della scuola francese (che difendono questa tesi con vigore) l’accento
classico latino era di natura musicale. A questa conclusione essi
arrivano esaminando le poche testimonianze che troviamo in Cicerone (orator
173) e Quintiliano (I 5, 29 ss.), i quali sembrano accennare (ma la cosa
è tutt’altro che chiara!) a elevazioni e abbassamenti della voce nella
pronunzia delle parole e alla presenza di sillabe acute e circonflesse
in latino. In realtà queste affermazioni, peraltro confuse, secondo
molti studiosi hanno poco o nessun valore: i grammatici latini si
sarebbero fatti influenzare dalla tradizione grammaticale greca: poiché
il greco aveva all’epoca un’accentazione basata prevalentemente
sull’intonazione, con la distinzione di sillabe acute e circonflesse
(intonazione ascendente e discnendente), i latini avrebbero
meccanicamente applicato alla loro lingua i principi dell’accentazione
greca (soprattutto in Quintiliano questo fatto appare in modo molto
chiaro), finendo per confondersi e per confonderci le idee. La stessa
parola accentus (da ad + cantus), col suo
riferimento alla melodia, non è altro che la resa letterale in latino
del termine greco prosodía, che sottolinea appunto la stretta affinità
esistente tra parlato e musica nel continuo elevarsi ed abbassarsi della
voce.
Fermo restando che l’approdo a una soluzione del problema è per ora
impossibile, un’ipotesi plausibile, sostenuta da alcuni studiosi (anche
italiani), è che esistessero diverse modalità di accentazione nella Roma
dell’età cesariana. È possibile che nella pronunzia corrente (sermo
vulgaris) l’accento fosse espiratorio, mentre negli ambienti
culturalmente più elevati, col dilagare della moda greca, si affettava
una pronunzia modellata sulle intonazioni del greco. L’unica cosa certa
è l’impossibilità di arrivare a una soluzione soddisfacente della
questione.
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