Prosa latina e lingue europee (III)
Con l’accentuarsi
dell’influsso greco, come si è già detto in un precedente intervento, si
fa più forte la propensione al periodare complesso. Cicerone teorizza in
modo definitivo questo modo di scrivere: si rilegga la parte finale
dell’Orator. Il periodo è un’unità perfetta, in cui si
raggruppano unità più piccole in sé concluse e disposte simmetricamente:
anche nelle unità più piccole si dovrà poi disporre i singoli elementi
nella maniera più appropriata. Il tutto è riassunto all’inizio del
paragrafo 149: Conlocabuntur igitur verba … ut forma ipsa
concinnitasque verborum conficiat orbem suum, aut ut comprehensio
numerose et apte cadat («Le parole saranno disposte in modo tale
che il giro stesso della frase e la simmetria delle parole realizzino la
propria unità o in modo che il periodo abbia un andamento ritmico e
adatto»). Affermatasi saldamente nella scuola, questa propensione può
presentarsi in modo più attenuato, ma mai abbandonata, neppure da quegli
autori che consapevolmente cercano vie espressive diverse (come Seneca o
Apuleio). Anche chi si riallaccia a tradizioni stilistiche differenti da
quella ciceroniana (Sallustio, Tacito) non viene meno a questi principi:
alla ricerca di un ritmo spezzato, esaltando la variazione a norma
stilistica assoluta, Tacito presenta un esempio di prosa che si pone
agli antipodi dello stile ciceroniano, ma nessuno potrebbe neppure
pensare che i suoi periodi siano sciatti o disadorni, e i nessi tra i
vari momenti del pensiero sono sempre chiaramente individuati.
Anche dopo la fine dell’impero romano, quando
la lingua è investita da trasformazioni profonde e nessun settore del
sistema si sottrae a un lavorìo di trasformazione e risistemazione, e
sia la mancanza di un’azione politica e culturale centralizzata sia il
decadere delle scuole pongono le premesse per un più rapido dissolversi
della lingua nelle varietà romanze, il periodare complesso costituisce
comunque il modello di riferimento: di esso si servono gli autori
ecclesiastici e gli scrittori che fanno rivivere e adattano ai loro
tempi la storiografia romana. Si legga l’inizio della Storia dei Franchi
di Gregorio di Tours (VI secolo): Decedente atque immo potius
pereunte ab urbibus Gallicanis liberalium cultura litterarum, cum
nonnullae res gererentur vel rectae vel improbae, ac feretas gentium
desaeviret, regum furor acueretur, eclesiae inpugnarentur ad hereticis,
a catholicis tegerentur, ferveret Christi fides in plurimis, tepisceret
in nonnullis, ipsae quoque eclesiae vel diterentur a devotis vel
nudarentur a perfides, nec repperire possit quisquam peritus dialectica
in arte grammaticus, qui haec aut stile prosaico aut metrico depingeret
versu («Mentre in tutte le città della Gallia decade o piuttosto va
in rovina la cultura letteraria, in un momento in cui si operano imprese
valorose o malvagie, e la ferocia delle genti infuria e si acuisce il
furore dei re, le chiese vengono espugnate dagli eretici, protette dai
cattolici, la fede di Cristo è vigorosa in moltissimi, è tiepida in
alcuni, e le stesse chiese o vengono arricchite dai devoti o spogliate
dagli infedeli, non si potrebbe trovare alcun grammatico esperto
nell’arte dialettica che sappia descrivere in prosa o in poesia questi
avvenimenti»). Gregorio scrive nel suo latino, che è un po’ diverso da
quello classico che ci è familiare, nella fonetica (feretas per
feritas, perfides per perfidis,
tepisceret per tepesceret e così via) e nel lessico,
impacciato nella consecutio, ma mantiene il ricordo dell’antica
tradizione prosastica in questa solenne apertura: il periodo si apre con
un ablativo assoluto e prosegue e con una nutrita serie di cum
narrativi, e il dosarsi di simmetria e asimmetria, di asindeto e
polisindeto, l’uso dei chiasmi e la collocazione delle parole crea alla
fine una compagine ricca di fascino.
L’uso di periodi ampi è meno pronunciato
nelle opere di carattere tecnico, per la loro indole stilisticamente
meno curata e la loro finalità essenzialmente pragmatica. In Petronio
troviamo passaggi come il seguente (Sat. 38): Valde sucosi sunt.
Vides illum qui in imo imus recumbit: hodie sua octingenta possidet. De
nihilo crevit. Modo solebat collo suo ligna portare («Sono pieni di
soldi. Vedi quello che sta straiato nel punto più basso. Oggi ha i suoi
ottocentomila. Si è fatto dal niente. Fino a ieri portava la legna sulla
schiena»). Qui però questo modo disarticolato di giustapporre le
proposizioni una di seguito all’altra discende dalla decisione
dell’autore di imitare il parlato.
Non stupisce che nei più antichi testi
romanzi prevalga la paratassi rispetto all’ipotassi. Questo spostamento
di prospettiva può in parte essere motivato da ragioni linguistiche,
perché la scomparsa della declinazione rende più rigida la collocazione
delle parole, e pertanto meno agevole quei richiami da un punto
all’altro del periodo che favoriscono l’affermarsi di strutture ampie e
complesse. Ma la ragione più profonda sta nel carattere stesso dei
testi, che sono o testi di poesie o testi in stretta relazione col
parlato: per le opere impegnative si usa comunque il latino. Solamente
quando la lingua romanza assume anche il ruolo di lingua di cultura si
pone il problema: e a questo punto l’imitazione dello stile latino
diventa impegno primario degli autori che decidono di utilizzare il
volgare in luogo del latino. Basta leggere una qualsiasi pagina del
Convivio dantesco per vedere quanto il modello latino abbia penetrato in
profondità il testo romanzo. Gli stessi caratteri si rinvengono poi nel
Boccaccio e in sostanza in tutta la tradizione successiva della prosa
elevata. L’evoluzione successiva esula dai nostri scopi. Basti
constatare come anche la nostra tradizione letteraria abbia ribadito
l’efficacia del periodare complesso: ausilio per chi redige il testo, in
quanto obbliga alla sintesi e all’astrazione e impone una precisa
gerarchizzazione logica, e strumento per l’interlocutore, in quanto
riconosce più facilmente il processo mentale che sta alla base del
testo.
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