Prosa latina e lingue europee (II)
A una scrittura caratterizzata da periodi ampi
con prevalenza di subordinate il latino approdò dopo un lungo periodo di
elaborazione, e fu l’influsso della cultura greca ad agire in modo
determinante. Anche in greco peraltro questo modo di scrivere non deve
essere considerato originario. Il periodo complesso è un’innovazione
dell’Atene periclea: le coordinate storiche e culturali hanno in questo
caso strette relazioni con gli eventi linguistici. La prosa complessa
nasce in un periodo in cui la lotta politica è vigorosa e ferve
l’attività dei tribunali: quando è d’obbligo convincere avversari e
interlocutori della superiorità delle proprie posizioni, il periodo
complesso si pone come uno strumento efficace sia per conferire sintesi
alle proprie idee sia per permettere all’interlocutore di seguire con
chiarezza il dipanarsi dei concetti, indicandone le gerarchie e i nessi.
Che si tratti di un’innovazione ateniese si prova facilmente: basta
confrontare una pagine di Demostene o Isocrate con qualche passo di
Omero o di Erodoto, per notare come in questi ultimi autori la
subordinazione abbia uno spazio in genere più modesto. Anche in Roma il
periodo complesso si affermò in modo definitivo quando ferveva in modo
più vivace la lotta politica: sembra quasi che vi sia
un’interconnessione tra il periodare ampio e l’ordinamento democratico:
dovrebbero ricordarsene i politici che vorrebbero ridurre lo spazio
della cultura classica nelle scuole col pretesto che essa non
corrisponde più ai bisogni dei tempi!
Roma perfezionò il modello appreso dai greci con un’aggiunta di grande
importanza: la possibilità di determinare in modo preciso le coordinate
cronologiche delle azioni, sfruttando l’esistenza nel proprio sistema
verbale di una categoria (il tempo) che nel sistema verbale greco ha una
presenza assai più limitata, essendo il sistema medesimo orientato
piuttosto all’espressione dell’aspetto. Un periodo latino descrive con
assoluta precisione sia la collocazione dell’azione fondamentale nel
tempo (cronologia assoluta: presente passato futuro) sia il situarsi
rispetto a questa delle azioni accessorie (cronologia relativa:
contemporaneamente prima dopo). Accanto a ciò, portando a compimento le
potenzialità insite nei modi, il latino è in grado di asserire con la
massima precisione il grado di obiettività con cui ogni affermazione
viene presentata, distinguendo ciò che è certo da ciò che è solo
possibile o eventuale o frutto di un’affermazione altrui (c’è differenza
tra miror quod venisti e miror quod veneris). Da una semplice frase come
la seguente: cum nuntiavissent te Romam venturum esse, omnia paravi,
sappiamo che la venuta dell’interlocutore è successiva all’annunzio che
ne è stato dato, e che questo è a sua volta anteriore rispetto al paravi
che costituisce il nucleo centrale della frase.
La fase cruciale del processo si pone nel periodo che intercorre tra
Plauto e Terenzio: è in quest’epoca, ad esempio, che si diffonde l’uso
del cum narrativo, una costruzione ignota a Plauto e molto amata dagli
autori dell’ultima età repubblicana, tanto da divenire uno dei cardini
del periodare latino. L’ultimo esempio in prosa di un’interrogativa
diretta con l’indicativo si ha nella Rhetorica ad Herennium: il
che significa che solamente in questo momento diventa definitiva la
specializzazione dei modi: una struttura del tipo ignoro quid facis
rappresenta una contraddizione in termini rispetto alla norma che esige
l’uso del congiuntivo per tutto ciò che non è riferito come dato di
fatto.
L’indicazione obbligatoria delle coordinate cronologiche è diventata
oggi patrimonio comune nella sintassi europea ed è sentita come
irrinunciabile. Questo spiega la genesi nei verbi delle lingue
germaniche di forme come ingl. I had seen, ted. ich hatte
gesehen, sved. jag hade sett ‘io avevo visto’: nella fase
più antica di queste lingue esisteva solo una forma semplice, il
preterito, che indicava genericamente l’azione passata. Le grammatiche
storiche dell’inglese documentano quanto sia recente l’affermarsi dei
tipi I have written e I had written: nella fase più
antica della lingua bastava il tipo I wrote per esprimere il senso di
‘scrissi, scrivevo, ho scritto, avevo scritto’. Più in generale, i testi
più antichi scritti in lingue germaniche mostrano quanto sia grande il
tributo che queste lingue devono al modello latino. Il testo più antico,
rappresentato dalla traduzione gotica della Bibbia (IV secolo), è
scarsamente significativo, perché, trattandosi di traduzione da un
originale greco, la necessità di adeguarsi alla sintassi del modello ha
portato il traduttore Wulfila a mettere insieme periodi di una certa
consistenza. Se si osserva la sintassi dei più antichi poemi
eroico-epici nordici (le Saghe e la poesia degli scaldi, IX-X secolo),
gli unici testi ancora immuni da significative influenze dei modelli
classici, si nota invece come la narrazione proceda con periodi brevi,
non collegati fra di loro, e la subordinazione sia pressoché assente.
Nelle tradizioni indeuropee dell’Asia troviamo differenze ancora più
grandi. Chiunque abbia una conoscenza anche rudimentale del sanscrito sa
come in questa lingua per l’espressione di concetti complessi ci si
serva di strategie completamente diverse. Mentre sono poche le
subordinate esplicite, si fa un uso abbondante di assolutivi (forme
verbali invariabili che per la loro natura non sono in grado di
esprimere relazioni di tempo), e ha assunto uno spazio notevole (in
alcuni testi addirittura impressionante) la composizione nominale: nei
composti, talora di numerosi membri, vengono concentrate, ed organizzate
gerarchicamente, espressioni concettuali articolate. Siamo dunque di
fronte a modi diversi di comunicare: quanto la frase classica tende a
precisare in modo incontrovertibile i rapporti tra i vari elementi del
pensiero, altrettanto nella frase sanscrita i rapporti risultano vaghi e
imprecisati, e tocca all’interlocutore determinare e sistemare i nessi
che collegano le idee.
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