Varietà di latino
Nuova Secondaria, 15 marzo 1993, pag. 45
Chi legge un testo di Plauto ha l'impressione
(non scorretta) che la lingua di quest'autore si avvicini all'italiano
più della prosa ciceroniana o tacitiana, nonostante una maggior distanza
di secoli che ci separa da essa: le ragioni di questo risiedono
semplicemente nel fatto che la lingua di Plauto si avvicina maggiormente
al latino parlato (dal quale, non lo si dimentichi, hanno preso le mosse
le lingue romanze), mentre la prosa d'arte tende sempre più a
distanziarsi da questo, fino al raggiungimento, con Cicerone, della sua
massima maturità: varie necessità di ordine espressivo (non ultime le
esigenze dell'oratoria politica e giudiziaria, nel momento della massima
passione politica) portarono, grazie anche a un attento ed accorto
riadattamento della lezione greca, alla creazione di un modello di prosa
che avrebbe avuto un'influenza determinante sulla prosa colta delle
lingue europee attraverso i secoli: caratteristiche precipue del latino
ciceroniano sono il ruolo nettamente predominante della lingua di Roma
(si ricordino le polemiche ciceroniane sull'urbanitas rispetto alla
rusticitas [1]) e una severa selezione nei confronti
degli elementi di provenienza dialettale o straniera, accolti solamente
quando la necessità lo esigeva e altrimenti, se appena possibile,
tradotti con equivalenti latini (tecnica del calco). In ogni modo,
questo determinò un progressivo allontanamento fra la lingua scritta e
la lingua parlata e se, com'è ovvio, non mancarono relazioni e influssi
fra l'una e l'altra varietà, la lingua scritta rimase per secoli
relativamente stabile nella sua fissità, estranea all'evoluzione e ai
cambiamenti che si andavano svolgendo nel latino parlato.
Tra la lingua scritta che si propone fini artistici e la lingua parlata
(o volgare) sta la varietà intermedia della lingua comune, con
l'eventuale sua articolazione in lingue speciali (la lingua giuridica,
la lingua della scienza, la lingua dell'agricoltura e così via),
caratterizzate dalla presenza di termini specifici, intesi correttamente
da una piccola cerchia di specialisti. E anche nel latino parlato si
potranno distinguere diverse varietà: il sermo familiaris (la
conversazione colta), il sermo vulgaris (il latino parlato dalla gente
comune), il sermo plebeius, con l'eventuale ulteriore accentuazione in
senso plebeo del sermo castrensis, la lingua dei militari. Alla varietà
più alta del latino parlato, la cosiddetta lingua dell'uso corrente, è
dedicata la celebre monografia di J.B. Hofmann (Die lateinische
Umgangssprache), che, ad oltre tre quarti di secolo dalla prima
edizione, conserva pressoché intatto il suo valore ed è oggi disponibile
anche in traduzione italiana (2).
L'interazione fra le diverse varietà linguistiche è continua: vuoi per
difetto (iscrizioni ufficiali che denunciano nella scelta di vocaboli o
desinenze la scarsa cultura di chi li ha redatti) vuoi per scelta (le
rifrazioni, per usare il vocabolo di Hofmann, della lingua parlata sulla
lingua scritta: si pensi soltanto alla presenza di sermo castrensis in
Catullo).
Ma quanto sappiamo noi del latino non classico? Il limite più grande
contro cui ci si imbatte nello studio del latino parlato è costituito
dal fatto che tutta la documentazione latina è scritta, e la lingua
scritta, anche là dove per scelta tende a rappresentare in modo diretto
la lingua colloquiale (Petronio, per fare un nome), non sarà mai
riflesso immediato e totale del parlato. Per conoscere il latino parlato
dobbiamo dunque ricorrere a documenti che comportano comunque uno scarto
rispetto ad esso: le nostre fonti sono costituite dagli autori che per
ragioni espressive o di imitazione si accostano alla lingua parlata (ad
esempio Plauto), dalle epigrafi, soprattutto le meno impegnative, dai
grammatici, soprattutto quando condannano forme proprie della lingua
parlata contrapponendole alle forma corretta, dalle continuazioni
romanze, che talora ci rimandano a forme sicuramente esistite nella
lingua parlata, ma non documentate da nessun testo (ad es. it.
alzare, fr. hausser, sp. alzar, che ci obbligano
a ricostruire un lat. volgare *altiare, mai attestato). Né va
dimenticata l'esistenza di varietà locali: il latino certo non era
parlato allo stesso modo a Roma, in Spagna, in Gallia e così via:
Gerolamo ci informa di come "ipsa Latinitas et regione quotidie
mutetur et tempore" (3). In realtà i tentativi di
afferrare nei testi una più o meno marcata coloritura locale hanno dato
scarso esito: tanto la Patavinitas di Livio quanto l'Africitas degli
autori africani sono per noi fantasmi più che realtà afferrabili. In
conclusione, noi siamo in grado di elencare una quantità non
trascurabile di elementi disparati che tuttavia, considerati i limiti
della documentazione, difficilmente si saldano in un sistema coerente,
che permetta uno studio sincronico: un tentativo importante di
ricostruire in modo organico e coerente il latino parlato dell'età
imperiale è quello di G. Bonfante, la cui tesi di fondo è che a
quest'epoca si parlasse una lingua che presentava, soprattutto nella
fonetica e nel lessico, moltissimi dei tratti che oggi ritroviamo in
italiano .
(1) ... neque solum rusticam asperitatem,
sed etiam peregrinam insolentiam fugere discamus (Cic., de
orat., III 42).
(2) La lingua d'uso latina, Bologna, Pàtron 1985.
(3) In Gal. II 3 (PL 26, 357 A).
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