La lingua dell’uso
Nuova Secondaria, 15 gennaio 1996, pag. 62
Con l’espressione “lingua d’uso” si rende
normalmente la parola tedesca Umgangssprache, introdotta dal
letterato e poeta G. A. Bürger nel 1794. Il contenuto esatto del termine
è difficile da precisare ed è variato nel tempo: all’inizio indicava
semplicemente la lingua parlata in opposizione alla lingua scritta, e la
fortuna della parola è proporzionale all’interesse crescente con cui la
linguistica, dopo essersi concentrata quasi esclusivamente sulle lingue
letterarie, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si fa attenta
alla lingua parlata e alla comunicazione orale. In séguito il concetto
di “lingua d’uso” viene ulteriormente segmentato, ed essa si contrappone
non solo alla lingua scritta, ma anche alla lingua popolare meno
elevata. Per restare al latino, con Umgangssprache si fa riferimento al
parlato delle classi colte, il sermo familiaris in quanto diverso dal
latino parlato dal popolo (sermo plebeius).
Per la lingua d’uso latina è fondamentale il
volume di J. B. Hofmann Lateinische Umgangssprache apparso nel
1926 (19503): provano l’interesse del libro, anche a distanza
di decenni, le molte traduzioni, fra cui l’italiana (a cura di L.
Riccotilli, Bologna, Pàtron, 19852). Alla lettura di questo
libro sparisce immediatamente l’impressione (condivisa, ahimè, anche da
qualche docente) di un latino lingua paludata e accademica, e si vede
come esso si piegava con naturalezza ad essere strumento per la
conversazione normale tra persone vive e desiderose di comunicare, né
più né meno di qualunque altra lingua, antica o moderna.
La principale difficoltà dell’indagine sulla
lingua latina dell’uso è rappresentata naturalmente dal fatto che gli
elementi costitutivi del parlato si devono cogliere all’interno di testi
scritti: alcuni di questi (commedie, lettere, ecc.) possono avvicinarsi
al parlato, altri (il Satyricon di Petronio p.es.) si
propongono di rappresentarlo, ma la distanza che separa la parola
scritta dalla parola parlata non è colmabile, e pertanto le nostre
conoscenze sono sempre un po’ precarie. Tra le caratteristiche della
lingua d’uso va segnalata innanzitutto la sua carica affettiva, e di
conseguenza la presenza di interiezioni o interrogazioni (ad es. me
caecum qui haec ante non viderim Cic., Att. X 10, 1), le frequenti
ripetizioni e le ridondanze, la forte spinta verso la frase brachilogica
(ad es. iamne autem ut soles? “sei già [noioso] come al
solito?” Pl., Truc. 695): è notevole la tendenza ad espressioni
estreme, così come in italiano non ci accontentiamo di dire “è bello”,
ma tendiamo a dire “è magnifico” o, nello stile più colloquiale, “è un
mito”: p.es. Cic., Att. IV 17, 5 moriar, si quidquam fieri
potest elegantius o IV 8, 1 nihil quietius, nihil alsius, nihil
amoenius. Per accentuare l’enfasi si usano avverbi come
mirifice o horribiliter, e accanto a multum sta
il colloquiale insanum (estur insanum bene “si mangia
bene da matti”, Pl., Mil. 24). Si usa nihil, nullus, numquam
per il semplice non; i grecismi sono assai più frequenti che
nella lingua scritta.
Altra caratteristica è la tendenza a
scomporre la frase in parti brachilogiche embrionali separate da pause:
per dirla con Hofmann, «la singola frase sottoposta all’azione delle
brusche scosse affettive viene squarciata e atomizzata nelle sue parti»
(p. 249): p.es. cupit credo triumphare Cic., Att. I
20, 5. Il tema della proposizione è collocato all’inizio, con
l’eventuale rinvio in seconda sede della congiunzione o del pronome che
dovrebbe introdurre la subordinata: Cic., Att. XIII 18 vides,
propinquitas quid habeat. Nota Hofmann che in due diverse lettere
ad Attico (XIII 3 e XIII 15) ricorre una frase quasi identica:
Attica mea, obsecro te, quid agit? e quid agit, obsecro te,
Attica nostra? Nel secondo caso si ha la collocazione normale,
mentre nel primo la collocazione delle parole e l’uso di mea
rivela una maggiore carica di affettività. L’asindeto è frequentissimo,
e poco rilievo ha in genere l’ipotassi.
Nella tendenza generale all’economia rientra
l’utilizzazione intensiva di verbi di valore generale come facere,
dare, esse: Cic., Att. I 7, 1 apud matrem
recte est. I pronomi dimostrativi sostituiscono il nome degli
oggetti: in frasi come haec hinc propere amolimini (Pl.,
Most. 391) l’indicazione deve essere accompagnata da una mimica che
il testo scritto è in grado solo di suggerire. Il risparmio coinvolge
spesso elementi che il contesto permette di sottintendere: Cic., Att.
VI 2, 6 In Ciliciam cogitabam “pensavo di andare in Cilicia” e,
più vigoroso, Cic., Att. XIII 40, 1 Itaque nuntiat Brutus,
illum ad bonos viros? sed ubi eos? “e così dice Bruto che quello
vuole rientrare tra i moderati? e dove li troverà?”
L’individuazione dei tratti comuni della
lingua parlata consente anche una valutazione meno approssimativa delle
scelte stilistiche di molti autori, e permette di cogliere
caratteristiche del parlato anche in testi di massimo impegno. Nell’Eneide
(II 670), nella fase concitata che precede la decisione di Enea di
fuggire, il discorso del protagonista termina con le parole Numquam
omnes hodie moriemur inulti: l’uso di numquam per non e
soprattutto di hodie col valore non di avverbio temporale,
bensì di semplice asseverativo prossimo a hercle («non tempus
significat, sed iracundam eloquentiam» nota un commentatore
antico), è tipico della lingua familiare.
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