Il latino dei Vangeli (II)
 

 

 

 

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Il latino dei Vangeli (II)

Nuova Secondaria, 15 giugno 1996, pag. 92 

Un particolare che balza immediatamente agli occhi, nella lettura dei Vangeli, è l’uso molto largo di proposizioni introdotte da quod o quia (talora anche quoniam), laddove nell’uso classico si avrebbero delle infinitive: videns quod sapienter respondisset dixit illi (Mc. 12, 34); scimus quia a Deo venisti (Io. 3, 2); nolite putare quoniam veni solvere legem (Mt. 5, 17). La preferenza per le proposizioni esplicite corrisponde a un’evoluzione che appare sempre più intensa nei testi. Ad es. il tipo scio quod (con l’indicativo o il congiuntivo ), compare con frequenza sempre maggiore a partire da Petronio e nell’età imperiale ha un discreto rilievo anche in testi di prosa impegnata: scio quod nulla communio luci et tenebris sit (Gerol., ep. XI 1); credimus et tenemus et fideliter praedicamus quod pater genuerit Verbum (Agost., de civ. Dei XI 24) .
In sostanza, la Volgata presenta un costrutto che si è già imposto nella lingua dell’uso e sta entrando in modo prepotente nella lingua letteraria. La stessa osservazione può essere estesa a gran parte della sintassi: non vi è, si può dire, costruzione che non si trovi comunque in autori precedenti. Ad esempio l’uso del proibitivo col congiuntivo presente (che coesiste comunque col perfetto: Mc. 10, 19 ne adulteres, ne occidas, ne fureris, ne falsum testimonium dixeris, ne fraudem feceris), pur appartenendo a un registro più colloquiale, ha dietro le spalle una lunga tradizione letteraria. Per contro vengono evitate costruzioni che, pur avendo già attestazioni nella lingua scritta, sono ritenute scorrette o eccessivamente volgari: è il caso dell’infinito preceduto da preposizione, che ricorre in Tertulliano (propter ... videre ac videri) e nella Vetus Latina (Io. 6, 52 dare ad manducare), ma viene eliminato nella Vulgata (dare ad manducandum).
Anche molte scelte lessicali riflettono evoluzioni che si andavano affermando nella lingua dell’epoca: ad es. la presenza di manducare (Io. 6, 58 qui manducat hunc panem) attesta la decadenza di edo. L’uso di crescere, a fronte della quasi completa scomparsa di augere (solamente il composto adaugeo in Lc. 17, 5 adauge nobis fidem), mostra la vitalità del primo rispetto al secondo. Lo stesso vale per quomodo nel senso di ‘come’ (Io. 14, 27 non, quomodo mundus dat, ego do vobis) o di quando nel senso di cum. La presenza di grecismi in numero apparentemente superiore al consueto (angelus, parabola, propheta, synagoga, cathedra, baptizare, ecc.) è un altro tratto che avvicina lo stile dei Vangeli alla lingua parlata, meno condizionata da esigenze puristiche rispetto alla lingua letteraria. Ma in conclusione, per tutti questi aspetti la lingua dei Vangeli non si scosta granché dal latino del suo tempo. Trascuriamo per il momento i problemi, molto complessi, riguardanti i tecnicismi cristiani, ripromettendoci di esaminare in altra circostanza il complesso problema del “latino cristiano”.
Elemento caratteristico è invece la presenza di numerosi semitismi, sia pure mediati attraverso la redazione originale greca. Il presentarsi di brevi periodi introdotti da et, spesso con ordine di parole verbo - soggetto - oggetto - elementi accessori (p.es. Lc. 2, 41 et ibant parentes eius per omnes annos in Hierusalem) denunzia l’influsso della sintassi semitica. Semitismi si colgono nella presenza di prestiti (amen, sabbatum, pascha) o di calchi (ad es. debitum nel senso di ‘peccato’: Mt. 6, 12 dimitte nobis debita nostra). Citiamo ancora alcune fra le particolarità morfosintatiche più vistose: l’uso del positivo invece del comparativo (Mc. 9, 45 bonum est tibi claudum introire in vitam aeternam, quam duos pedes habentem mitti in gehennam); il secondo termine di paragone con ab (Lc. 19, 14 descendit hic iustificatus in domum suam ab illo [‘più di quello’, cioè del fariseo]); in + abl. con valore strumentale (Mt. 4, 4 = Lc. 4, 4 non in pane solo vivet homo); l’uso di factum est seguito da una proposizione coordinata con et (Lc. 5, 17 et factum est in una dierum et ipse sedebat docens), o addirittura per asindeto (Mc. 1, 9 et factum est in diebus illis venit Iesus), costruzione quest’ultima non ammessa dall’uso ebraico, ma introdotta in greco con la versione dei Settanta; i pleonasmi dei verbi di dire che introducono discorsi diretti o indiretti, riflesso di un’analoga costruzione semitica (Lc. 20, 2 aiunt dicentes ad illum); l’uso di participi (o di sostantivi astratti) corradicali del verbo principale, riflesso del cosiddetto infinito assoluto semitico che conferisce enfasi all’espressio-ne (Mt. 13, 14 auditu audietis et non intellegetis, et videntes videbitis et non videbitis); i frequenti scambi dei tempi, non di rado usati con valore sensibilmente diverso da quello usuale. Qualche volta nell’originale greco l’influsso semitico si coglie in misura più cruda che nella versione latina, nella quale si tiene conto maggiormente delle esigenze stilistiche e morfosintattiche della lingua d’arrivo: basti l’esempio di Apoc. 4, 9-10, ove i futuri del greco sono correttamente resi in latino con imperfetti (cum darent ... procidebant).

 

 
 

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