Il latino dei Vangeli (I)
Nuova Secondaria, 15 febbraio 1996, pag. 66
È prassi profondamente radicata nella didattica
del latino quella di proporre tra i primi testi di lettura, non appena
gli allievi sono in grado di seguire un semplice passo di prosa, i
Vangeli. Tale scelta sembra produttiva e condivisibile non solo per
ragioni di ordine linguistico: i Vangeli costituiscono un testo ormai
estraneo all’orizzonte culturale di molti giovani, ed è colpa grave
della scuola italiana quella di non dare spazio, in nessun ordine di
scuola e in nessuna disciplina, a una seria lettura della Bibbia, quasi
che essa non costituisse uno dei pilastri della cultura occidentale e
non fosse essa stessa un testo di altissimo valore letterario, e come se
fosse possibile accostare i documenti delle letterature e delle arti
europee senza conoscerla.
Dal punto di vista linguistico i Vangeli si presentano come un testo
accessibile: specialmente i passi narrativi hanno una sintassi semplice,
e almeno per quanto riguarda la comprensione strettamente letterale non
dànno adito in genere a difficoltà gravi. Diverso il discorso per altri
libri del Nuovo Testamento, che possono presentare difficoltà
concettuali tali da sconsigliarne la lettura ai «tirones». Non sono però
inopportune alcune premesse. In certe antologie traspare l’idea che
questa lettura sia un ripiego, in mancanza di meglio e col rammarico di
non poter ancora accostarsi a testi di latino “vero”. L’osservazione, in
sé legittima, di una diversità fra latino dei Vangeli e latino
ciceroniano non dovrebbe contenere nessuna connotazione negativa: quello
dei Vangeli non è un “brutto latino”, ma un latino che appartiene a un
registro diverso, più prossimo alla lingua popolare e parlata, e che,
sia pure attraverso la mediazione degli originali greci, risente di
influssi semitici. Si potrebbe rovesciare il pregiudizio negativo e dire
che è la prosa dei Vangeli ad essere vicina al latino “vero”, quello
dell’uso vivo, più della prosa d’arte, che col suo ricorso all’ipotassi,
col richiamo a ideali di eleganza e concinnitas, con la sua rigorosa
selezione puristica rappresenta il momento finale di un lungo processo
di elaborazione e un sostanziale allontamento dalla lingua dell’uso. Se
il periodare complesso è creazione originale di Atene e Roma trasmessa
poi alla prosa europea, i Vangeli ci offrono un modello in parte
estraneo rispetto a questa linea, e mostrano come si possano raggiungere
momenti di tensione narrativa e concettuale elevata pur senza rifarsi ai
modelli della prosa d’arte greca o romana.
Sarebbe scorretto accentuare il carattere basso del latino dei Vangeli e
ingenuo addebitare a una presunta scarsa cultura di chi li ha scritti o
tradotti l’appartenenza di questi a un registro linguistico diverso da
quello della prosa d’arte. Certo questo discorso non vale per la
traduzione. Gerolamo, autore colto, in possesso di uno stile elegante e
raffinato, sarebbe stato benissimo capace, se l’avesse voluto, di
adeguare i Vangeli ai canoni della prosa d’arte: se non lo fece, fu per
una scelta precisa. Sarebbe interessante, e sicuramente efficace nel
quadro di un insegnamento linguistico non frettoloso, isti-tuire un
confronto (anche di poche righe) fra la prosa dei Vangeli e la prosa di
altri testi di Gerolamo: la differenza balzerebbe agli occhi. Mentre
quasi tutti i libri del Vecchio Testamento furono ritradotti
direttamente dagli originali (ebraici, aramaici o greci), Gerolamo non
ritenne necessario dare una traduzione nuova dei Vangeli, bensì
sottopose a revisione accurata le versioni circolanti (la cosiddetta
Vetus Latina), eliminando scorrettezze linguistiche e migliorando
l’aspetto formale. L’obiettivo principale di Gerolamo però non era tanto
la revisione stilistica delle versioni, quanto l’assicurare una piena
rispondenza fra traduzione e originale anche attraverso un controllo
critico del testo greco utilizzato: la traduzione della Bibbia doveva
essere precisa e aderente all’originale, ma soprattutto riflettere un
testo corretto, non sfigurato da lezioni inattendibili o secondarie: a
quest’opera impegnativa Gerolamo dedicò più di venti anni, e il suo modo
di procedere (esposto nella lettera a Pammachio, scritta anche per
difendersi dalle critiche che gli erano state rivolte
[1]) è rigoroso.
Poste queste premesse, i Vangeli risultano un testo ideale, che risponde
alle più diverse istanze didattiche. Da una parte abbiamo, come detto,
una prosa semplice e facilmente leggibile, dall’altra la revisione
gerolamiana è garanzia della correttezza e della pulizia della lingua
che abbiamo di fronte. Non è un caso se la versione latina della Bibbia
rivista o rifatta da Gerolamo, pur con le inevitabili imprecisioni o
difetti, è divenuta la Vulgata, che ha eliminato le altre preesistenti
versioni e si è imposta come la versione ufficiale della Chiesa
occidentale. Sulle peculiarità linguistiche dei Vangeli torneremo più
diffusamente in un successivo intervento.
(1) L’ep.
XLIX (Apologeticum ad
Pammachium) è facilmente accessibile nell’edizione antologica delle
lettere di Gerolamo curata da C. Moreschini e con traduzione di R. Palla
(Milano, Rizzoli, BUR, 1989, pp. 264-335).
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