"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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2002-2
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Si direbbe che negli ultimi mesi qualcosa stia cambiando. Un noto uomo politico ha
avviato su Internet un forum che raccoglieva le opinioni dei visitatori circa il
possibile ingresso della Turchia in Europa: un numero sorprendentemente alto di
risposte faceva appello alla nostra identità formata sull’eredità classica e
cristiana che ci definisce come europei, in alcuni casi richiamando il concetto
con una vivacità e una risolutezza che mostrava come l’opinione espressa
nascesse da un radicato convincimento, e non da una semplice affermazione di
principio. Confessiamo di esserne rimasti un po’ stupiti, perché eravamo
abituati, negli ultimi anni, a sentire solamente atti d’accusa nei confronti
della civiltà occidentale, madre di tutte le possibili degenerazioni e
perversioni della storia umana. È la concezione del “politicamente corretto”:
atteggiamento di attenzione e di rispetto nei confronti di tutte le culture
altre, atteggiamento di disprezzo nei confronti della nostra: giusta la prima
parte, assurda la seconda (e purtroppo si affermava la prima non per intima
convinzione, ma semplicemente come pretesto di disimpegno nei confronti della
propria storia e della propria identità, per evitare di mettersi in discussione
e di pensare). Ci era capitato più volte in questi ultimi anni di sentire
magnificare, da parte di illustri studiosi, docenti nelle università italiane (e
in un caso, spiace dirlo, anche nelle università vaticane), la tradizione di
tolleranza dell’islamismo, confrontata con la tradizione di intolleranza o
addirittura di persecuzione propria della cultura occidentale (e della Chiesa
cattolica, l’istituzione nella quale in maniera più autentica e consapevole
persiste il retaggio classico-cristiano). Persino in certi fumetti d’isprazione
cattolica si insiste nel contrapporre le figure intrinsecamente buone degli
indiani d’America, animati sempre da principi di onestà e generosità, a quelle
dei malvagi e avidi uomini bianchi: quasi che il peccato originale fosse
prerogativa di una sola razza! E non ci si rende conto di come sia biecamente
razzista (specialmente da parte di cattolici) un’impostazione del genere! Capaci
di ascoltare le ragioni di tutti (o almeno così si dice, perché in realtà al
fondo di un simile atteggiamento vi è un sostanziale disinteresse e disimpegno
nei confronti di qualsiasi valore), ma incapaci di vedere il positivo (che non è
poco) della nostra cultura. Con un rovesciamento inatteso del dettato
evangelico, la pagliuzza del nostro occhio diventa una trave: ma una trave della
cultura, della civiltà, della società, o di altri enti comunque impersonali, e
dunque si tratta di una constatazione che non sollecita una presa di coscienza
personale: una trave che non tocca la nostra responsabilità di individui si può
facilmente ammetterla: non costa nulla.
Lungi dall’essere un invito alla tolleranza (sia pure parziale) e
all’accoglienza dell’altro, l’ideologia del politicamente corretto (o meglio,
del politicamente disimpegnato, ché tale in realtà finisce per essere) stava per
trasformarsi in una vera e propria religione: si bandiva nelle scuole
dell’obbligo ogni accenno al Natale cristiano, perché questo avrebbe messo a
disagio gli studenti di altre culture e religioni, ormai numerosi, e si imponeva
di credere (non è un’esagerazione: conosciamo scuole in cui letteralmente si
imponeva di credere) a Babbo Natale, figura neutra che da una parte non
costringeva gli scolari di altre culture a misurarsi con nulla (il che li
condanna a una mancata integrazione, a un’impossibilità di dialogo, in sostanza
a una situazione di emarginazione la cui colpa ricade unicamente su chi ha
compiuto la scelta di censurare anziché di far conoscere), dall’altra faceva
indirettamente capire che il Natale cristiano andava trattato al massimo come
una leggenda, una bella fiaba magari anche con particolari toccanti o
edificanti, con un generico appello buonista, ma comunque un racconto privo di
spessore storico e ormai inadatto alle nostre coscienze mature ed emancipate.
In questi ultimi tempi sembra che cominci a spirare un’aria un
po’ diversa. Dagli schermi televisivi, come da organi di stampa certo non
sospetti di atteggiamento clericale (vedi il Corriere della Sera), ci sentiamo
dire che non è la cultura occidentale a perpetrare atti di intolleranza e di
fanatismo, e che in molti paesi del mondo i cristiani sono le vittime, non i
persecutori (si veda il dialogo Mieli-Cardini sul Corriere di gennaio 2003), e
che è grave colpa l’avere chiuso gli occhi in questi anni, accecati da
un’ideologia assolutamente indisposta a prendere atto dell’evidenza dei fatti
(consigliamo a questo proposito la lettura, persino impressionante, del libro di
A. Socci, I nuovi perseguitati,
Casale Monferrato 2002). Evidentemente, si era ormai raggiunto un limite oltre
il quale non era possibile andare. Non è sufficiente stendere un velo opaco
davanti ai fatti per celarli alla vista, perché la verità alla fine lacera il
velo e irrompe davanti agli occhi: come ci insegnavano i Greci, è caratteristica
costitutiva della verità quella di non potere restare nascosta (a-lētheia),
ma di rivelarsi e di rivelare alla fine.
Questo incipiente cambiamento richiama gli insegnanti di lettere
classiche a una grande responsabilità. È compito nostro sottolineare l’esistenza
di una continuità ideale tra cultura classica e cultura occidentale. Abbiamo già
cercato di dire ampiamente, nel nostro lavoro di questi anni, in che senso vada
assunta questa affermazione di principio. Se la nostra cultura è erede diretta
del mondo classico-cristiano, è chiaro che l’appello alla cultura classica non
basta, da sola, a definire la nostra fisionomia, in quanto ne costituisce solo
una parte: l’eredità classica è stata recuperata e rivivificata nel contesto del
messaggio cristiano, e dalla sintesi di queste due linee è nata la nostra
identità, e col Cristianesimo sono entrati a fare parte del nostro bagaglio
culturale anche tanti aspetti della tradizione semitica che il Cristianesimo a
sua volta portava con sé. Posto questo, è chiaro anche che un prudente richiamo
all’alterità del classico è doveroso: il mondo greco-romano costituisce
un’esperienza ben definita nella storia e nel panorama delle culture, ed è
giusto quindi considerare anche quest’aspetto di diversità e di relatività. Ma
sarà anche compito nostro ribadire continuamente che molte idee forti della
nostra tradizione culturale sono nate nell’antichità greco-romana: l’idea della
vita come ricerca, l’idea della storia, l’idea della democrazia, tanto per
citare qualche esempio un po’ a caso (se ne potrebbero citare certamente tanti
altri), sono tutti elementi che definiscono la nostra identità culturale e che
hanno la loro culla nel mondo classico, e pure nel mondo classico è la culla di
una tradizione di letteratura, di arte e di pensiero che null’altro merita se
non considerazione e rispetto (e l’obbligo di conoscerla in modo critico e
consapevole, traendone gli spunti che se ne possono ricavare).
Vorremmo ancora aggiungere un punto su questo argomento, senza
nessuna intenzione né apologetica né retorica: è vero che vi sono stati nella
storia europea momenti negativi, non si possono negare nel lungo corso della
nostra storia episodi di sopraffazione, d’intolleranza, di razzismo, e via
dicendo. Ma sarà utile insistere su due fatti: primo, che appunto di episodi si
tratta (spesso anche descritti in modo esagerato o contraffatto), e non certo
patrimonio esclusivo della nostra storia (anche nelle altre culture esiste la
guerra di conquista, lo schiavismo, la barbarie); secondo, che la nostra cultura
ha al suo interno gli anticorpi per giudicare, e non appena possibile amputare,
tali aberrazioni. Il nazismo è stato certamente una delle grandi tragedie del
Novecento, ed è innegabile che sia nato e cresciuto all’interno del mondo
occidentale, anche se si trattava di un’ideologia che rinnegava in sostanza i
principi su cui la nostra storia e i nostri ideali si reggono (e non sarebbe
male magari ricordare ogni tanto che durante la seconda guerra mondiale i capi
dell’Asse si presentavano come la spada dell’Islam), ma è anche vero che il
giudizio di condanna era chiaro e preciso all’interno stesso del mondo
occidentale, che alla fine ha trovato il modo di abbattere il mostro. Un’altra
grande tragedia del XX secolo è stata costituita dal comunismo, ideologia anche
questa nata all’interno del mondo occidentale (Marx è erede di una certa linea
di interpretazione filosofico-economica tedesca) e anche questa aberrante
rispetto alle concezioni più autentiche della nostra cultura (perché, come bene
ci insegnano gli antichi, un’ideologia totalmente materialista è un corpo
estraneo rispetto al comune modo di pensare e di sentire dell’uomo occidentale),
e anche questa sfaldatasi, sia pure dopo avere provocato decenni di lutti e di
sangue, nel momento in cui le contraddizioni col patrimonio ideale
dell’Occidente si sono fatte acute e laceranti, fino a risultare insostenibili.
Occorre dunque richiamarci a un atteggiamento costruttivo nella
scuola. Per i motivi che abbiamo detto finora, gli insegnanti di materie
classiche, e di materie umanistiche in genere, dovrebbero essere i gioiosi
protagonisti della scuola attuale, senza complessi, giustamente ed
equilibratamente critici di fronte a certe pretese di riforme che riducevano
progressivamente lo spazio alle nostre materie (lo spazio in senso quantitativo,
perché sempre meno tempo veniva loro assegnato, ma soprattutto lo spazio
qualitativo, perché sulle nostre materie, talora tollerate più che valorizzate,
pesava un giudizio di scarsa utilità, di sostanziale improduttività). Un
volonteroso dilettante, assurto al rango di ministro della pubblica istruzione
della Repubblica Italiana (e proprio in quanto volonteroso e pieno di iniziative
apportatore di scompigli e di danni in numero maggiore di quanto fosse
auspicabile) aveva rilasciato anni fa un’intervista in cui definiva la cultura
del liceo classico dannosa e corruttrice (un’intervista rilasciata nel periodo
di Ferragosto, che forse il volonteroso ministro aveva scambiato col primo di
aprile). Oggi un intervento del genere sembra lontano anni luce. Ma occorre
anche dire che, per quanto l’attuale impostazione riformatrice abbia in parte
corretto tante storture e improvvisazioni dei progetti precedenti, preoccupa non
poco il fatto che l’azione dell’attuale ministro, peraltro non incisiva e
innovatrice come si sarebbe sperato all’inizio della legislatura, sia ancora
condizionata da sedicenti esperti che sono pur sempre gli infelici artefici di
decenni di cattive riforme, che hanno abbassato il livello della scuola italiana
in modo pauroso. Per anni la progettualità scolastica è stata demandata a
pedagogisti, sociologi, teorici, tuttologi svariati: tutti potevano in un modo o
nell’altro incidere sulla scuola, salvo le persone più direttamente competenti,
cioè i professori (che anzi venivano tenuti deliberatamente lontani, perché il
loro diretto contatto con la realtà non li metteva in grado di vedere la
situazione in modo sereno e dall’alto, parole quasi testuali che ci furono dette
un giorno di tanti anni fa da un deputato democristiano impegnato nella politica
scolastica). Ci preoccupa vedere come questi personaggi abbiano tuttora
un’influenza (speriamo non determinante) nella formulazione di piani e progetti,
da cui dovrebbero poi scaturire le decisioni dei politici. Molto è cambiato nel
giro di pochi mesi: non si può far finta di nulla, come se uno scossone
dirompente non fosse piombato all’improvviso sulla nostra coscienza un po’
intorpidita. E dunque è compito nostro essere protagonisti nella scuola, fare
sentire la nostra voce, attraverso tutti gli strumenti che il nostro ordinamento
democratico ci consente di utilizzare, con prese di posizione pubbliche, con
appelli, con mozioni, sollecitando le nostre organizzazioni professionali a
farsi interpreti delle nostre proposte, e così via. Dalle colonne del Corriere
della Sera il 31 agosto 2002 E. Galli della Loggia prendeva acutamente posizione
contro un progetto di “istruzione senz’anima” che ancora sembra albergare in
sede ministeriale. Diceva tra l’altro che certi progetti elaborati dal
ministero, come l’idea di inserire tra le materie scolastiche una “introduzione
alla convivenza civile”, rappresentano la pietra tombale dell’idea di cultura
«che storicamente discende dalla grande tradizione dell’Umanesimo occidentale.
Al centro di tale tradizione vi è sempre stata l’idea che il sapere possieda in
quanto tale un’intrinseca capacità di formazione umana e di incivilimento.
L’idea che la conoscenza di una poesia, delle passate gesta di una civiltà, del
movimento dei pianeti o del misterioso rapporto tra i numeri e le sostanze, che
la conoscenza di tutto ciò, lungi dall’esaurire in sé il proprio senso, ne abbia
uno più vero e più alto: la nascita di un individuo per quanto possibile libero
e consapevole, in grado, proprio perché “colto”, “istruito”, di non soggiacere
ciecamente alle passioni proprie e del mondo ma di avere lo sguardo rivolto alla
ricerca della “verità”». Condividiamo pienamente questo appello. Proprio in
questi giorni, un noto attore ha mostrato agli italiani come sia possibile
leggere in televisione Dante (e non un passo qualsiasi, ma un passo del
Paradiso pregnante di significato), incollando davanti allo schermo
televisivo milioni di telespettatori, mostrando come la bellezza e il valore (il
Sublime, per usare un termine familiare) afferrino, come vi sia
naturalmente, più o meno sepolto, in tutti noi un desiderio di “cultura”, cioè
di aprirsi alla contemplazione del bello e del valore. La scuola dovrebbe
valorizzare e promuovere questo desiderio (è il suo compito istituzionale), non
censurarlo. Quante volte ci eravamo sentiti dire in questi ultimi anni che la
lettura di Dante è inattuale, è inadatta alle giovani generazioni, deve essere
sostituita? E quanto Dante si legge oggi, anche nei licei? C’è un’evidenza dei
fatti: Dante appassiona (e lo potremmo ripetere per Omero, per Eschilo, per
Virgilio, per tantissimi altri); speriamo che questa ormai innegabile
constatazione porti a una definitiva rimozione di politiche scolastiche ormai
superate, rilanciando nella scuola una vera passione per l’educazione, che non è
né l’educazione a generiche “tecniche della convivenza” né l’acquisizione di
competenze settoriali utili nello specifico ma inadatte a formare l’individuo,
inadatte a creare una consapevolezza critica di fondo capace di porsi in modo
corretto di fronte all’umano. Siamo forse di fronte all’inizio di qualche novità
interessante. Cerchiamo di essere capaci di afferrare questi germi di novità
positiva e di valorizzarli nel nostro lavoro quotidiano. Consigliamo ai nostri
lettori di rileggere l’articolo di Galli della Loggia (facilmente reperibile nel
sito del Corriere): saremmo anche disponibili a ospitare nel prossimo numero di
Zetesis le riflessioni dei nostri lettori su questo argomento.
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