"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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MONDO GRECO-ROMANO E MONDO CELTICO


di Moreno Morani

La storia dei rapporti fra la cultura greco-romana e le altre culture fu sempre improntata a una sostanziale ambiva­lenza: in alcuni momenti prevale l’affermazione superba della propria superiorità, in alcuni una considerazione ammirata e piena di rispetto per la sapienza delle altre popolazioni, con la sottolineatura dei significativi punti di contatto che spesso legavano elementi profondi della religiosità e del pensiero greco con quelli delle culture barbare. La vicenda controversa e alterna dei contatti fra cultura greco-romana e mondo celtico può essere un esempio di questa duplicità di atteggiamento.Le prime notizie che abbiamo dei Celti non risalgono, sembra, oltre il V sec. a.C., e nel I sec. a.C. la cultura dei Celti cessa di essere una presenza autonoma e originale nell’Europa continentale. Respinta e relegata nelle zone insulari a Nord-Ovest del continente l’eredità celtica rimane però viva per secoli specialmente nel settentrione dell’isola britannica e nel1’Irlanda. Da qui essa, assunta una rinnovata vitalità grazie alla conversione cristiana, è pronta per un nuovo ingresso, sia pure limitato, nel continente europeo: infatti gli odierni Celti di Bretagna non rappresentano la diretta continuazione delle popolazioni sottomesse da Cesare, bensì il risultato di una migrazione, avvenuta circa il V secolo d.C., dalle isole verso la Francia. Oggi la presenza celtica in Europa costituisce un fatto sostanzialmente marginale: le lingue celtiche sono in regresso da diversi decenni, ed anche nei focolai più importanti, come l’Irlanda, il Galles, la Scozia, tendono a recedere di fronte all’implacabile e inevitabile estendersi della penetrazione anglofona: il carattere di arcaicità e di radicale diversità rispetto alle lingue germaniche o romanze circostanti, l’isolamento in cui sono venute a trovarsi, per una serie di ragioni storiche, fa sì che il mantenimento di queste lingue rappresenti nell’Europa occidentale un fenomeno piuttosto anomalo, le cui ragioni non sono sempre disgiunte da motivi di nazionalismo o di orgogliosa affermazione di un’identità etnica (si pensi alle tendenze isolazioniste della Bretagna, per es., o alla persistente rivalità fra Scozia e Inghilterra, con motivi di tensione o di dissidio che affondano le loro radici in secoli di lotte e di contrapposizioni). Da un punto di vista linguistico il celtico si può dividere in due raggruppamenti (1): il celtico continentale (a cui appartengono il gallico e il celtiberico, le lingue celtiche più antiche, ma note in modo molto frammentario e imperfetto, e comunque precocemente morte: il gallico qualche secolo dopo la conquista cesariana); il secondo, celtico insulare, si suddivide a sua volta nel gruppo goidelico, rappresentato soprattutto dall’irlandese e dallo scozzese e nel gruppo britannico, rappresentato soprattutto dal gallese e dal bretone. I parlanti di lingue celtiche sono annoverabili oggi ad alcune decine di migliaia: il conto esatto è difficile, anche perché lo strumento normale di comunicazione e circolazione linguistica per la maggior parte di essi tende sempre più ad essere costituito dall’inglese (o eventualmente dal francese) nonostante il tentativo di salvare almeno i resti di una cultura ricca di fascino e di tradizione col mantenimento della lingua irlandese nelle scuole di questa nazione.

L’area celtica attuale non è altro che l’ultima e marginale sopravvivenza di un’area culturale e linguistica enormemente più vasta, i cui confini, nell’epoca di maggior espansione, andavano dall’Oceano Atlantico fino al corso del Danubio, superandolo anche in alcune epoche, per rag­giungere il territorio dell’Asia minore, ove per diverso tempo si stabili una popolazione celtica che diede vita a un insediamento ricco di storia e spesso citato dagli antichi. Rispetto alla vastità del territorio occupato, le notizie che noi abbiamo dagli storici o dagli eruditi greci e latini sono, almeno per secoli, del tutto frammentarie, sfumate, non esenti da inesattezze o confusioni. La prima notizia sicura risale, si è detto, al V sec. (2). Una possibile menzione dei Celti potrebbe trovarsi in Ecateo di Mileto, ma la cosa risulta oltremodo problematica: infatti Ecateo, in un frammento conservateci da Stefano di Bisanzio, accenna a Massalia (l’odierna Marsiglia), località celtica della Liguria, ed a Nurax, città celtica: è difficile stabili­re se quest’ultima affermazione sia dello stesso Ecateo ovve­ro rappresenti un’integrazione di Stefano nel riportare le parole dell’antico erudito (3). Sicuro è invece l’accenno di Erodoto, che in due punti della sua opera (II 33 e IV 49) parla del fiume Istro, che nasce dalla città (cioè dalla patria) dei Celti. Dopo di allora i riferimenti ai luoghi e alla cultura dei Celti si fanno via via più frequenti: ne troviamo in Platone, Senofonte e Aristotele, fino a sistematiche e organiche trattazioni in autori dell’epoca ellenistica: Eudemo di Rodi, discepolo di Aristotele, dedica ampio spazio ai Celti; Eratostene il giovane, nel II sec. a.C., scrive l’opera più ampia sui Celti coi suoi 33 libri di Galatica; ampio spazio ai Celti dedica Posidonio nel XXIII libro delle Storie (ca. 90-60 a.C.) (4). Si tratta di testi tutti noti frammentariamente: possiamo raccoglierne qualche eco nel secondo libro di Polibio (che descrive brevemente i primi incontri e scontri fra Roma e i Galli) (5); in Cesare (che però nel sesto libro del De Bello Gallico può offrirci notizie raccolte di prima mano) (6); in Livio, Diodoro Siculo, che si rifanno tutti a Posidonio. Ma tutti riferiscono di una civiltà gallica ormai in aperta fase di recessione: era stato superato da alcuni secoli il momento del massimo espansionismo celtico, quando anche in Italia si era fatto sentire il peso della conquista gallica. Superate le Alpi (al tempo di Tarquinio Prisco, se si accoglie la testimonianza di Livio), i Galli avevano invaso la pianura padana: qui avevano costretto le popolazioni preesistenti, e in particolare gli Etruschi, a un rapido ripiegamento, e in séguito avevano ulteriormente esteso la loro presenza dilagando fino all’Italia centrale e al mare Adriatico; in una di queste loro calate, che spesso avevano il fine non tanto di una stabile conquista del territorio quanto di una scorre­ria a scopo di rapina, essi erano giunti fino a Roma, che avevano poi abbandonato rapidamente, una volta conclusa con successo la loro scorribanda di spoliazione e saccheggio.

A lungo la collocazione settentrionale dei Celti rispetto ai grandi centri della cultura greca aveva favorito la confusione fra Celti e Iperborei. Quanto al nome, il frequente disinteresse per la precisa definizione etno-linguistica delle popolazioni straniere fa sì che i nomi di Celti, Galli e Galati si avvicendino senza un criterio ben individuabile in molti casi. Il termine di Galati, benché prevalentemente riservato a quelle tribù celtiche che si stanziarono in Asia minore presso il fiume Halys, in quel territorio che più tardi venne anche chiamato Gallograecia (7), è spesso impiegato par designare genericamente tutte le popolazioni celtiche, compresa quella stabilitasi nell’estremità occidentale dall’Europa, cioè nella Gallia storica e nella penisola iberica. I due nomi di Celti e Galati sono scambiati e usati indifferentemente da Polibio. Il primo accenno storico (non solo geografico quindi) a fatti e imprese compiute da Celti e a un contatto con la cultura greca non risale oltre il 279 a.C., quando i Gala­ti, in una delle loro abituali scorrerie, minacciano il tempio di Apollo a Delfi. La prima menzione dei druidi, segno di una conoscenza meno generica e approssimativa della cultura celtica, si trova in Sozione e Antistene nel Magico, e risale quindi a un periodo che si può comprendere entro il 200-170 a.C. (8).

Di questi autori noi non possediamo opere complete, ma solamente accenni e frammenti, datici soprattutto da Diogene Laerzio. E’ possibile che l’atteggiamento di apertura nei confronti della civiltà celtica e l’idea che i druidi siano da considerare fra i predecessori anellenici del pensiero greco sia da far risalire, come è stato recentemente sostenuto, ad Aristotele; una conferma di questa tesi è però oltremodo difficile (9). La critica riporta generalmente a Posidonio il primo approccio benevolo nei confronti della cultura celtica: fu lui infatti a notare le connessioni tra pitagorismo e druidismo (10).

Purtroppo tutta la nostra conoscenza sulla civiltà celtica è mediata attraverso la cultura greco-latina: i Celti non scrissero nulla, e il patrimonio di conoscenze di cui era­no depositari i druidi fu tramandato per secoli esclusiva­mente per via orale. Tracce di tradizioni diverse da quel­le attingibili dagli scrittori greco-latini si possono trovare eventualmente in alcune tarde manifestazioni soprat­tutto irlandesi. La vicende dell’invasione di Roma, ad esempio, sono descritte in una prospettiva celtica nella Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth (1135-36), nella quale le notizie attinte da fonti antiche sono mescolate a notizie tratte da fonti locali, sulla cui validità gli studiosi moderni sono piuttosto incerti: nell’insieme del materiale si notano certamente vistose invenzioni, frutto della fantasia dell’autore, mosso sovente anche da considerazioni nazionalistiche: è infatti suo intento quello di riandare agli inizi della nazione bretone e del suo stanziamento in Albione, risalente a Bruto, nipote di Enea, eroe eponimo della gente bretone (11).

Ulteriori informazioni sono da reperire o attraverso l’archeologia o attraverso lo studio della toponomastica, che ci aiuta a scoprire nomi di località celtiche nella Germania settentrionale, nell’Olanda, nel Belgio, in Austria, oltreché, naturalmente, in Francia e in Italia Settentrionale(12). Ma le notizie fornite dall’archeologia o dalla toponomastica sono ovviamente più scarne e difficili da interpretare, rispetto a quelle fornite dagli scrittori. Si osservi che in epoca cesariana nella Germania non erano stanziate popolazioni celtiche, bensì germaniche: ciò avvalora l’affermazione di Cesare, secondo cui nei tempi più remoti i Galli erano superiori per valore ai Germani ed abitavano nel territorio oltre il Reno, dal quale furono cacciati in séguito al decadimento del loro valore guerriero, parzialmente dovuto alla vicinanza della cultu­ra romana coi riflessi negativi che ha un tenore di vita più raffinato rispetto al mantenimento della virtù guerriera (13).

Come vedevano dunque i Greci e i Romani le popolazioni celtiche e la loro cultura? Già si è accennato alla presenza di un atteggiamento favorevole in alcune manifestazioni del pensiero greco, e più di una volta scrittori o filosofi greci notano la coincidenza fra l’insegnamento pitagorico e la dottrina professata dai druidi per ciò che concerne la profonda religiosità e la teoria della sopravvivenza dell’anima, tanto da chiedersi se sia stato Pitagora maestro dei druidi ovvero se furono questi a influenzare il suo pensiero (14). Ovviamente un contatto diretto fra Pitagora e i druidi è da escludere: è piuttosto probabile che nell’uno e negli altri si abbia la continuazione di antiche dottrine, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. D’altra parte in molti autori non si nasconde una netta riprovazione per la ferocia e la bellicosità di queste popolazioni, e soprattutto la pratica dei sacrifici umani attira in modo particolare il disprezzo greco (15). Ma la diversità di atteggiamento e l’aver considerato i druidi, così come in oriente i magi persiani, fra i predecessori della saggezza greca, rivela l’esistenza di una duplice linea di pensiero, adombrata peraltro anche da diversi miti, per cui accanto all’orgogliosa affermazione della propria identità culturale sta anche una lontana intuizione dell’unità originaria del genere umano.

La posizione romana è più complessa. Se i Greci ebbero coi Celti dei rapporti piuttosto generici, Roma subì in maniera clamorosa il peso della bellicosità gallica, e anzi il primo impatto fra Roma e i Galli fu proprio uno scontro guerriero di terribile durezza, da cui l’orgoglio e le armi romane uscirono non solo sconfitti, ma anche umiliati. Furono i Galli l’unica popolazione che poté vantarsi di aver invaso l’urbe, e il giorno della battaglia dell’Allia (16) venne ricordato per secoli come momento di lutto e di disfatta. Livio nel libro quinto tratteggia con toni drammatici tutte queste vicende (17): il terrore che i Galli incutevano coi loro clamori di guerra e i canti pieni di ululati e dissonanze, il loro aspetto inaudito o addirittu­ra disumano, il loro vagare attorno alle mura della città in atteggiamento minaccioso, i loro assalti sostenuti più dalla ferocia che da un piano di guerra. Le altre notizie, Papirio, le oche, l’arrivo di CamiIlo e così via, furono probabilmente ricamate dalla tradizione per rendere meno avvilente il racconto della sconfitta, tanto più che la tradizione stessa era costretta ad ammettere che quello dell’Allia più che un combattimento fu una fuga disordinata, al punto da impressionare gli stessi Galli per la rapidità con cui il famoso esercito romano si era dissolto verso una ritirata vergognosa.

Eppure queste formae hominum inusitatae a cui accenna Livio erano probabilmente assai meno sconosciute ai Latini di quanto gli storici antichi fossero propensi a credere. La documentazione linguistica tende piuttosto ad accreditare l’ipotesi di antiche e importanti relazioni fra Celti e Latini. Senza rispolverare l’ipotesi, ormai definitivamente superata, dell’italo-celtico comune, è pur vero che nu­merose e significative isoglosse accomunano le lingue celtiche e molte lingue dell’Italia antica (18): basti pensa­re al genitivo singolare in dei temi in -o- (lat. lup-ī, gallico Segomari, irl. [iscriz. ogamiche] maqi ‘del figlio’) rispetto a -osyo, -oso, -eso delle altre lingue (ant. ind. sutasya ‘del figlio’, arm. mardoy ‘dell’uomo’, gr. omer. lýkoio, tutti e tre da *-osyo, ant. alto tedesco tages ‘del giorno’ da *-eso, ecc.), o alla formazione dei comparativi in -somo (lat. proximus, osco nessimas e ant. irland. nessam ‘prossime’), alle formazioni di antichi congiuntivi in -a-, formati direttamente sulla radice (fuam, venam, dicam, osco fakiiad, ant. irl. -bera ‘porti’ ecc.), alla corrispondenza precisa di paradigmi verbali (lat. cano, cecini: irl. canim, cechan), alla presenza di un nucleo di parole comuni esclusivamente a questa e nessun’altra area linguistica, tra cui termini significativi (lat. pectus ~ irl. ucht; lat. terra ~ irl. tir; lat. saeculum ~ gallese hoedl; lat. loquor ~ irl. -tluchur e moltissimi altri), nomi propri (lat. Crispus ~ gallico Crixos) e particelle (lat. de, cum, sine hanno equivalenti più o meno uguali nell’irl. di, com, sain). Altri elementi comuni a latino (o lingue italiche) e celtico possono essere dovuti alla comune con­servazione di fatti antichi, facilitata dalla posizione marginale in cui queste lingue ai sono venute a trovare rispetto agli stanziamenti storici degli Indeuropei: su alcuni termini relativi alle istituzioni e alle organizzazioni sociali aveva richiamato l’attenzione già agli inizi del secolo un latinista e celtista francese, il Vendryes (19), sottolineando come per alcuni termini relativi alla sfera semantica già ricordata si abbiano sopravvivenze solamente in ambito italico e celtico e, all’estremità orientale del territorio indeuropeo, in indo-iranico o eventualmente in altre lingue particolarmente conservative come l’ittito. Un esempio molto noto e semplice può essere co­stituito dalla parola per ‘re’; 1’indeuropeo *reg- sopravvi­ve nell’ant. Ind. raja, nel lat. rex e nel celtico (irl. ri, gen. rig; gallico -rix conservato da alcuni nomi propri come Orgeto-rix, Vercingeto-rix, ecc.). Anche in alcuni fatti non meramente linguistici si notano analoghe conservazioni: chi, come il Dumézil (20), ha studiato con particolare interesse le eredità indeuropee a Roma, ha potuto notare, ad esempio, come solamente a Roma, in India e nel mondo celtico sia proseguita quell’antica usanza per cui il capo civile della popolazione avesse al suo fianco un sacerdote personale, il purohita indiano, il flamen dell’età regia, il druido privato del Celti (21).

Ma di tutti questi antichi collegamenti a Roma non si conservò neppure più il ricordo in epoca storica. Se il mantenimento di antiche memorie fu agevolato in Grecia da una mitologia ricca di temi e feconda, a Roma questo strumento mancò completamente. Eppure, anche se i primi contatti furono di scontro piuttosto che d’incontro, Roma dai Celti qualcosa dovette pur imparare. Anche di questo è la linguistica storica a fornire la prova. Benché limitati ad alcuni settori ben precisi del sistema lessicale, imprestiti gallici sono presenti in numero discreto nella lingua latina. Particolarmente apprezzata dovette essere la maestria celtica nella costruzione dei carri, dal momento che quasi tutti i termini tecnici per designarli sono di provenienza celtica; petorritum, un carro a quattro ruote (petor- è l’equivalente del lat. quattuor), carpentum, una vettura a due ruote usata in occasioni solenni, raeda, la carrozza a quattro ruote per viaggiare con la famiglia e i bagagli, benna, il carro di vimini, essedum, un carro da guerra, covinnum, un carro falcato, cisium, un carro leggero a due ruote. Nel lessico militare troviamo i nomi di armi gaesum, lancea, panna, forse caterva. Nomi di vesti di origine celtica sono birrus, una casacca con cappuccio, bracae, sagus (da cui il fr. saie e l’it. saio), forse camisia. Ad altri campi semantici si riferiscono alauda, betulla, bulga, ambactus (da cui il fr. ambassade, l’it. ambasciata ecc.). Dalla recezione di questi termini risulta chiaro che que­sti Galli feroci e bellicosi erano però più avanti dei La­tini almeno per alcune tecniche e che i Latini riconoscevano implicitamente questa superiorità.

La latinizzazione della Gallia, iniziata nel III-II sec. con l’assunzione della Gallia Cisalpina e della Gallia Narbonense come provincia, procedette a grandi passi verso la metà del I sec. a.C., quando Cesare portò a compimento la conquista del territorio gallico. A partire dal 51 a.C. abbiamo solamente delle sollevazioni di carattere locale, che vengono soffocate con rapidità e represse spesso con atteggiamento molto severo, se le circostanze esigevano un comportamento esemplare da parte romana. La ribellione dei Cadurci e di altre popolazioni galliche guidata da Drappete e da Lucterio ha un esito spaventoso: Cesare, al fine di dare un esempio, concede salva la vita ai ribelli, ma fa tagliare loro le mani (22).

Nonostante secoli di lotta e di scontro l’integrazione romano-gallica è piuttosto rapida, e la Gallia non pare offrire resistenza al sempre più profondo processo di assimilazione culturale iniziato subito dopo la conquista (23). Roma riorganizza la vita amministrativa del paese e pone alla testa delle città e delle popolazioni uomini fidati. Viene sollecitato, con l’attribuzione di onori a dignità, l’accoglimento dalla presenza romana, e Roma opera in modo cha il processo di pacificazione e latinizzazione, anziché imposto dall’esterno e forzato, sembri corrispondere a esigenze di crescita culturale delle popolazioni locali. Roma dà addirittura l’impressione di favorire certi sentimenti nazionalistici fortemente radicati e di valorizzare l’identità etnica e culturale delle genti sottomesse: che in una certa misura un processo di pacificazione, sia pure sotto guida straniera, fosse ben accetto alle genti galliche è anche verosimile, se si ricorda il grado di conflittualità continua e d’insicurezza esistente tra la diverse tribù e il pericolo originato da questa divisione di una intromissione germanica, che avrebbe avuto conseguenze ben più pe­santi di quella romana.

Nel 43 a.C. viene fondata Lugdunum, in una posiziona strategica dal punto di vista commerciale: Roma vuol esprimere la sua simpatia par le tradizioni locali anche per mezzo del nome celtico dato alla nuova città. Lug- è il nome di una divinità locale, mentre -dunum ‘città, castello (propr. recinzione)’ è un elemento molto comune in nomi di locali­tà ed è un termine che poi passò anche nelle lingue germaniche, ove diede vita all’ingl. town e al ted. Zaun (l’equivalente indigeno germanico è rappresentato dall’ingl. down ‘collina, duna’). In Lugdunum fu poi innalzata un’ara colla semplice dedica Augusto et Romae: qui viene cele­brata ogni anno il 1° giorno di agosto una festa pangallica. Iniziatore della cerimonia fu Druso, cha insieme ad Agrippa, genero d’Augusto, fu il primo ad occuparsi della riorganizzazione amministrativa della Gallia. La prima celebrazione fu presieduta da un eduo di nome C. Iulius Vercondaridubnus: la forma stessa del nome mostra quanto già, a pochi anni dalla conquista cesariana, fosse profonda la latinizzazione gallica. Le iscrizioni del resto ci fanno conoscere numerosissimi altri esempi del genere: i figli e i nipoti di un personaggio di nome Cainus Iulius Eporedorix si chiamavano C. Iulius Magnus,  Lucius I. Calenus e C. I. Proculus, ove dell’ascendenza celtica non v’è più neppure il ricordo, essendo stato abbandonato anche il cognomen indigeno.

Per mostrare la propria benevolenza verso i vinti e per attrarli a sé, Roma concede con larghezza la cittadinanza. Dopo aver ottenuto la civitas sine suffragio, i Galli ottengono anche di poter aspirare alla dignità di senatori e consoli grazie a un provvedimento di Claudio (48 d.C.), la cui simpatia per i Galli era accresciuta dall’essere egli stesso nativo di Lione. Copia dal discorso con cui l’imperatore aveva proclamato in senato questo provvedimento venne affissa (in latino!) all’altare di Lione.

Almeno all’inizio la cultura celtica convive con quella romana. Le numerose città sorte in quegli anni recano traccia di questa coesistenza nella mescolanza di elementi latini e celtici: si veda Augusto-magus, Augusto-nemetum, Augusto-ritum, Augusto-bona, Augusto-dunum, ecc. Nel 10 a.C. viene fondata ad Autun una scuola destinata ai figli della nobiltà celtica. Le scuole druidiche non vengono abolite, ma si svuotano progressivamente, mentre quella di Autun diviene un polo di attrazione sempre più frequentato. La religione celtica sopravvive, sia pure amputata di quegli elementi che più fortemente costituivano un contrasto con gli ordinamenti giuridici romani: un decreto di Tiberio ordinava la cessazione dei sacrifici umani. Augusto fa edificare un tempio alla divinità locale Circius, e nel II sec. abbiamo anche una forte reviviscenza della religione locale. Ma poco per volta prevalgono le divinità romane. Dal punto di vista organizzativo l’opera di Roma è intensa: a fronte d’imposizioni tributarie nel complesso non esorbitanti (le città galliche erano state divise in stipendiariae, liberae et immunes, liberae et foederatae), viene riorganizzata, con la maestria di cui i Romani avevano dato prova in ogni angolo d’Europa, la rete stradale; l’agricoltu­ra raggiunge livelli prima sconosciuti; il tenore di vita si può ritenere cresciuto in ogni zona, e il paragone con la situazione esistente prima della conquista è sotto ogni aspetto favorevole all’epoca imperiale. A chi si mostra critico severo dell’opera di omologazione culturale e amministrativa compiuta dai Romani basterà rileggere un passo del Mommsen, all’inizio del volume sulla storia delle province imperiali: “La pace e la prosperità di molte nazioni durarono di più e furono meglio tutelate (da Roma) che non sotto il protettorato di qualsiasi altra grande potenza. Nelle città rurali dell’Africa, nelle fattorie dei vignaioli della Mosella, nelle valli della Licia e sul litorale deserto della Siria, ecco dove è da cercare l’opera dell’impero e là essa si ritrova. Ancor oggi esistono regioni dell’oriente e anche dell’occidente, per le quali l’epoca imperiale costituì un grado di buon governo, di per sé stesso non altissimo, ma che non venne mai uguagliato. Se infatti l’angelo del Signore volesse fare un bilancio, e vedere se i costumi e la sorte dei popoli in generale dopo quell’epoca abbiano progredito oppure addirittura regredi­to, e molto dubbio se il giudizio ci sarebbe favorevole” (24).

Eppure, nonostante l’apparente mantenimento delle tradizioni indigene, la sorte della cultura e della lingua gallica era segnata. Precisare quando si sia cessato di parlare o addirittura di capire il gallico è opera ardua: ma l’ipotesi di Hubschmied che nel V sec. d.C. vi fossero ancora popolazioni gallofone nelle valli alpine della Svizzera è assai difficile da sostenere (25). Il bilinguismo latino-gallico dovette durare fin verso il IV sec. L’uso del latino, riservato inizialmente alle classi più elevate e alla nobil­tà, si estese progressivamente anche ai ceti più bassi, fino a soppiantare del tutto la lingua nazionale. Ma la vitalità dell’elemento celtico è ravvisabile ancor oggi nella presenza di numerosissimi fatti di sostrato nelle lingue romanze della Gallia e nei dialetti dell’Italia settentrionale, nonché, in misura minore, nelle lingue della penisola iberica e forse nel ladino (26). Una conseguenza dell’uso del latino in bocca straniera potrebbe essere la presenza delle vocali intermedie, e segnatamente di ü da lat. -u; quest’evoluzione avvenne anche nelle altre lingue celtiche, come dimostra l’esito cimrico rhin di un più antico *run (irl. run ‘segreto’) o 1’imprestito bretone dir ‘acciaio’ da lat. durus. Un altro fatto di origine celtica può esse­re la palatalizzazione del nesso -ct- che dà luogo (almeno inizialmente) a -jt-; di fronte al lat. noctem troviamo in irl. noch e in cimrico -noeth: nelle lingue romanze della Gallia troviamo un’evoluzione analoga nel franc. nuit, cat. nit, prov. noit (inoltre port. noite, piemont. noit, ecc.). Di origine celtica può essere la numerazione per ventine, rimasta nel francese moderno in ‘ottanta’ (quatre-vingts), ma più estesa nell’ant. fr. (treis-veinz ‘sessanta’, sis-veinz ‘centoventi’ ecc.). Ma è nel lessico che più fortemente si percepisce l’impronta celtica: non solo in importanti elementi di toponomastica come il suffisso -acus (rimasto come -ac nel Sud della Francia, come -ai, -i, -y nel Nord: si vedano le coppie Aurillac ~ Orly, Cadillac ~ Chailly), ma anche termini rela­tivi a ogni settore semantico: carrum (che sostituisce il lat. currus) col suo derivato carruca, brisare (già in uno scolio a Persio) donde fr. briser, crudus ‘duro’ (milan. kroi e ant. ital. croio), bertiare donde il fr. bercer,  banno ‘corno di caccia’ (provenz. ban, catal. banya), brucus (da più antico *vroico, irl. froich) donde prov. bruc, franc. bruyère, ital. brughiera, pettia (it. pezza), gabalos (fr. javelot e dal franc. l’it. giavellotto), fruta (cfr. cimrico ffrwd) ‘cascata’ donde l’it. settentr. fruva, frua e simili.

Questa serie di accenni, questa rapida disamina di fatti spesso problematici e meritevoli d’indagine più approfondita, può essere utile per evitare certe drastiche semplifi­cazioni che ancor oggi talora si sentono. Le vicende culturali dell’Europa antica mostrano una notevole complessità e gli schemi prefabbricati, ripetuti in modo acritico e senza un affronto alieno da preconcetti delle fonti antiche, rischiano di alterare in modo irrimediabile il nostro giudizio su vicende piene di fascino e di un’inattesa e sorprendente articolazione nel dipanarsi degli eventi e delle relazioni interculturali.

 

NOTE

Abbiamo ritenuto opportuno dare alle annotazioni e alle indicazioni bibliografiche un carattere di semplicità e di sommarietà, proponendo la lettura di opere sufficientemen­te accessibili e, se appena possibile, in italiano. Il lettore che lo desiderasse potrà poi trovare in queste le necessarie indicazioni per ulteriori approfondimenti.

(1) Una grammatica comparata delle lingue celtiche è quella di H. Levis-H. Pedersen, A Concise Comparative Celtic Grammar, Gottinga 19612. Per il gallico si può ricorrere a G. Dottin, La langue gauloise, Parigi 1920.

(2) Un buon manualetto, per una prima rapida informazione sui Celti, è quello di V. Kruta, Les Celtes, Parigi (Collezione Que sais-je?) 1983/3. Un’informazione di carattere generale è anche quella di A. Ross, Everyday Life of the Pagan Celts, London 1970. Si potrà naturalmente ricorrere anche ai soliti grandi manuali e repertori enciclopedici. Ricca di dati e d’informazione è la voce Kelten del Kleine Pauly (in appendice, vol. V, coll. 1612 e ss.).

(3) La stessa storia di Stefano Bizantino non ci è perve­nuta nel testo originale, ma nel riassunto dell’epitomatore Ermolao. In altri luoghi ove parla degli Iperborei (ad es. fr. 7 Jacoby) Ecateo si riferisce in realtà ai Celti. Non è certa l’identificazione della città di Nurax.

(4) Sull’atteggiamento “filobarbarico” di Posidonio cfr. M. Truscelli, I Keltikà di Posidonio e il loro influsso sulla posteriore etnografia, “Rendiconti Lincei” 1935, pag. 609-730.   

(5) Il II libro di Polibio contiene un’ampia descrizione dell’Italia e della Gallia Cisalpina (II 17 e ss.). Altre notizie sulla Gallia Transalpina dovevano essere contenute nel libro XXXIV, che però ci è pervenuto frammentariamente.

(6) De Bello Gallico VI 11 e ss.. Sulle differenze tra Galli e Germani ibid. 21-24.

(7) Tale denominazione si trova ad es. in Livio XXXVII 8, Strabone XII 566 ecc. Sull’argomento cfr. F. Stahelin, Geschichte der kleinasiatischen Galater, 19072 . Una breve storia nel Kleine Pauly, II col. 666 e ss.

(8) Sozione di Alessandria, peripatetico vissuto nel II sec. a.C., scrisse 13 libri di Successioni dei filosofi. La sua opinione è riferita da Diogene Laerzio I 1: “L’attività filosofica alcuni dicono che abbia avuto inizio dai barbari; vi furono infatti presso i Persiani i Magi, presso i Babilonesi e gli Assiri i Caldei, e i Gimnosofisti presso gli Indiani, e presso i Celti e i Galati quelli chiamati Druidi e Adoratori degli dèi, come dice Aristotele nel Magico e Sozione nel libro XXIII della Successione” (l’indicazione li­bro XXIII è certo errata, in quanto, come detto pri­ma, l’opera di quest’autore comprendeva solamente 13 libri). Quanto al Magico, è incerto che lo si debba attribuire ad Aristotele (cfr. fr. 35 Rose per il passo qui citato); è più probabile, stando alle indicazioni della Suda, che autore di esso sia stato Antistene di Rodi, studioso di storia della filosofia press’a poco contemporaneo di Polibio, che ne fa cenno.

(9) Su tutta questa problematica cfr. in particolare G. Zecchini, I Druidi e l’opposizione dei Celti a Roma, Milano 1984, pag.11e ss.

(10) Cfr. l’ampia discussione in Zecchini, op. cit., pag. 12-13. L’idea che Pitagora avesse ascoltato gl’inse­gnamenti druidici fu espressa da Alessandro Poliistore, in un trattato Sui Simboli pitagorici: ce lo fa sapere Clemente Alessandrino (Strom. I 70. 1 = Alex. Polyhist. fr. 94 Jacoby): “Alessandro ... riferisce che Pitagora ... ascoltò l’insegnamento dei druidi e dei brahmani”.

(11) Goffredo di Monmouth, scrittore latino del sec. XII, vissuto a lungo a Oxford e poi consacrato vescovo di Saint Asaph, morto dopo il 1153.

(12)  Sui toponimi di origine celtica si può utilmente leggere il classico volume di A. Dauzat, Les noms de lieux, Paris 19575 e successive ristampe. I toponimi celtici in Francia comprendono nomi composti, derivati e (più raramente) nomi semplici. Alcuni elementi (p.es. dunum ‘città’, duros ‘fortezza’, ritus ‘guado, passaggio’, magos ‘foro’, nemeton ‘tempio’, bona ‘fondazione’, ecc.) compaiono con frequenza nei composti. Mettendo a confronto i composti con duros e le formazioni col suffisso -ialo, che in origine valeva ‘spazio aperto’ e che progressivamente si desemantizza fibno a divenire un semplice suffisso  (Argentoialos > Argenteuil; Eburoialos > Ebreuil; Lemoialos > Limeil, Limeuil, Liméjouls; Maroialos > Mareuil, Mareil, ecc.), si può pervenire ad alcune conclusioni interessanti: il carattere celtico dei composti in -duros è nettamente percepito, e questo ha determinato la loro caducità: l'area di questi toponimi si sposta progressivamente da Est verso Ovest, perché la pressione germanica a oriente porta a un crescente arretramento degli insediamenti celtici; per contro rimane vitale l'area di diffusione di -ialos, il cui centro principale si colloca nella regione di Lutezia. L'esistenz<a di toponimi celtici con -g- conservata nella zona del Basso Reno (Remagen < Rigomagos; Neumagen in Gewrmania e Nijmegen in Olanda < Noviomagos) indica invece che questa zona fu germanizzata in profondità già attorno al II sec. d.C., epoca in cui si colloca il dileguo di -g- nelle parlata romanze della Gallia settentrionale.

(13) Cfr. De Bello Gallico I 1 e VI 24.

(14) Cfr. sopra, note 9 e 10.

(15) Cfr. Zecchini, op. cit., pag. 21 e i brani cui ivi si rimanda.

(16) Nel 390 secondo la cronologia tradizionale, che però dovrebbe essere spostata di qualche anno (386?).

(17) Livio V, 32 e ss. (formas hominum inusitatas V 35; nata in vanos tumultus gens truci canto clamoribusque variis horrendo cuncta compleverant sono V 47 ecc.).

(18) Sull’ipotesi italo-celtica v. A. Meillet, Les dialectes indo-européens, Parigi 1984 (ristampa), pag. 31 e ss. L’ipotesi italo-celtica venne messa in dubbio innanzitutto da un celtista, il Walde, e la stessa ipotesi italica (origine comune di latino ed osco-umbro) trovò obiezioni sempre più forti da parte soprattutto di studiosi italiani, come il Devoto; oggi le due ipotesi sono abbandonate dagli studiosi. Una diversa interpretazione dei fatti è quella di Pisani, che vede un possibile contatto tra gruppo bretone ed osco-umbro da una parte e irlandese e latino dall’altra, soprat­tutto per via dei diversi esiti delle labio-velari indeuropee, che in osco-umbro e in bretone (così come nei dialetti eolici) tendono a labializzarsi (o.u. pia = lat. quia ecc.), mentre in latino e irlandese sono conservate come tali o eventualmente perdono l’appendice labiale (lat. sequitur, irl. sechithir da *seku- ecc.): nei confronti di quest’ipotesi sono state mosse però varie obiezioni da parte di diversi studiosi.

(19) J. Vendryes, Les correspondances de vocabulaire entre l’indo-iranien et l’italo-celtique, Mémoires de la Société de Linguistique XX (1918), pag. 265 e ss.

(20) G. Dumézil, L’héritage indo-européen à Rome, Paris 1949; La religion romaine archaïque, trad. ital. col titolo La religione romana arcaica, Milano 1877.

(21) Su questa problematica, oltre ai lavori di G. Dumézil citati nella nota precedente, cfr. anche M. Morani, Lat. “sacer” e il rapporto uomo-dio nel lessico latino, “Aevum” 55 (1981), pag. 30-46 [ora anche nel sito di Zetesis, sezione Testi].

(22) (Caes.), De Bello Gallico VIII 44.

(23) Per una introduzione a questa problematica si veda l’agile volumetto di E. Thevenot, Les Gallo-romains,  Parigi (Collana Que sais-je?) 19836.

(24) Th. Mommsen, nell’introduzione al volume Die römischen Provinzen von Casar bis Diokletian, pubblicato nel 1884 (se ne hanno diverse traduzioni italiane).

(25) J. U. Hubschmied, Sprachliche Zeugen für das späte Aussterben des Gallischen, “Vox Romanica”S3 (1938), pag. 48-155.

(26) Sul sostrato celtico nelle lingue neolatine si vedano, per un primo approccio, P. Savj-Lopez, Le origini neolatine, Milano 19482, pag. 259 e ss. e C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna 19726, pag. 131 e ss.


 
Sullo sfondo: l’iscrizione di Alise-Sainte-Reine (Alesia?). [Il testo è il seguente: MARTIALIS DANNOTALI | IEVRV VCVETE SOSIN | CELICON ETIC | GOBEDBI | DUGIIONIIO | VCVETIN | IN [...] ALISIIA; l'interpretazione più credibile - cfr. P.-Y. Lambert, La langue gauloise, Paris 2003 - è la seguente: Martialis Dunnotali [filius] aedificavit Ucueti hanc aedem etiam cum fabris (?) qui venerantur (?) Ucuetem in [...] Alisia. Ucuete è nome celtico di divinità che si trova anche in altre iscrizioni. 

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