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Ares, Milano 2005
H. Fast, Spartacus,
1951/52, trad. ital. (con lo stesso
titolo), Rizzoli 1980
Vincent B. Davis Bodies
in the Tiber, The Sertorius Scrolls III, 2020
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2006, trad. ital. (con
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de Maurétanie, 1999
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BUR 2016
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inestinguibili. L'avventurosa vita di Sant'Agostino, 2015
E. Corti, Catone
l’antico, Ares, Milano 2005
L’interesse di Eugenio Corti per la storia,
che connota tutte le sue opere, si esprime anche attraverso questa
biografia romanzata, o “romanzo per immagini”, che pone a tema un
periodo storico inconsueto per l’autore. Il fascino di un personaggio
come Catone “l’antico”non scaturisce soltanto dalla sua appartenenza a
un mondo di per sé suggestivo in quanto lontano nel tempo; Catone è
soprattutto l’incarnazione di quell’insieme di valori che costituiscono
l’ethos della
tradizione romana e una delle radici della cultura occidentale; di
questa tradizione egli fu testimone fedele e coerente in un’epoca in
cui profondi cambiamenti e l’emergere di nuove personalità cominciavano
a mettere in discussione un’antica e consolidata visione del mondo. La
biografia di Catone, uomo poliedrico, soldato, console, censore,
oratore, storico, profondo conoscitore del diritto, ma soprattutto
contadino legato alla terra e alle sue origini, a partire dai
diciassette anni d’età (216 a.C.) fino alla morte (149 a.C.), introduce
il lettore in un momento capitale della storia della Roma repubblicana,
dalla sconfitta di Canne alla distruzione di Cartagine, passando
attraverso le guerre di conquista in Occidente e in Oriente.
La tecnica
compositiva è molto particolare: non si tratta di una narrazione, ma
del succedersi di brevi scene dialogate raggruppate in episodi
cronologicamente ordinati e datati. La struttura è tuttavia complicata
dall’inserimento di parti narrative di contenuto strettamente
storico-informativo, definite “medaglioni” o “contaminationes”.
Dei tre medaglioni, due sono dedicati ad Annibale e uno a Scipione
l’Africano, mentre le sei contaminationes contengono
brevi sintesi storiche o l’analisi di
specifici aspetti socio- culturali e istituzionali di Roma antica (la
composizione della società, le magistrature, il rapporto tra Roma e la
Grecia, l’inconciliabiltà tra Roma e Cartagine…). Non mancano note a
piè di pagina, talune consistenti, che offrono informazioni più
dettagliate su singoli aspetti, come l’esercito, o riportano citazioni
tratte dagli autori antichi. A causa di questa struttura composita, le
cui parti non appaiono ben amalgamate tra loro, l’opera presenta una
forma e una scrittura ibride, a metà tra la sceneggiatura e il taglio
didascalico, per cui la lettura non è sempre agevole, benché i
contenuti risultino nel complesso interessanti e i personaggi delineati
con finezza e con una certa profondità.
Le fonti, sia
antiche che moderne, sono esplicitamente dichiarate in una nota
preliminare: l’autore dà conto del lungo lavoro di lettura e
approfondimento, ma avverte anche dei limiti imposti dall’enorme
quantità del materiale, del quale confessa di aver esplorato solo una
parte, spera la più importante, con l’intento precipuo di rispettare i
fatti storici e di rimanere fedele a quanto testimoniato dagli autori
antichi, Polibio, Livio, Plutarco, Cornelio Nepote, Cicerone e Catone
stesso, frequentemente indicati e citati nel testo. Il punto più debole
della ricostruzione storica è costituito dagli studi moderni, che sono
ristretti ad opere fondamentali ma decisamente datate, come la Storia
Romana del Mommsen e del De Sanctis o le monografie di F. Della Corte e
di J. N. Robert, e questo probabilmente spiega una certa tendenza alla
semplificazione in alcuni giudizi.
Pur
avvertendosi la mancanza di una competenza specifica, è pienamente
condivisibile l’ottica con cui Corti legge le vicende della storia
antica, spesso poste a confronto con quelle della storia più recente:
egli scorge in esse la presenza misteriosa ma certa di un progetto
trascendente che guida la storia verso esiti non casuali, attraverso,
nonostante e oltre i progetti umani. La vittoria su Annibale è un
evento decisivo per le sorti future dell’Italia e dell’Europa:
l’affermazione di una cultura e di una civiltà rispetto ad un’altra ad
essa irriducibile significa la progressiva civilizzazione
dell’Occidente nel segno di una humanitas che
prepara la civiltà cristiana. Quest’ultima nella visione dell’autore si
pone come il naturale compimento della civiltà greco-romana, la supera
inverandone fino in fondo le premesse, assimilandone i valori e
correggendone gli aspetti più disumani. In questa luce i grandi
protagonisti del periodo preso in esame suscitano la sincera
ammirazione dell’autore per le loro doti straordinarie e nel contempo
si muovono sullo sfondo di un disegno provvidenziale il cui significato
può essere decifrato retrospettivamente e a grande distanza di anni.
C’è tuttavia un personaggio, definito sulla scorta del Mommsen “una
vera natura profetica”, che agisce nel suo tempo consapevole di essere
fattore di un progetto più ampio: in Scipione l’Africano l’autore è
convinto di cogliere “la singolare percezione di essere strumento della
divinità allorché doveva prendere decisioni importanti”. In lui operava
“l’illuminata constatazione che fu in seguito propria di altri grandi
responsabili delle sorti umane, per esempio nell’epoca moderna del
maresciallo francese Foch: – Quando in un momento storico acquistiamo
d’improvviso una vista chiara della situazione, capace di determinare
conseguenze enormi… si è costretti a riconoscere di essere caduti nelle
mani di una forza provvidenziale, e che la nostra decisione vittoriosa
si debba a una volontà non nostra, ad una volontà superiore e divina.
Non siamo mai noi a prendere le grandi decisioni.”
Lucia Prestipino
H. Fast, Spartacus,
1951/52, trad. ital. (con lo stesso titolo), Rizzoli 1980
Si tratta di un romanzo reso famoso dall’omonimo film
del 1960 diretto da Stanley Kubrik, con Kirk Douglas nella parte del
protagonista, Laurence Olivier in quella di Crasso, Charles Laughton in
quella del politicante Gracco e Peter Ustinov in quella del lanista.
La sceneggiatura del film, peraltro curata dallo stesso Fast, accentuò
fortemente la componente sentimentale, facendo dell’amore di Spartaco
per Varinia (interpretata da Jean Simmons) il motivo dominante della
sue scelte: mentre nel romanzo prevale in modo pesantemente ideologico
l’utopia politica.
La narrazione
parte quasi dalla fine. Alcune persone della Roma-bene giungono ad una
villa sulla via Appia percorrendo la strada lungo la quale sono
crocifissi gli schiavi superstiti della rivolta di Spartaco. Vi sono il
vincitore Licinio Crasso, il giovane cinico e ambizioso Cicerone, e
alcuni personaggi di fiction: il politico
disilluso Lentulo Gracco, il padrone di casa Antonio Caio con la moglie
sfiorita e smaniosa, il giovane vizioso Caio Crasso con la sorella
Elena, avida di esperienze, e l’enigmatica amica Claudia Mario (notiamo
l’assurdità di molti nomi propri presenti nel romanzo, che mescolano
prenomi e nomi gentilizi per gli uomini e non tengono conto dell’uso
romano riguardo ai nomi femminili).
La vicenda di
Spartaco appena conclusa viene raccontata in frammenti: narrata da
Crasso al giovane amante, ripensata da Caio che ha assistito all’ultimo
combattimento del gladiatore, proseguita dall’autore come debole legame
con un sogno di Elena, ricordata da Gracco che aveva avuto dal senato
l’autorità di inviare l’esercito contro gli schiavi in rivolta. Quando
tutto il gruppo degli ospiti si trasferisce a Capua, giungono in tempo
per la crocifissione dell’ultimo superstite, l’ebreo Davide che era
stato il compagno più fedele di Spartaco: l’ultima parte del flashback è
realizzata attraverso i ricordi dello schiavo morente.
Come si è detto,
il romanzo è pesantemente, e ingenuamente, ideologico: l’itinerario
dell’autore, ebreo americano di fede comunista, è tutto presente:
nell’utopia di una società di fratelli liberi e pacifici, in un
messianismo che ha sostituito l’uomo puro all’unto di Dio, perfino in
un accenno alla possibilità di una rivolta futura di operai. La
violenza e la corruzione del potere, incarnato in Roma e nella sua
società viziosa e sessualmente deviata, ha come unico correttivo la
figura di Gracco, che termina la sua vita di politico corrotto e
corruttore mettendo in salvo la donna e il bambino di Spartaco
(destinati peraltro a morire faticando e lottando contro sempre nuovi
oppressori).
Vincent B.
Davis II, The Man with Two Names, the Sertorius Scrolls I
The Noise of the War, The Sertorius Scrolls II
Bodies in the Tiber, The Sertorius Scrolls III, 2020
L’autore, un militare statunitense, crea un’autobiografia di Sertorio
immaginando che il protagonista, stabilito in Lusitania negli
ultimi anni della sua vita, riveda la propria storia e quella di Roma
che vi è intrecciata. Il terzo “rotolo” finora uscito giunge fino
all’anno 100 a.C. , per cui c’è ancora moltissimo da raccontare.
Molto si può anche inventare, o supporre, perché le fonti su Sertorio
sono scarse: Sallustio ne parlava nelle Historiae, ma poco è rimasto,
fra cui importante è l’osservazione che le sue molte imprese sono state
trascurate dagli scrittori, per l’origine non nobile e per gelosia.
Fonte principale è quindi la vita di Plutarco, cui si aggiungono altri
autori dell’età imperiale come Floro e Appiano. Ne esce un personaggio
molto controverso, sia come carattere sia come legami politici,
anomalo, pur in un’epoca di altri grandi protagonisti come lui arditi e
ambiziosi, soprattutto per la straordinaria avventura in terra
lusitana, che durò molti anni e finì solo per un
tradimento. Ma a tutto questo l’autore non è ancora giunto.
Ci soffermiamo in particolare sul terzo “rotolo”, di grande interesse
in sé, ma molto discutibile dal punto di vista biografico. Il 100 è
l’anno che inizia col trionfo di Mario e s’incentra sulla vicenda di
Saturnino e Glaucia: comprende l’assassinio del tribuno Nonio (Aulo,
non Gaio come risulta qui), le leggi frumentarie, agrarie, giudiziarie,
l’esilio forzato del senatore Numidico, l’assassinio del console
neoeletto Gaio Memmio. Dalle fonti non risulta che Sertorio, di ritorno
con Mario dalla guerra contro i Cimbri, abbia partecipato o assistito a
tutti questi eventi: tanto meno che sia stato fatto senatore per
volontà di Mario, che lo desidera al fianco come alleato
politico-militare. In realtà non risultano eventi che lo riguardano
fino agli anni successivi: l’autore ha quindi buon gioco a farne un
testimone critico di tutti i fatti dell’anno, osservati dai suoi occhi
ingenui, scandalizzati e onesti. Ma così è più una ricostruzione
storica che una biografia.
Aggiungiamo che intercalati agli scrolls di Sertorio ce ne sono due
attribuiti a Mario: Son of Mars e Blood in the Forum.
R. Harris, Imperium, 2006, trad. ital.
(con lo stesso titolo) Mondadori 2006
L’autore,
appassionato di storia romanzata e fantastoria, è noto al pubblico di
antichisti soprattutto per Pompeii, un
quasi-giallo che abbiamo anche noi presentato nella rubrica Antichi
detectives del
sito. Quest’opera, dedicata a Cicerone, si immagina scritta da Tirone,
che secondo Asconio Pedano compose effettivamente una biografia del suo
padrone/patronus. Il titolo si riferisce al
potere consolare, cui Cicerone, homo novus,
aspirò tenacemente; e in effetti la narrazione, dopo un capitolo sulla
formazione dell’oratore, riguarda gli anni dal 70 al 64, considerati
come tappe dell’ascesa all’elezione alla massima carica: il processo a
Verre, l’edilità, la pretura, la campagna elettorale per il consolato.
Protagonista e narratore sono ben delineati, così come i diversi
personaggi dello scenario politico, giudiziario e familiare: i futuri
triumviri, Catilina, Lucullo, senatori di diversa tendenza politica,
Ortensio, Terenzia e la piccola Tullia, il fratello Quinto e il cugino
Lucio: una figura meno nota, quest’ultimo, a cui è però dedicato spazio
e interesse. La scrittura è attraente e conferma le buone doti di
narratore, le vicende correttamente riportate e interpretate con
equilibrio.
R. Harris, Lustrum, 2009 (ripubblicato
col titolo Conspirata, 2011)
Il seguito del precedente: comprende il
quinquennio (lustrum) fra il 63 e il 58, cioè fra l’anno del
consolato di Cicerone e la partenza per l’esilio. Oltre ai personaggi
già ben delineati nel primo libro, qui è dato largo spazio a Catone,
Clodio, Clodia e il marito Metello Celere, Rabirio, C. Ottavio, Antonio
Ibrida, Marco Antonio, Murena: i grandi protagonisti di quegli anni e
dei decenni successivi. Tirone racconta i fatti con ovvia lealtà nei
confronti di Cicerone, di cui però rileva anche alcuni aspetti
negativi, soprattutto l’eccessiva autostima al termine del consolato.
Con una piccola libertà l’autore attribuisce al narratore una breve,
povera, storia d’amore.
Scritto in
modo attraente e appassionante, è una lettura consigliata.
R. Harris, Dictator,
2015
Il terzo libro della trilogia
dedicata a Cicerone inizia con la fuga da Roma in attesa delle leggi di
Clodio e termina con l’assassinio di Cicerone e gli eventi che ne
conseguono. Un periodo quindi di grande interesse sia per la vita del
protagonista sia per le vicende di quegli anni fra i due triumvirati.
Harris è uno straordinario narratore, in questo libro più ancora che
nei precedenti: l’attenzione è tenuta sempre desta, fatti e personaggi
descritti con grande abilità, quanto vi è di fiction inserito in modo
credibile. Il ruolo del narratore è anche qui affidato a Tirone che,
come avviene spesso nei romanzi storici con io narrante d’invenzione,
si trova coinvolto o almeno presente in molti degli eventi narrati, con
qualche evidente forzatura: basti per tutti l’uccisione di Clodio. Ma
il legame col protagonista riesce a giustificare queste forzature.
Anche i giudizi sui personaggi storici sono dati come giudizi di
Tirone, o forse di Cicerone, in particolare la completa condanna delle
guerre galliche, per illegalità e atrocità. Alla
fine una piccola vicenda personale: Tirone ritrova la schiava
conosciuta molti anni prima, ora liberta, e la sposa dopo la morte di
Cicerone. Dei
moltissimi riferimenti storici solo uno lascia perplessi: Harris
attribuisce al cesaricida Decimo Giunio Bruto Albino, non al più
importante cesaricida Marco Giunio Bruto, il legame con Cesare (amato
come un figlio) e di conseguenza ne fa il destinatario della celebre
frase finale (Even you?). Data
la costante tradizionale attribuzione a Marco Giunio (il figlio
dell’amante di Cesare Servilia) sembra impossibile che si tratti di una
svista: ma il perché di questa scelta non lo capiamo.
Josiane
Lahlou, Moi, Juba roi de Maurétanie, 1999
L’autrice immagina di aver ricevuto misteriosamente
da un anziano abitante del deserto nordafricano le memorie scomparse di
Giuba II. Si tratta quindi di un’autobiografia fittizia, che utilizza
nel titolo il modello del Graves (I, Claudius).
Il personaggio è
il piccolo principe di Numidia portato da Cesare a Roma dopo la
campagna africana di Tapso e Utica: il padre, Giuba I, discendente da
Giugurta attraverso il fratellastro Gauda, era morto al seguito dei
pompeiani. Il bambino cresce affidato ai migliori maestri di retorica,
poesia e filosofia, mentre intorno a lui si consumano le grandi vicende
di fine secolo: l’assassinio di Cesare, la guerra fra Ottaviano e
Antonio/Cleopatra, la vittoria di Augusto. Quest’ultimo decide del
destino di Giuba: non la Numidia dei suoi avi, troppo insicura, ma il
regno di Mauretania e il matrimonio con Cleopatra Selene, figlia di
Antonio e Cleopatra. Così Giuba si trova col cuore diviso: fra il mondo
della sua infanzia, la cultura grecoromana in cui è stato educato, la
nuova terra sconosciuta e incomprensibile, una moglie che si considera
discendente da una civiltà millenaria: Tolomeo, il figlio cui
l’autobiografia è destinata, sarà l’erede di tutti questi mondi (in
realtà, come avverte la nota, verrà fatto uccidere da Caligola,
anch’egli discendente da Antonio e quindi timoroso di un ipotetico
rivale).
Ci sarebbe la
possibilità di una fiction appassionante.
Ma l’opera è poco riuscita, con lunghe riflessioni (e qualche tirata
femminista), ricapitolazioni, qualche confusione nelle parentele: si
sorvola volentieri qua e là.
John Williams, Augustus,
1972, tr. it con lo stesso titolo, 2010/2014
L’editore
Castelvecchi ha ripubblicato, in occasione del bimillenario augusteo,
il romanzo dello scrittore americano Williams dedicato alla biografia
del primo imperatore romano. E’ molto interessante e
di lettura attraente. L’autore costruisce un collage di lettere, diari
e documenti inventati (salvo qualche passo del Monumentum
Ancyranum) attribuiti ai protagonisti e comprimari degli anni dal 45 a.C.
al 55 d.C.: ne risulta una storia assolutamente credibile, mai banale o
forzata, che delinea sia il personaggio di Augusto sia l’intera epoca.
Ad alcune personalità è dedicato più spazio: i tre amici della
giovinezza, Mecenate, Agrippa e Salvidieno Rufo, il meno noto Nicola
damasceno, fra le donne soprattutto Giulia; altre sono stranamente
quasi assenti, come Druso: c’è insomma una selezione personale,
peraltro accettabile. Le vicende storiche sono rispettate e, benché la
quarta di copertina parli di una capacità psicologica acuta,
spietata, quello che colpisce nell’autore è invece una simpatia
umana, quasi una pietà, verso tutti i protagonisti.
Qualche
obiezione su alcune parentele. In particolare sia il protagonista fin
dall’inizio sia quasi sempre suo padre sono chiamati Ottaviano: ma il cognomen tipico
di un adottato non riguarda il padre, che è Ottavio, e si riferisce ad
Augusto solo dopo l’adozione alla morte di Cesare: e in realtà il cognomen con
cui è noto non venne mai usato da Augusto stesso, ma dai suoi
detrattori e dagli storici.
Elena Bono, La moglie del procuratore,
1956/2015
La figura della moglie
di Pilato compare nel Nuovo Testamento solo
in Matt. 27, 19: la donna, di cui non viene detto il nome, cerca di convincere il
marito a non condannare Gesù mandandogli a dire di aver avuto un sogno
angosciante: ἀπέστειλεν
πρὸς αὐτὸν ἡ γυνὴ αὐτοῦ λέγουσα,
Μηδὲν σοὶ καὶ τῷ δικαίῳ ἐκείνῳ, πολλὰ γὰρ ἔπαθον σήμερον κατ' ὄναρ δι' αὐτόν. Quest’esile
passaggio, che non ha alcun esito concreto nel processo, ha suscitato
ugualmente molto interesse, sia per la definizione di δίκαιος data a
Gesù piuttosto che ἀγαθός o ἀναίτιος, un termine cioè giuridico secondo
la logica romana e insieme teologico secondo la logica evangelica delle
Beatitudini, sia per la scelta del verbo ἔπαθον che sembra anticipare
il “patì” del Credo. Dall’interesse sono
nate ipotesi, leggende e fiction. Il nome di Procla o Procula compare
nel cosiddetto Ciclo di Pilato, un insieme di
testi apocrifi circa del V secolo: in particolare nella lettera
di Pilato ad Erode Antipa Pilato
rinfaccia ad Erode la condanna di Gesù dichiarando che è risorto, è
apparso alla moglie Procla, al centurione Longino e a lui stesso. Il
nome gentilizio Claudia le è attribuito solo molto più tardi, forse a
partire da una Claudia citata da s.Paolo (II Tim. 4, 21): certo
è un nome molto suggestivo, dato che alla gens
Claudia appartenevano molti membri della famiglia
imperiale, oltre agli stessi imperatori da Tiberio in avanti; molte
donne meno note vi erano connesse per via di complesse parentele: ad
esempio una Claudia Pulchra (in curiosa e forse significativa assonanza
con Claudia Procla/Procula), pronipote di Augusto, visse sotto Tiberio
e pagò con la morte la devozione alla cugina Agrippina Maior (Tac. Ann. 4,
52, 1 e 66,2). Il nome è accolto in varie ipotesi e in rielaborazioni
letterarie e filmiche, legando la moglie di Pilato per nascita
legittima o illegittima o anche per adozione alla potente gens e
attribuendole quindi vantaggi per il marito, socialmente inferiore.
Il testo che presentiamo è una delle rielaborazioni letterarie, accanto
al racconto Die Frau des Pilatus di
Getrud von le Fort, uscito l’anno prima, e alla fantasiosa biografia Pilate’s
Wife – a Novel of Roman Empire di Antoinette May
(2006); originariamente costituiva una parte della raccolta Morte
di Adamo, ma
è stata ripubblicata dall’editrice Marietti 1820 come testo singolo,
con una prefazione storico/letteraria di A.Torno e un commento in
postfazione di S. Segatori.
Non esattamente una biografia, anche se la vita della donna è
raccontata a varie riprese; in sé è il racconto di una serata e una
notte a casa di Seneca, dove è stata invitata l’anziana vedova di
Pilato, qui chiamata oltre che Claudia Procula anche Serena,
apparentemente un soprannome anche se si è tentati di vedere un
riferimento al Sereno amico di Seneca e dedicatario dei Dialoghi De
constantia sapientis e De
tranquillitate animi. Durante la festa si svolge
una discussione fra vari personaggi storici, Lucano, Trasea Peto,
Pisone, Scevino, ben delineati: il tema è l’indifferenza degli dèi di
fronte al dolore degli uomini. L’allusione ai cristiani, dovuta alla
presenza a Roma di Paolo in attesa di giudizio, costringe Claudia a
uscire dal riserbo e a negare la sua appartenenza alla nuova religione.
Rimasta sola in camera, Claudia giunge vicina a suicidarsi con un
potente sonnifero: soccorsa da Seneca, ha con lui una lunga
conversazione che parte dalla misteriosa visione di Cristo che ha
segnato la sua vita, mentre quella del marito è stata segnata
dall’angosciante domanda sulla verità e dall’ansia dell’ingiustizia
compiuta, in particolare riferimento al giusto torturato e ucciso di
Plat. Resp. 361e-362a.
Pilato infine si è ucciso lasciando a lei il compito di continuare a
cercare la verità, e l’avere negato di appartenere a Cristo la tormenta
fino al desiderio di morire. Seneca l’ascolta con un antico affetto e
con il malinconico scetticismo di chi non se la sente più di cambiare:
ma le promette di procurarle un colloquio con Paolo.
Si tratta di un’opera di grande interesse e fascino, che consigliamo.
Louis de Wohl, The
Spear, 1957, tr. it. La
lancia di Longino, BUR 201
Uscito in originale quasi
contemporaneamente all’opera della Bono su Claudia Procula (La
moglie del procuratore: vedi sopra), questo romanzo/biografia
rivisita la stessa epoca, gli stessi personaggi, lo stesso grande
evento, la morte e la resurrezione di Cristo. Lo spunto è tratto dal
Vangelo di Giovanni, 19, 33-4: Venuti a Gesù, quando videro che
era già morto, non gli ruppero le gambe; ma uno dei soldati con una
lancia gli aprì il costato; e subito ne uscì sangue ed acqua … Ed
un’altra Scrittura dice ancora: “Volgeranno gli occhi a colui che hanno
trafitto”. La tradizione successiva ha utilizzato anche altri
passi evangelici per identificare il personaggio: Mt. 27, 54: Il
centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù veduto il
terremoto e le cose che accadevano ebbero gran timore e dissero: “
Costui era davvero figlio di Dio!”; così Marco (15, 39): Il
centurione, che gli stava di faccia, vedendo che era spirato in quel
modo, disse: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!”: è poi lui a
confermarne la morte a Pilato, permettendone la sepoltura. Luca
(23, 47) attribuisce al centurione la frase più generica: “Certamente
quest’uomo era giusto!”. Alcuni
considerano la medesima persona come presente alla resurrezione, fra le
guardie tramortite di cui parla Matteo (28, 4), benché dal testo
risulti chiaramente che non erano guardie romane, ma giudaiche. E’
evidente l’interesse per l’uomo la cui lancia è stata bagnata dal
sangue di Cristo e, insieme, che ne ha autenticato la morte: ne parlano
i Vangeli apocrifi, e in particolare nella lettera di Pilato ad
Erode Antipa si dice che Gesù risorto era apparso al centurione
Longino, chiamato con questo nome; più tardi il personaggio di Longino
compare nella Leggenda Aurea di Iacopo da Varagine; la
citazione veterotestamentaria del Vangelo di Giovanni (volgeranno gli
occhi…) ha probabilmente dato origine alla tradizione che il
personaggio fosse cieco, o semicieco, o fosse accecato dalla visione, o
guarito; in molte leggende e perfino in testi di fantasy la
lancia di Longino ha importanza analoga a quella del Graal, così come
la reliquia è stata ed è rivendicata, in tutto o in parte, in diversi
luoghi; un Longino martire è venerato come santo. Quanto al nome
completo, Cassio Longino, si tratta di un diffuso nome romano
appartenuto a molti personaggi fra cui il cesaricida, per cui era
facile attribuirlo al soldato/centurione romano dei Vangeli, dopo la
diffusione del solo cognomen Longino.
Lo scrittore
ricostruisce i grandi eventi e i personaggi storici con abilità e
suggestione, seguendo il più possibile il Vangelo e tenendo sempre
desto l’interesse. Dei dati e delle leggende su Longino fa un uso molto
prudente: suo è solo il gesto della lancia ed è presente alla
Resurrezione nascosto, perché le guardie erano soldati del Tempio. Dove
opera di fantasia è più discutibile. La vicenda del giovane rovinato
dai suoi nemici, divenuto schiavo, poi liberato, trasferito in
Palestina e pieno di odio e desiderio di vendetta non può non
richiamare alla mente la storia di Ben Hur di Wallace; che parte
dell’odio dipenda da un amore infelice per Claudia Procula è appena
concesso dall’accostamento dei due come testimoni del Risorto nella lettera
di Pilato ad Erode; che Longino sia responsabile della colpa
dell’adultera, per ritrovarla alla fine vedova e cristiana come lui, è
forse un po’ troppo.
Louis De Wohl, The
glourious folly,
1957, tr. it. La
gloriosa follia – un romanzo del tempo di San Paolo, 2014
Il
romanzo si inserisce nella serie delle biografie romanzate tipiche
dell’autore: in questo caso la biografia di san Paolo. Ma il
sottotitolo dell’edizione italiana ben chiarisce l’ampiezza dell’opera
che ha come oggetto non il solo Paolo ma tutta la realtà della Chiesa
cristiana fino al 64 e la contemporanea situazione dell’impero romano e
delle sue province orientali. Inoltre l’opera potrebbe essere letta
anche come seguito del romanzo The spear, anch’esso del 1957,
pubblicato in traduzione col titolo La lancia di Longino (due anni più
tardi rispetto a questo) e alla cui recensione si rimanda. Infatti
quasi coprotagonista del romanzo è Cassio Longino ormai sposato con
Naomi: le sue vicissitudini lo portano a cooperare con le diverse
comunità ecclesiali, ma anche ad assumere importanti incarichi politici
come il governatorato della Siria ad interim, vicenda questa che
l’autore giustifica con l’esistenza storica di un Cassio Longino
governatore della provincia. Il particolare più ardito di fiction
riguarda Atte: de Wohl fa del personaggio storico la figlia di Longino
e Naomi, innamorata del giovane Nerone e da lui condotta a Roma come
amante. L’eccesso di inventiva romanzesca lascia sempre perplessi:
tuttavia questo romanzo si legge volentieri e con interesse.
Lindsey Davis, The course of
honour, 1997/8
La
scrittrice inglese che ha creato il personaggio e la serie di Didius
Falco è autrice anche di questo romanzo storico, che può essere letto
in vario modo: come la biografia di Vespasiano, ad esempio, o come la
storia dell’impero romano da Tiberio all’anno dei 4 imperatori. La
modalità narrativa è però quella d’incentrarsi su un personaggio
minore, Caenis, e di raccontare la storia di Vespasiano e dell’impero
attraverso la storia di lei. Dice Suetonio: post
uxoris excessum Caenidem, Antoniae libertam et a manu, dilectam quondam
sibi revocavit in contubernium (scil. Vespasianus) habuitque etiam
imperator paene iustae uxoris loco (Vesp. 3).
Quindi si tratta di una schiava di Antonia (Minore), poi manomessa
dalla padrona: questo permette all’autrice di far assistere o
partecipare il suo personaggio a tutti i fatti salienti della dinastia
Giulio Claudia, dalla vicenda di Seiano fino alla morte di Antonia
stessa; in seguito la Davis colma i vuoti immaginando che Narcissus, il
più potente liberto di Claudio, fosse stato maestro di Caenis e
condivida ora con lei le preoccupazioni sull’impero di Claudio e sul
futuro dei suoi figli. Addirittura l’autrice si spinge fino a fare di
Caenis la redattrice sotto dettatura della lettera di denuncia contro
Seiano inviata da Antonia al cognato Tiberio, nonché a farla
partecipare come ospite al banchetto di Nerone in cui Britannico viene
avvelenato. Dal dilectam quondam viene costruita
una storia d’amore fra la giovane schiava e Vespasiano, giovane, oscuro
e povero. Un matrimonio fra i due resta per sempre impossibile, specie
dopo che Vespasiano ha iniziato il cursus honorum ed è
entrato in senato: un senatore non può per legge sposare neppure una
liberta. Quando Vespasiano si sposa il rapporto fra i due s’interrompe
per vent’anni, anche se Caenis segue da lontano la carriera di lui, la
sua vita familiare, e diviene amica del figlio Tito, compagno di studi
dei giovani principi. Dopo la morte della moglie il loro rapporto
riprende, all’epoca dell’impero di Nerone: nuovamente interrotto
durante la campagna in Giudea e nell’anno dei 4 imperatori, diverrà
definitivo paene iustae uxoris loco al ritorno di
Vespasiano come imperatore.
Se il limite
dell’opera è l’eccessiva presenza di Caenis in tutti i fatti del tempo,
la storia non è troppo forzata, i personaggi sono interessanti, alcuni
molto ben delineati: i due protagonisti, Antonia, Narcissus, Claudio e
il giovane Britannico, Tito e Flavio Sabino, fedele e sfortunato
fratello di Vespasiano, più alcuni d’invenzione. Un po’ troppo
insistita la componente sentimental/passionale, forse inevitabilmente.
Lindsey
Davis, Master and God, 2012
Come il precedente The
Course of Honour, questo romanzo potrebbe essere considerato la
biografia di un imperatore (di Domiziano, come l’altro era di
Vespasiano), ma, più ancora che in quello, qui la parte di fiction
prevale
nettamente, anche data la mole dell’opera, quasi 500 pagine di grande
formato. Nella breve postfazione l’autrice presenta i deboli indizi su
cui ha costruito la parte d’invenzione, una gradevole e vivace storia
d’amore fra un pretoriano e una liberta parrucchiera a corte: Suetonio
fra i congiurati che organizzano l’uccisione di Domiziano inserisce un
Clodiano, della cui personalità, vita precedente e sorte successiva non
si dice più nulla; i ritratti di Domiziano e delle donne dell’età
flavia presentano elaborate pettinature e parrucche che fanno
ipotizzare un’abile, e forse ironica, parrucchiera. Certo un po’
pochino.
I personaggi
storici dell’epoca, e lo stesso Domiziano coi suoi parenti e la sua
corte, hanno comunque un grande rilievo, così come scrittori e poeti,
spesso piuttosto malvisti (Stazio in particolare, ma anche Marziale,
Giovenale, Silio Italico, Quintiliano, Plinio il Giovane: manca
Tacito). Nel complesso un quadro leggibile del periodo, anche se un po’
troppo diluito: e il fatto che Clodiano riesca sempre a cavarsela non è
molto credibile.
Paolo Biondi, Livia.
Una biografia ritrovata,
Edizioni di
Pagine, Bari, 2015
L’autore,
un giornalista alla sua prima fiction, parte dal classico espediente
del ritrovamento di un testo sconosciuto da ricopiare e commentare:
l’espediente però non si limita all’input iniziale ma si prolunga per
tutta l’opera attraverso lettere ad un amico ed altri documenti, fino a
divenire il motivo dominante e la chiave interpretativa. Risulterà che
si tratta di un’antica biografia composta da una donna cristiana del
terzo secolo, tenace oppositrice degli storici calunniatori di Livia,
sostenitrice del ruolo femminile nell’impero, soprattutto di Livia e
Antonia e più vagamente di Agrippina maggiore e Giulia, con una netta
tendenza a interpretare le profezie pagane in chiave messianica tanto
da attribuire a Livia stessa un interesse in tal senso. Da ultimo la
storia della tradizione dell’antico testo passa attraverso Machiavelli,
che lo utilizza per l’idea di principe illuminato. Mi spiace per
lo spoiler, ma sarebbe difficile presentare quest’opera diversamente:
si tratta di una biografia tendenziosa, da cui l’autore/ricopiatore si
chiama fuori. Tuttavia non è escluso che abbiano influito su Biondi
biografie di Livia e Giulia uscite pochi anni prima e alla cui
recensione si rimanda (si direbbe anche quella di Agrippina, che è però
dello stesso anno di questo testo). Può interessare l’impostazione
curiosa. La scrittura è piuttosto aulica e un po’ sentimentale, con
molte citazioni di poeti, si presume per delineare la personalità
dell’autrice sconosciuta. Un paio di errori biografici: in un punto
sono confuse Antonia e Agrippina maggiore, poi però sempre distinte;
più grave l’attribuire ad Attico la paternità di Agrippa, che di Attico
fu per un certo tempo il genero.
P. Grimal, Mémoires
d’Agrippine, 1992, tr. it. Memorie di Agrippina,
Garzanti 1994
Grande studioso di letteratura
latina, di Tacito in particolare, Grimal ha pubblicato anche una serie
di biografie di personaggi storici romani, di età repubblicana e
imperiale. Questo che presentiamo deriva il suo titolo
presumibilmente dalla più famosa opera della Yourcenar, che recensiamo
più avanti, e dalla notizia che Agrippina avrebbe scritto le sue
memorie, naturalmente perdute.
Dunque
un’autobiografia fittizia di Agrippina la giovane, personaggio
particolarmente amato dai biografi di fiction (si veda più oltre Doherty):
si immagina che abbia iniziato dopo la morte di Britannico, accortasi
dell’estraniamento di Nerone e del pericolo che correva lei stessa;
giunta col racconto al punto d’inizio, avrebbe poi aggiunto alcune
brevi notizie successive e ultime parole in attesa
dell’assassinio.
Scrivere un’autobiografia fittizia, soprattutto di
un personaggio dai tratti marcatamente negativi come l’Agrippina
tramandata dagli storici, è certo difficile, a meno di non voler farne
esplicitamente una dark lady. Grimal si muove con circospezione,
attribuendo ad Agrippina sentimenti positivi: una certa passione
iniziale per Domizio, affetto e stima per Claudio, considerazione e
gratitudine per il secondo marito Crispo (che sarebbe morto suicida per
lasciarla libera di sposare Claudio, e ricca per giunta), affetto e
compassione per le due sorelle, Drusilla e Livilla, un grande
attaccamento alla madre, stima e devozione per Seneca, una certa
considerazione anche per Atte, fiducia assoluta in Acerronia (neppure
alla fine sembra si sia accorta del tradimento)… Le azioni negative da
lei decise e compiute vengono via via meditate, lamentate, discusse,
attribuite ultimamente agli dèi che hanno scelto la stirpe di Germanico
per governare. Tutto sommato l’affetto per il figlio sembra il
sentimento meno rilevante (meno anche dell’affetto per il fratello):
Nerone è il prescelto perché la linea dinastica cui lei stessa
appartiene abbia il potere.
L’opera risulta così non molto credibile, nonostante
l’uso evidente delle fonti (Tacito e Suetonio in particolare). E’
inoltre appesantita da molti discorsi, inizialmente piuttosto
didascalici (miti e leggende raccontate alla bambina), poi utilizzati
secondo l’uso antico per esprimere le diverse posizioni, ma nel
complesso piuttosto monotoni.
Due ultime osservazioni: curiosamente Grimal
sostiene che Nerone si chiamasse così dalla nascita (come prenome) e
non per adozione (rogataque lex qua in familiam Claudiam et nomen
Neronis transiret dice Tacito in Ann. XII, 26).
Inoltre nel corso dell’opera si usa per il potere imperiale sempre
termini come regnare, regno, ecc., in realtà estranei alla cultura
romana (Occidat, dum imperet è tradizionalmente la frase di
Agrippina all’indovino).
Quanto al traduttore, ha confuso evidentemente citrouille (“zucca”)
con grenouille (“rana”), per cui risulta che Seneca
scrisse contro Claudio La metamorfosi in rana!
P. Doherty, Domina, 2002
“Domina” è Agrippina
la giovane, figlia di Germanico, moglie di Claudio e madre di Nerone.
La sua storia è raccontata da un personaggio d’invenzione, Parmenone,
che l’accompagna per tutta la vita come confidente, segretario, amico,
innamorato senza esito. Attraverso il narratore viene ripercorsa la
dinastia Giulio-Claudia, dagli anni di Seiano fino alla morte di
Agrippina e, nelle pagine finali, alla morte di Nerone. E’ press’a poco
la stessa vicenda del romanzo di Grimal, con la differenza che il
narratore è un personaggio di fiction, per cui la sua
partecipazione a tutte le vicende appare immotivata e forzata, così
come poco credibile la sua devozione ad Agrippina. L’assoluta
negatività di tutti i personaggi e l’eccessivo gusto per l’orrido e il
torbido (eccessivo anche in paragone alle fonti) rendono il romanzo
ultimamente sgradevole, perfino noioso. Oltre alle forzature, alcuni
errori: ad esempio più volte Antonia (minore, madre di Claudio) è
definita zia, invece che nonna, di Caligola.
Alan Massie, Caligula, 2003
L’autore inglese aveva precedentemente pubblicato biografie di Augusto, Tiberio, Cesare, Antonio e gli eredi di Nerone. Con questa si cimenta nella figura più discussa e meno nota della dinastia, anche per la totale sparizione della parte degli Annales di Tacito che la riguardano. A somiglianza della biografia romanzata di Agrippina, Domina di Doherty, uscita l’anno prima, anche in quest’opera l’io narrante è un personaggio d’invenzione, partecipe e testimone di tutta la vicenda della dinastia. Già a proposito del personaggio di Doherty si è detto che la sua costante presenza ai fatti narrati è poco credibile; nel caso dell’elusivo Lucius di quest’opera la poca credibilità raggiunge l’assurdo, a partire dalla sua identità in un periodo di cui si sa tutto di tutti. Figlio di un proscritto al tempo di Augusto e di un’amica di Livia Drusilla e Antonia, amico e luogotenente di Germanico, amico di Agrippina Maggiore, amico e amante del giovane Nerone figlio di Germanico, amico e consigliere di Caligola, amante e confidente di Agrippina Minore, primo marito di Cesonia moglie di Caligola, in rapporti con Filone, con Seneca, parente persino di Pilato…Può essere esistita una persona del genere, così implicata nella famiglia e così ignota?
Ancora più assurdo è il fatto che Agrippina, ormai moglie di Claudio, incarichi Lucius di scrivere una biografia di Caligola. Lucius accetta, ma ne scrive una sincera e realistica, riservandosi di darne ad Agrippina una versione purgata. E con tale esile pretesto nasce questo libro.
Date queste premesse, è evidente che è un libro falso, reso poi particolarmente sgradevole dalla continua insistenza sulle vicende sessuali, etero e omo, di tutti i protagonisti. La figura di Caligola dovrebbe uscirne, nelle intenzioni dell’autore, in parte riabilitata, ma se ne salva solo un certo entusiasmo nel corso della spedizione al Reno, peraltro interrotta e mai più ripresa. Il rifiuto di dar retta alle dicerie più assurde non toglie l’accettazione di molte altrettanto negative. Non c’è neppure il tentativo di distinguere fra un periodo precedente la malattia e la degenerazione successiva, come molti fanno; solo qua e là si parla di una buona situazione economica, ma non è chiaro quanto dipenda dall’imperatore.
Nel complesso una brutta opera. Accenno solo a un errore sulla complicatissima dinastia: la moglie di Druso è Claudia Livilla, sorella di Germanico e Claudio; dopo averla definita correttamente (anche se col nome meno noto di Giulia) Massie la confonde con Giulia Livilla sorella di Agrippina Maggiore.
R. Graves, I,
Claudius, 1934, tr. it. Io, Claudio, Bompiani 1935/1983, Il
Corbaccio 2010
Claudius the god
and his wife Messalina, 1934, tr. it. Il divo Claudio, Bompiani 1936/1986, Il
Corbaccio 2010.
L’autore è un famoso studioso di
storia delle religioni, di cui ricordiamo in particolare I miti greci (1936), ma anche
romanziere e poeta. L’impostazione di queste due opere è quella di
un’immaginaria autobiografia di Tiberio Claudio Nerone, quinto
imperatore della dinastia Giulio-Claudia: la prima termina con la
designazione ad imperatore dopo l’assassinio di Caligola, la seconda
con la designazione del figlio Britannico a coerede insieme con il
figliastro Nerone e la premonizione della prossima morte: segue
un’appendice col resoconto della morte di Claudio nelle versioni di
Suetonio, di Tacito e dell’epitome di Cassio Dione e un breve riassunto
degli avvenimenti dal 55 al 69.
L’intento del
Graves è quello di darci un vasto affresco delle vicende di Roma e del
suo impero in un
periodo di circa novant’anni, poiché 1’immaginario autore inizia a
narrare partendo da vicende molto precedenti la sua nascita, vale a
dire dal matrimonio fra sua nonna Livia e Ottaviano. La scelta del
fittizio testimone non è casuale: non solo Claudio aveva la possibilità
di essere al corrente di tutti i fatti che racconta, ma, come si sa,
1’imperatore fu effettivamente uno storico e, in particolare, un
autobiografo, per cui l’attribuzione a lui del testo è legittima e
credibile.
Graves
è attento ad evitare di fornire a Claudio idee o visioni lungimiranti
che sarebbero anacronistiche, tranne una e fondamentale che fa da Leitmotiv alle
due opere: già nel primo capitolo del primo libro è citata una profezia
sulla dinastia Giulio-Claudia, che guida Claudio sia ad interpretare i
fatti di cui è testimone, sia a tentare un progetto destinato a
fallire: riconoscendo, infatti, nel sesto e ultimo imperatore citato
nel carme il proprio figliastro Nerone, Claudio fa in modo di
sceglierlo come erede allontanando il figlio dalla corte; spera così
che, terminata nel sangue la dinastia imperiale, Britannico si assuma
i1 compito di restaurare la repubblica; ma,
per l’opposizione dello stesso figlio ormai inserito nella logica di
potere, è costretto a farlo coerede. Tutti gli altri avvenimenti che si
svolgono a Roma e nelle provincie (con ampio rilievo dato alla Giudea)
sono riferiti con un misto di serietà, ironia ed autoironia che ben si
addicono al personaggio. Naturalmente, data l’impostazione delle opere,
non sono via via citate le fonti. Tuttavia, dopo il primo libro che
aveva suscitato alcune critiche da parte degli storici, il Graves ha
premesso al secondo una Nota in
cui elenca tutte le fonti antiche da lui consultate e dà ragione del
modo con cui ha trattato alcuni episodi meno documentati e, in
particolare, l’atteggiamento di Claudio nei confronti del Cristianesimo.
Nel
complesso si tratta di opere leggibili a diversi livelli culturali, ben
raccontate e molto interessanti. Un unico appunto: la famiglia
Giulio-Claudia è, come si sa, estremamente complicata per le sue
numerose ramificazioni e intrecci: ora, la difficoltà del lettore a
ricordare le parentele è qui accentuata dall’uso di diminutivi e
soprannomi (ignoti abitualmente a chi ha nozioni scolastiche), che
ricorrono anche nell’albero genealogico premesso ad entrambi i libri.
Sarebbe stato meglio che almeno nell’albero fossero riportati sia i
nomi veri sia nomignoli.
Marguerite
Yourcenar, Mémoires d’Hadrien, 1951, tr. it. Memorie
di Adriano, Einaudi 1953/81.
Il libro della
scrittrice belga è un’opera eminentemente letteraria che, come
afferma 1’autrice, “sotto certi aspetti sfiora i1 romanzo e certi altri
la poesia”. L’aderenza ai fatti potrebbe quindi essere del tutto
occasionale e legittimamente la fantasia creativa potreppe sfogarsi con
piena libertà. Ma per la Yourcenar opera storica e romanzo storico
hanno in comune 1’esigenza della esattezza e della documentazione, e se
il primo genere ha per fine il “tentare onestamente di comprendere”, i1
secondo deve “sforzarsi di rendere a quei documenti irrigiditi che sono
i documenti storici la duttilità e il calore delle cose viventi” (P. De Rosbo, Entretiens radiophoniques
avec M. Yourcenar, Paris 1972, pagg. 51-52).
Ciò l’ha
portata ad una puntigliosa ricerca e lettura di fonti scritte,
archeologiche e artistiche, all’esame attento della letteratura critica
pertinente, a inseguire il fantasma del1’imperatore nei tanti luoghi in
cui da vivo aveva peregrinato, a dedicare un lungo periodo
dell’esistenza (la prima stesura è del 1924-29, la pubblicazione 1951),
pur tra abbandoni e riprese, al tentativo di ricreare la coscienza di
quell’uomo del II sec. Una lunga nota in appendice al romanzo presenta
la documentazione che è servita alla stesura e giustifica quei punti in
cui la necessità artistica ha richiesto di modificare cautamente
qualche fatto o di aggiungerne qualche altro: è una nota che, come dice
la Yourcenar, segue l’esempio delle prefazioni erudite alle tragedie di
Racine, ma che a noi ricorda anche il Manzoni delle Notizie
Storiche premesse al1’Adelchi; del resto la concezione
di romanzo storico della Yourcenar ci pare molto vicina a quella dello
scrittore lombardo e in entrambi troviamo la capacità di avvicinare
talmente la fantasia alla realtà da rendere la prima del tutto
verosimile.
Scritto in
prima persona, il romanzo è il lungo resoconto
che Adriano, inattivo e malato, nei suoi ultimi mesi ai vita, espone
sotto forma di lettera al giovane Marco Aurelio. Il titolo della prima
delle sei parti, definite da espressioni latine, è Animula,
vagula, blandula, primo verso di quel breve e languido componimento
scritto dall’imperatore nel presentimento della morte e che è
l’autentico motore della malinconica rievocazione. La memoria del
sovrano ripercorre l’infanzia a Italica, l’arrivo a Roma, i primi
soggiorni nell’amata Grecia, l’esperienza militare nelle campagne
contro Daci e Parti, l’attività di magistrato, l’elevazione non
semplice al rango di imperatore (II parte: Varius, multiplex,
multiformis); quindi il consolidamento del proprio potere e
1’energica ed entusiasmante attuazione di un programma che ha nella
pacificazione il suo obiettivo preminente e che spinge Adriano in ogni
parte dell’impero (Già altri uomini prima di me avevano percorso la
terra: Pitagora, Platone, una dozzina di saggi, e un buon numero di
avventurieri. Per la prima volta, però, quel viaggiatore era al tempo
stesso i1 padrone, libero al tempo stesso di vedere e di riformare,
libero di creare) (III: Tellus stabilita). Ampio spazio ha
1’incontro e il rapporto con Antinoo (IV: Saeculum aureum);
seguono la morte del favorito e la rivolta giudaica che segnano l’età
delle disi1lusioni e delle amarezze affrontate con la consapevolezza di
dover comunque servire lo stato per il meglio (V: Disciplina
augusta) sino alla malattia e alla morte (VI: Patientia).
Non
interessa in questa sede valutare lo stile suadente e ricco di
evocazione della Yourcenar, né prospettare la sua visione umana che si
rispecchia nell’ humanitas piena di curiosità e azione di
Adriano (cfr. L. Furois, Pour une lecture des mémoires
d’Hadrien, roman de M. Yourcenar, Università degli Studi di
Trieste, Scuola
superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori, Monografie 2,
Trieste 1983); la coraggiosa scelta di una donna del XX sec. che ha
voluto penetrare l’intimità di un uomo come Adriano e rivivere
attraverso il suo animo e le sue sensazioni il mondo del II sec. è
indubbiamente l’aspetto più affascinante e vitale del romanzo. E’ nella
coscienza di Adriano che ritroviamo i caratteri della mentalità romana
dei primi secoli dell’impero: il senso del dovere verso lo stato,
l’amore per la civilitas che si concreta nelle grandi opere
pubblicne che i Romani realizzano e in primo luogo nella fondazione di
città. In
un mondo ancor dominato, più che per metà, dalle selve, dal deserto,
dalla terra incolta, è nello lo spettacolo di una via lastricata, di un
tempio dedicato a un dio qualsiasi, di bagni e latrine pubblici, della
bottega dove i1 barbiere commenta con i suoi clienti le notizie di
Roma, il banco del pasticciere o del sandalaio, fors’anche una
libreria, un’insegna di medico, un teatro nel quale di tanto in tanto
si recita una commedia ai Terenzio. Vi sono raffinati, tra noi, cne si
lamentano dell’uniformità delle nostre città: soffrono di trovar
dappertutto le stesse statue di imperatori, lo stesso acquedotto. Hanno
torto: la bellezza di Nîmes è diversa da quella di Arles. Ma questa
stessa uniformità, su tre continenti, appaga i viaggiatori come quella
d’una pietra miliare; persino le più insignificanti tra le nostre città
godono del prestigio rassicurante d’essere un luogo di ristoro, una
guarnigione o un rifugio, la religiosità naturale che fa percepire il
divino in sé stessi e nel mondo, l’interesse e la tolleranza per
costumi e abitudini diverse, l’intolleranza verso chi, come Cristiani
ed Ebrei, pretende con caparbietà di essere fedele al la propria
tradizione e non si adegua alla pax Romana.
E’
attraverso Adriano che conosciamo i personaggi famosi
e oscuri del suo tempo: Traiano, Plotina, Cabria, Arriano, medici,
intellettuali, servi, soldati ci sono presentati nei loro incontri
coll’imperatore e nelle riflessioni di questo; è con Adriano che
viaggiamo per le vie consolari, visitiamo le città dell’impero, è
questi che giudica e descrive monumenti e paesaggi, ci presenta i
rigidi inverni in Pannonia e una gita al colosso di Memnone, considera
l’arte e la poesia del suo tempo e dei tempi che lo hanno preceduto,
spiega le sue realizzazioni artistiche e politiche, motiva il culto
tributato ad Antinoo...
Certo,
la saggezza dell’imperatore e la lucidità con cui tante volte legge nel
futuro paiono talora eccessive e inficiate del senno di poi della
scrittrice, come quando, meditando sul futuro del1’impero, afferma: Non
tutti i nostri libri periranno; si restaureranno le nostre statue
infrante; altre cupole, altri frontoni sorgeranno dai nostri frontoni,
dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno,
sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno,
a intervalli regolari lungo i secoli, su questa immortalità
intermittente. Se i barbari si impadroniranno mai dell’impero del
mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi, e
finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno
il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma, e
rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno
venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato di
essere il capo d’una cerchia di affiliati o d’una banda di settari per
divenire a sua volta una delle espressioni universali dell’autorità.
Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di
quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicissitudini di
Roma eterna.
Tuttavia
anche questo non stona del tutto: passato e presente nel libro gettano
vicendevolmente collegamenti continui: quel poco di passato che le
testimonianze storiche ci conservano, unito a quel fondo umano uguale
in ogni tempo, fornisce all’autrice la possibilità di ricreare le età
trascorse, ma questi fantasmi non possono trascurare chi li na evocati,
guardano continuamente al futuro, ne indagano i1 mistero, cercano in
tutti i modi di superare morte e oblio.
Claudia Salvatori, Il sole
invincibile – Eliogabalo, il regno della libertà, 2011
La biografia dell’imperatore
Vario Avito Bassiano (solo dal IV secolo venne citato col nome del dio
di Emesa) fa parte di una serie curata da V. M. Manfredi col
titolo generale Il romanzo di Roma, attualmente
comprendente nove titoli. Nell’intenzione
del curatore, quindi, si tratta di biografie romanzate che
costituirebbero nel loro insieme un grande affresco storico.
L’autrice
utilizza come fonti Cassio Dione, Erodiano e l’Historia Augusta,
fondendole con una certa libertà ma quasi sempre attenendosi ai fatti
noti e accettati come plausibili. La controversa figura del ragazzo di
Emesa, erede del sacerdozio del dio del sole siriano e divenuto
giovanissimo imperatore di Roma per la volontà e la forte personalità
delle donne della famiglia, soprattutto la nonna Mesa cognata di
Settimio Severo, è presentata in una narrazione lunga e dettagliata,
fin eccessivamente particolareggiata. Attraverso le insistite vicende
sessuali e le bizzarre frequentazioni l’autrice fa emergere un
carattere inquieto e trasognato, misticheggiante e spiritoso, generoso
e illuso, il cui ideale inappagato sarebbe una sorta di divinità unica,
comprensiva di tutto e tutti. La narrazione è spesso sgradevole,
di lettura non proprio attraente; soprattutto sembra di cogliere un
giudizio che lascia perplessi: veramente il comportamento sopra le
righe di Avito era tutta buona fede? veramente “il regno della libertà”
è una definizione corretta (fra l’altro la tolleranza religiosa a lui
attribuita risulta storicamente del cugino e successore Alessandro)?
veramente Avito è stato una vittima della storia, della cultura, dello
sradicamento, dell’intolleranza e del moralismo romani?
La
presentazione dei cristiani, i due rivali Callisto e Ippolito e altre
figure minori, accentua la perplessità, introducendo l’idea che
l’unica posizione religiosa corretta sia il sincretismo di Avito, che
peraltro si riduce all’identificazione di ogni divinità nel dio di cui
è ministro.
Louis de Wohl, The
living wood, 1947, tr. it. L’albero della vita,
RCS 2004
L’autore, di origine tedesca ma
vissuto in Inghilterra dopo il 1935, ha dedicato le sue fiction a
grandi figure storiche, rivisitate secondo una viva e appassionata
interpretazione cristiana. Ricordiamo in particolare le biografie
romanzate dedicate ad Attila (Throne of the world, it. Attila),
a Giovanni d’Austria (The last Crusader, it. L’ultimo
crociato), a S.Caterina (Lay siege to Heaven, it. La
mia natura è il fuoco) a S.Tommaso d’Aquino (The quiet Light,
it. La liberazione del gigante).
Questa che
presentiamo è la storia di S. Elena. Soprattutto nella prima parte, che
peraltro dà il senso a tutto il romanzo, l’autore si muove con
grandissima libertà, giocando anche sulla limitatezza delle
fonti, comunque difficilmente contestabili: l’ostessa della tradizione,
vissuta in Asia Minore e concubina di Costanzo, diviene qui principessa
dei Tirivanti, tribù dei Britanni il cui re Cel è un profeta, e moglie
legittima di Costanzo, secondo il doppio rito romano e celta. Allevata
come un guerriero, legata alle tradizioni dei Britanni ma con spirito
libero e aperto, Elena conserva una profezia di suo padre che la
prepara alla missione di trovare l’albero della vita, più sacro di
tutti i sacri legni adorati dagli antichi culti druidici.
Quando
Costanzo è allontanato dalla Britannia che diviene preda
dell’usurpatore Carausio, Elena alleva in incognito il loro figlio
Costantino, attendendo sempre il ritorno del marito di cui ignora gli
eventi: l’elevazione a Cesare, il matrimonio con la figlia di
Massimiano Teodora dopo un ufficiale ripudio della prima moglie, la
nascita di molti nuovi figli. Accanto ad Elena si muove una comunità
cristiana a cui la donna si sente sempre più affettivamente legata,
finché l’editto di Nicomedia porterà distruzione nella piccola Chiesa.
Da quel momento scopo della vita di Elena è la libertà dei cristiani:
questo chiede a Costanzo quand’egli torna in Britannia, superando anche
il dolore del ripudio; questo ottiene sul letto di morte del marito, e
successivamente ottiene dal figlio divenuto imperatore.
Il dolore
per le colpe di cui Costantino si macchia - l’abbandono della prima
moglie Minervina per sposare la principessa Fausta, la morte di
Massimiano, la condanna a morte del figlio di primo letto Crispo,
l’uccisione della stessa Fausta - angoscia la donna ormai
vecchia. Ma l’aiuto del vescovo Osio e il ricordo dell’antica profezia
paterna le permettono di capire il suo compito: ritrovare il vero
“albero della vita”, la croce. A Gerusalemme si compirà il ritrovamento
miracoloso.
Il libro è
scritto con passione amorevole. Non solo Elena, ma anche Costanzo e lo
stesso Costantino sono osservati con magnanimità, sorvolando su qualche
aspetto e accettando nel riconoscimento della fragilità umana rispetto
alla misericordia di Dio quanto non si poteva eliminare. I
colloqui con i personaggi cristiani storici o di fiction illuminano
il senso della storia narrata. Resta certo qualche perplessità su
una libertà d’invenzione un po’ eccessiva,
Evelyn
Waugh, Helena, 1950, trad. it. Elena
– La madre dell’imperatore, 2002
Pochi anni dopo il libro di de Wohl
uscì sullo stesso personaggio questo romanzo di Waugh, il grande
scrittore inglese da alcuni anni convertito al cattolicesimo. E’
probabile che per la giovinezza di Elena Waugh avesse in mente la
versione di de Wohl: anche la sua Elena è una principessa britanna,
figlia del capo Coel, allevata come un cavaliere, quasi come un
maschio: ma è meno connotata nei suoi legami con gli antichi culti
della Britannia, così come il padre non ha le caratteristiche di
stregone-profeta del Cel di de Wohl. A differenza del predecessore,
Waugh si premura di allontanare subito dopo il matrimonio con Costanzo
Elena dalla Britannia, e di insistere sul fatto che le sue origini
devono restare nascoste per motivi politici: così si giustificano le
differenti varianti sull’origine dell’imperatrice. Nel prosieguo Waugh
riempie le lacune delle fonti con un largo ricorso all’invenzione:
tempi, luoghi, rapporti con Costanzo, con Costantino, con gli altri
personaggi del tempo sono reinventati molto liberamente. I fatti
storici per contro appaiono quasi di passaggio, o per accenni, compresa
la stessa conversione di Elena al Cristianesimo, che segue, non precede
(giustamente, dice la Sordi nella prefazione), la visione di Costantino
e l’editto di Milano.
Il
Leitmotiv del personaggio e dell’intero libro è la ricerca di fatti
certi che testimonino la verità della fede. Elena si oppone al culto di
Mitra prima, allo gnosticismo poi, con domande così semplici da essere
criticate come infantili: dove è successo? quando è successo? come fai
a saperlo? e voi come lo sapete? E domande simili rivolge a Silvestro,
il vescovo di Roma: fino a giungere alla convinzione che c’è bisogno di
un fatto visibile, quando anche i cristiani sono divisi da eresie e
dispute teologiche. La Croce “dichiara un fatto”.
L’edizione
italiana, oltre alla prefazione di M.Sordi (che avanza qualche riserva
sul personaggio di Costantino), ha an’ampia postfazione di L.
Parmeggiani che commenta la figura e l’opera dell’autore con
interessanti riferimenti al testo.
Gore Vidal, Julian,
1964, tr. it. Giuliano, 2003
Scritta
dal famoso autore americano molto discusso per le scelte politiche,
culturali e personali, quest’opera si legge in realtà con grande
interesse. L’inizio è collocato nel 380, quando all’anziano retore
Libanio, pagano e legato alle religioni misteriche, giunge la notizia
che l’imperatore Teodosio si è fatto battezzare ed ha emesso un editto
favorevole alla fede cristiana secondo il credo di Nicea. Desolato per
questo fatto che sembra distruggere definitivamente il mondo in cui è
vissuto, Libanio inizia uno scambio di lettere col retore e filosofo
Prisco, allo scopo di riordinare e pubblicare il diario di Giuliano, di
cui Prisco è in possesso dall’epoca della morte dell’imperatore in
Oriente. La fiction vera e propria consiste quindi
nell’autobiografia di Giuliano, che giunge fino alla vigilia della
partenza per la spedizione contro il re Sapore di Persia e si completa
con appunti presi dall’imperatore nel corso della campagna. Per evitare
il rischio di ogni autobiografia fittizia (un’opera per sua natura
soggettiva scritta da altri), il testo di Giuliano è intercalato da
commenti di Prisco e Libanio, che correggono, spiegano, polemizzano con
l’autore e fra loro; le ultime vicende di Giuliano sono narrate da
Prisco, prima attraverso i suoi ricordi, poi con un’indagine che
porterà ad un colpo di scena. Infine Teodosio proibirà la pubblicazione
del diario e Libanio, abbandonato bruscamente da Prisco che rifiuta di
insistere nell’impresa, contemplerà con tristezza la fine del mondo
amato.
“Una
splendida aubade” è la definizione di Henry de Montherlant.
E in effetti, al dilà della banale e ideologica postfazione
dell’edizione italiana, l’opera è un omaggio alla cultura classica, i
suoi filosofi, i suoi poeti, i suoi storici, i suoi oratori, le sue
intuizioni religiose; inevitabilmente nelle parole di Giuliano, Prisco
e Libanio il cristianesimo risulta una “follia per i gentili”, e le
polemiche dottrinali qualcosa di incomprensibile (un appunto:
l’immacolata concezione non è il concepimento verginale! una gaffe
imperdonabile). Una folla di personaggi storici, pagani e cristiani
(fra questi ultimi Basilio di Cesarea, Gregorio Nazianzeno, Giovanni
Crisostomo), romani, greci e barbari è fatta rivivere con uno stile che
avvince e tiene sempre desto l’interesse.
Louis de Wohl, Attila the Hun,
1949, tr. it. Attila – La
tempesta dall’Oriente, 2010
Con un largo ricorso alla fiction,
l’autore pone fortemente l’accento su una storia di amore fra
Etel (non ancora Attila, il “piccolo padre” del suo popolo) e Onoria,
sorella del giovane imperatore Valentiniano III, che ha origine ad
Aquileia dove Etel si trova come ostaggio. Onoria rimane incinta,
ma Etel fugge prima di sapere del bambino: il parto avviene di
nascosto, il bambino è sottratto alla madre e Onoria chiusa in un
convento a Costantinopoli. Lo spunto storico di questa lovestory è
la reiterata richiesta di Attila di aggiungere al suo harem la sorella
dell’imperatore, con una parte dell’impero in dote: del resto già la
madre di Onoria, Galla Placidia, era stata sposata col re dei Visigoti.
Ma l’unione richiesta non fu ottenuta.
La vicenda
amorosa, mai più realizzata, percorre tutto il libro: col desiderio di
Attila di avere un figlio veramente degno, con le manovre di Onoria per
avere contatti con l’amante, fino ad un tragico episodio che determina
la morte di Onoria e alla lunga anche quella di Attila (un topos romanzesco
alla Nicholas Nickleby di
Dickens). Topica è anche la crudeltà violenta e inesausta di Attila e
dei suoi. Figure emergenti sono Galla Placidia, donna forte e
dominatrice nel bene e nel male, e naturalmente papa Leone, il cui
incontro con Attila è posto in forte risalto; in secondo piano altri
personaggi, compreso Aezio, il vincitore ai Campi Catalaunici (la
stessa battaglia è appena accennata).
Michelle Loi, Attila mon ami.
Mémoires d’Aetius, Parigi, 1997
L’autrice, una sinologa che ha
dedicato la maggior parte delle sue opere al poeta cinese novecentesco
Luxun (Lu Xun), affronta in questa un tema particolare: l’autobiografia
del generale romano-pannonico Aezio, dedicata al figlio Gaudenzio e
incentrata soprattutto sui suoi rapporti col sovrano degli Unni. La
finzione è spinta fino alla definizione dell’autrice come editrice
critica e commentatrice (texte établi et annoté par): tuttavia
l’epilogo post mortem esce inevitabilmente dalla
fiction.
Risulta
chiaro che tutto il testo è una difesa: una difesa di Attila, il suo
carattere, la sua cultura, le sue giuste ragioni, i suoi matrimoni e i
rapporti familiari, la sua moderazione rispetto ad altri barbari, la
sua religiosità pagana legata alle tradizioni del proprio popolo anche
dopo l’incontro (e il rifiuto) di altre religioni. Ma anche
un’autodifesa: dell’intero operato politico-militare di Aezio,
sempre contrastato e incompreso, sempre leale a entrambe le parti
dell’impero, abile nella strategia e nelle alleanze, preveggente,
corretto fino a combattere e sconfiggere l’antico compagno (Aezio da
ragazzo era stato ostaggio degli Unni, poi Attila stesso era stato
ostaggio dei Romani) ma disposto, con giuste motivazioni, a
lasciarlo partire dopo la sconfitta.
L’insieme
risulta forzatamente agiografico nello sforzo di rivalutazione del re
unno ed estremamente lamentoso nell’apologia di se stesso: quindi alla
fin fine un po’ monotono. Si aggiunga che la stesura è piuttosto
frettolosa, con diverse sviste (confusione di parentele, qualche errore
di date o nomi di luoghi, ripetizioni di informazioni nelle note, il
titolo dell’opera di Salviano indicato per due volte come De
gubernatore Dei invece che De gubernatione Dei).
Tuttavia ci sono dei pregi: la descrizione della battaglia dei Campi
Catalaunici è attraente, così come il lento ritiro dei diversi
contingenti alleati dalle vicinanze del campo in cui Attila sta per
uccidersi con tutti i suoi. La rilettura del tardoantico (come è per le
biografie di Stilicone e di Galla Placidia nell’altra parte di questa
rubrica, di Giuliano in questa) serve comunque sempre a suscitare
curiosità e a spingere ad approfondimenti. Il ruolo degli uomini e
donne “vestiti di bianco”, santi, e sante, vescovi e papi, nella
salvezza di ciò che resta dell’impero, pur osservato con gli occhi
scettici di Aezio e dell’autrice, colpisce e interessa.
Louis de Wohl, The Restless Flame,
1979, tr. it. Una fiamma
inestinguibile. L’avventurosa vita di sant’Agostino, 2015
L’autore,
già noto in questa rubrica per le biografie romanzate di s.Elena e
Attila, ha per la biografia di Agostino un vantaggio che non possedeva
per quelle citate e le molte altre sue opere, cioè la possibilità di
utilizzare il diario spirituale del suo personaggio, le Confessioni.
Pur ricreando liberamente situazioni e figure, de Wohl segue il
percorso tracciato da Agostino stesso, giungendo fino al battesimo e
alla morte di s.Monica. Terminata la traccia dell’autobiografo, l’opera
avrebbe dovuto utilizzare molte altre fonti e divenire più complessa e
rischiosa. De Wohl invece sceglie sostanzialmente di interrompersi:
infatti l’ultimo libro salta gli eventi dal 387 al 428 e riprende a
ridosso della morte del santo e dei drammatici eventi dell’invasione
vandalica. Si rimpiange un po’ di non avere un quadro più ampio degli
anni del sacerdozio e dell’episcopato di Agostino, gli anni delle sue
opere teologiche. Comunque il
quadro delineato della vita politica ed ecclesiastica dell’epoca è di
grande interesse. Curioso il fatto che molto è osservato con gli occhi
ammirati e un po’ ingenui di Alipio, personaggio presentato in una
veste così inferiore, quasi succube, rispetto al grande amico, che ci
stupiamo di ritrovarlo primate di Numidia.
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