"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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MARZIALE, Epigrammi
(Traduzione di PIETRO RAPEZZI)
Casta com’era una sabina antica,
più austera dello stesso arcigno sposo,
Lavina, mentre corre ora al Lucrino,
ora al lago d’Averno e dentro le acque
di Baia si ristora, prende fuoco:
pianta in asso il marito e segue un giovane:
Penelope arrivò, riparte Elena.
Ogni volta che dico ficus, ridi
come d’un barbarismo
e vuoi che dica, Ceciliano, ficos.
Diremo ficus quelli che produce
la pianta, chiameremo invece ficos
quelli che hai tu nel culo, Ceciliano.
Se i Celesti mi dessero un milione
di sesterzi, solevi dire, Scevola,
quando non possedevi ancora il censo
di cavaliere, oh quale vita splendida,
quale vita beata condurrei!
Sorrisero gli dèi condiscendenti
e soddisfecero il tuo desiderio.
Da quel giorno più sordida hai la toga,
il mantello più misero, le scarpe
tutte toppe. Di dieci olive serbi
la maggior parte, bevi quella feccia
di vino che è il rossastro Veientano,
un asse spendi per i ceci, un asse
per Venere. Su, andiamo in tribunale,
o ingannatore e spergiuro: o deciditi
a godere la vita o restituisci
il milione, Scevola, agli dèi.
Terre hai da solo, Candido, denari
hai da solo, da solo vasi d’oro,
vasi di murra da solo, da solo
Massico, vecchio Cecubo da solo,
cuore hai da solo, da solo cervello.
Tutto hai da solo, è vero, ma la moglie
ce l’hai in comune, Candido, con tutti.
Che così forte puzzino
gli orecchi a Mario tu ti meravigli?
E’ tua la colpa, Nestore:
dentro agli orecchi sempre gli bisbigli.
EFFETTI DI UNA VISITA MEDICA (V 9)
Non stavo bene: subito,
Simmaco, accompagnato
dai cento tuoi discepoli,
da me con grande pompa sei arrivato.
Cento mani, dal gelido
borea ghiacciate, allora
m’hanno palpato: l’esito?
Prima ero senza febbre; ce l’ho ora.
Povero sono, Callistrato, e sempre
lo sono stato, è vero, ma non sono
un cavaliere oscuro e malfamato,
ho lettori in ogni angolo del mondo
e per la strada mi si mostra a dito.
La gloria, che soltanto pochi ottengono
dopo la morte, io l’ho raggiunta in vita.
I tuoi palazzi sopra centinaia
di colonne si adergono, i tuoi scrigni
rinserrano tesori da liberto,
a Siene lungo il Nilo hai sterminati
possedimenti, per te nella gallica
Parma si tosano infinite greggi.
Questo siamo io e tu: ma tu non puoi
essere ciò che io sono; uno qualunque
può diventare quello che sei tu.
Pur avendo, Labieno, visto te
seduto solo, vi ho creduti in tre.
E’ la pelata tua che m’ha ingannato:
da una parte e dall’altra sei chiomato,
come si addice anche a un ragazzo, al centro
sei tutto nudo e non si scorge dentro
la piazza un solo pelo. Questo errore
t’ha avvantaggiato con l’imperatore,
quando a dicembre ha offerto cibi e doni:
a te sono toccate tre razioni!
Penso che tale fosse l’apparenza
di Gerìone. Dunque abbi prudenza
e scansa di Filippo il porticato:
com’Ercole t’adocchia, sei spacciato.
SCELTA DELLA PROFESSIONE (V 56)
A qual maestro affidare tuo figlio
mi chiedi spesso, Lupo, preoccupato.
Fuggi tutti i grammatici ed i retori;
niente abbia a che vedere con i libri
di Cicerone e di Virgilio; lasci
Tutilio alla sua fama; se fa versi,
disereda il poeta. Vuoi che impari
un mestiere lucroso? Fagli fare
il citaredo o il flautista del coro;
se ti sembra che sia di testa dura,
di lui fa’ un banditore o un architetto.
Non è questa una causa per violenza,
spargimento di sangue o veneficio:
si tratta solo delle tre caprette,
che il vicino (io l’accuso) m’ha rubato.
Reclama prove il giudice: tu invece,
con larghi gesti e voce reboante,
citi Canne e la guerra mitridatica
e gli spergiuri della rabbia punica
e i Silla e i Marii e i Muzii. Parla alfine,
Postumo, è l’ora, delle tre caprette.
Non c’era alcuna bella come te,
Licòri, un tempo: bella come Glìcera
oggi non c’è nessuna. Ella sarà
come sei tu, ma tu più non potrai
essere come lei. Cosa fa il tempo!
Prima volevo te, ora voglio lei.
Se una turba togata di clienti,
Pomponio, ti magnifica ed acclama,
non tu, le cene tue sono eloquenti.
Ila voleva poco fa pagarti
i tre quarti del debito, quand’era
cisposo; ora che è guercio,
vuol darti la metà. Spicciati, Quinto,
a compiere l’affare: quando Ila
sarà cieco, non beccherai più niente.
Cosa c’entri con noi, o scellerato
maestro, detestato da fanciulli
e fanciulle? Non hanno ancora i galli
crestati rotto il silenzio notturno,
che già rintroni con i tuoi latrati
e le sferzate. Con tale fragore
sulle percosse incudini rimbombano
i bronzi, quando l’artefice adatta
al cavallo la statua del causidico;
più temperato rumore si leva
nel vasto anfiteatro, quando al piccolo
scudo vincente volano gli applausi.
Noi, tuoi vicini, anche se non per tutta
la notte, ti chiediamo il sonno: è lieve
vegliare un po’, vegliare sempre è atroce.
Licenzia i tuoi scolari: vuoi ricevere,
per stare zitto, lo stesso compenso
che ricavi, o ciarlone, per gridare?
A UN
AMICO D’INFANZIA (X 13/20)
Se alle aurifere spiagge mi richiama
il celtibèro Salo, se dei penduli
tetti della mia patria ho nostalgia,
ne sei tu la cagione, Manio, amato
dai teneri anni della fanciullezza
ed a me avvinto con dolce amicizia
nel tempo in cui vestivo la pretesta,
tu di cui non c’è un altro tra gli Ibèri
a me più caro e più degno di amore.
Insieme a te pure nelle infuocate
tende getùle o nelle lande scitiche
amerei stare. Se d’un solo cuore
sei con me, se reciproco è l’affetto,
qualunque luogo per noi vale Roma.
A UN SEDICENTE AMICO (X 15/14)
Non c’è nessuno, Crispo, dei miei amici,
a cui tu sia inferiore nell’affetto
verso di me, sostieni. Ma, vuoi dirmi,
ti prego, cosa fai per dimostrarlo?
Quando t’ho chiesto un prestito di cinque
mila sesterzi, me l’hai rifiutato,
sebbene i tuoi forzieri traboccassero
di ricchezze. Non una sola volta
m’hai dato un moggio di fave o di farro,
quantunque tu abbia terre anche sul Nilo.
Non una sola volta m’hai mandato
uno straccio di toga per il gelido
inverno. Mai da te una mezza libbra
d’argento ho ricevuto. Non ravviso
nessuna prova, Crispo, per cui debba
considerarti amico, eccetto il fatto
che suoli scorreggiare in mia presenza.
Ieri hai venduto uno schiavo per mille
e duecento sesterzi, Calliodoro,
per fare almeno una volta un buon pranzo.
Ma non hai fatto un buon pranzo: la triglia
di quattro libbre da te comperata
è stata tutto il lusso della mensa.
Mi vien voglia di urlarti: “Non è questo,
o scellerato, non è questo un pesce;
è un uomo: un uomo mangi, Calliodoro”.
Nulla mi dai da vivo:
dici che dopo morto mi darai.
Se non sei un po’ tardivo,
Marone, ciò che t’auguro lo sai.
O calessino, dolce solitudine,
a me più grato della più spaziosa
carrozza, dono del facondo Eliano!
Qui puoi con me, qui puoi, Giovato, dare
libero sfogo al tuo cuore: non c’è
il nero conducente di cavalli
libici, né ci precede il succinto
battistrada; non c’è il mulattiere;
i cavallini non ci tradiranno.
Oh se fosse con noi anche il nostro Avito,
non avrei da temere un terzo orecchio.
Come felici i giorni volerebbero!
Quando ti chiedo del denaro in prestito
senza un pegno, mi dici: “Non ce l’ho”;
se per me garantisce il campicello,
ce l’hai. Quello che neghi, Telesino,
a me, tuo vecchio amico, lo concedi
ai miei cavoli ed alberi. Ecco, Caro
ti fa causa: ti assista il campicello.
Cerchi qualcuno che ti sia compagno
nell’esilio: ti segua il campicello.
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