Anton Maria Salvini
 

 

 

 

"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

  HomeChi siamoLa rivistaTestiDidatticaAttivitàGuestbookVariaCerca

 

Il poeta e letterato fiorentino Anton Maria Salvini (Firenze, 1653-1729), molto noto e apprezzato dai suoi contemporanei, in Italia e all'estero (fu ammesso come membro nella Royal Society di Londra, presieduta a quell'epoca da Isaac Newton), impegnò buona parte della sua esistenza a un'appassionata opera di difesa e divulgazione della letteratura antica. Tradusse numerose opere, poetiche e prosastiche, soprattutto dal greco (importanti sono soprattutto le sue traduzioni in endecasillabi sciolti dell'Iliade e dell'Odissea), ma non disdegnò di cimentarsi in traduzioni di poeti suoi contemporanei (era ottimo conoscitore della lingua francese, inglese e spagnola, oltre che esperto di lingue classiche e di ebraico). Fu anche studioso di lingue, e a lui si deve, oltre alla cura di sezioni del Vocabolario della Crusca (accademia di cui era membro), un vocabolario del dialetto toscano.

Riportiamo qui alcuni passaggi di un discorso intitolato Apologia della lingua greca, inserito in una grossa opera in tre tomi) di Discorsi accademici pronunziati dinanzi ai soci dell'Accademia degli Apatisti. Nonostante il tono un po' enfatico delle sue argomentazioni, il Salvini trova buone ragioni per illustrare l'importanza della lingua greca, visibilmente richiamando per contrastarle, in alcuni passaggi, le affermazioni del Tassoni.

 

(N. B. Sono mantenute la grafia e la punteggiatura originali, senza adattamenti)

 

 

DISCORSI ACCADÈMICI DI ANTON MARIA SALVINI
Sopra alcuni dubbj propofti nell'Accademia degli Apatisti.

Firenze 1695

 

Dal Discorso Cinquantesimo settimo (pag. 210 e ss.)

Apologia della lingua greca

 

Il suono della lode delle greche lettere, che s’è udito copiosamente risonante in questa veramente Attica veglia, è tanto unisono alla temperatura del mio cuore, alla greca facondia maravigliosamente divoto, che io non posso far di meno di non accordare al suo discorso alcuna mia voce intorno a quella professione, che io, sedici anni è omai, e da vantaggio, che in questa città per alto beneficio del nostro Sovrano, e Protettore in particolare di questa Accademia , pubblicamente, ho l’onore di professare.

(...)

Ne’ libri di Platone, e di tutti di quella schiera sta racchiuso ogni bene, ogni tesoro, onde il nostro dire divenga ricco. Ma dicono alcuni male informati. A che ferve questa lingua greca? A che serve? Oimè! Io noi vel saprei dire. In una parola: a tutto. Tutte le scienze furono in quella primieramente trattate con maestà, con ornamento, con copia. L’eloquenza è di suo patrimonio. A che serve? dice la gente al vil guadagno intesa. Serve a moltiplicare con infinita e bella usura il capitale del sapere; serve a far vive le ricchezze della mente; quelle ricchezze, il frutto, e ’l pregio delle quali è inestimabile; né può essere, se non dalle belle anime conosciuto. Il Galileo interrogato a che serviva la geometria? Serve, diceva quel buon Vecchio, a misurare i goffi. Eh che questa è una interrogazione da ozioso, da codardo, da neghittoso, da piccolo cuore e meschino, che sdegna di mercare la virtù col sudore, e pure questo è il prezzo, col quale gl’Iddii diceva il buon Comico Epicarmo, danno ai mortali le buone cose. La fatica, che si spende nel formare i nostri intelletti, e nell’ arricchirci di nobili cognizioni, è preziosa, e fruttuosissima, e a questo fare le lettere greche fono acconcissime, anzi uniche, come quelle, nelle quali si conservano ad onta del tempo, e dell’obblio d’ogni cosa distruggitore, le più insigni memorie dell’antichità, gli aurei avanzi della più fina eloquenza, gli erarj delle Scienze, e delle facultà più Segnalate e più nobili, e il sugo, e la midolla delle più celebri filosofie, della teologia più perfetta. Il voler sapere a che serve uno studio, prima dì donarsi a quello, è un volerne saper troppo; un sapere innanzi tempo, che non perviene a maturità, né fa frutto; un accidioso antivedere; un cercar pretesti, e scuse di fuggire la fatica, la quale non è però così grande, che non sia nello spazio di pochi mesi col gusto , e coll’ utilità ampiamente ristorata. Dio buono ! Chi è quegli, a cui non sia pervenuto il suono della fama, dopo tanti e tanti fecoli fresca ancora, e vegliante degli Omeri, de’ Demofteni, degli Aristoteli, de’ Platoni? E per dire de’ noftri, de’ Crisòstomi, de’ Basilii, de’ Nisseni, de’ Nazianzeni? Or come un animo gentile e generoso non si sentirà tocco da bella vaghezza d’udir costoro, e d’intendergli; di penetrare ne’ loro sentimenti, dì prendere la loro pratica e conversazione, e farsegli amici, e famigliari. Oh! sono stati tutti tradotti. Non occorre adunque affaticarsi di studiare la loro materna lingua. Questa è una proposizione da non risponderle , se non con un ghigno, e ghigno di compassione. Sarà il medesimo dunque l’intendere altri favellare nel proprio linguaggio, o pure l’intenderlo per via d’interpetre, o di torcimanno? Lasciamo andare tanti sbagli, tanti errori gravissimi, che dagl’ interpetri si commettono tutt’ora; essendo qnesti per lo più gente ardita, e poco pratica della lingua, da cui si traduce, e di quella, in cui si traduce; quando anche tutte le doti vi concorressero d’un buono, fedele, ornato, e giudizioso interpetre, l’autore vestito alla foggia straniera non sarà mai quegli; non avrà quello spirito, né quel vigore, che possiede nella sua natural lingua; sarà fiacco, ed esangue nell’espressione, trasfigurato ne’ sentimenti, spogliato di quella natìa grazia, pompa, e leggiadria, di cui egli andava superbamente ammantato. Ogni lingua ha i suoi particolari vezzi, e le maniere adattate al genio non solo universale del paese, ove ella sortì i suoi natali, ma anche al particolare costume, ed alla natura di colui, che scrive; il quale nelle carte, che verga, di se medesimo fa ritratto. Or come un liquore travasato perde di suo sapore, una pianta trapiantata in istranio suolo, non fa prode; così i sentimenti svelti, per così dire, dal buon terreno, e dall’aria di quella mente, che gli produsse, malmenati in altra terra, e straziati intristiscono. Il che io farei con gli esempj manifesto, se non mi fusse a cuore la brevità, e se l’accennarlo solamente, a chi intende non fusse in luogo di lunga prova. Or via dunque s’impari quefta lingua. Ma quanto tempo ci vuole ad apprenderla? Mirabile domanda! Poco, e molto, secondo la diligenza, che vi s’impiega. Non è utile , alcun dice, per la Repubblica. Non vi è l’Imperader greco; non vi è più con esso commercio. Primieramente tutte l’arti ancor più vili, minuali, e meccaniche sono utili par la Repubblica. Ma che cosa è ciò, ch’io sento? Non sono utili pel pubblico le lettere, l’istoria, e l’erudizione? E chi può mai chiamarsi perfettamente erudito senza le lettere greche? Le quali fono così inviscerate in tutto ’l corpo delle scienze, che senza esse (perdonatemi ciò, ch’io sono per dire) è palpitante, e semivivo il sapere. In fecondo luogo la tirannia Ottomanna ha rapito a’ greci lo stato, e l’Imperio, ma non la sovranità delle lettere; la quale sarà eterna; né tutte l’armi della barbarie, né le persecuzioni dell’ignoranza potranno mai atterrarla. E quando il barbaro Oriente con gran diluvio di guerra a’ danni suoi congiurava un solo gran Cittadino di nostra Patria Cosimo il vecchio s’oppose; e diede all’afflitta greca letteratura, e dalla sua nativa sede cacciata, in Fiorenza, novella Atene, e nel suo stesso palazzo ricovero.

 

 

 

 

 

(torna alla homepage di Zetesis)

(torna alla sezione Testi)

(torna alla pagina Perché studiare il mondo classico?)

Print Friendly and PDFCliccando sul bottone hai questa pagina in formato stampabile o in pdf



Per tornare alla home
Per contattare la Redazione


Questo sito fa uso di cookies. Privacy policy del sito e autorizzazione all'uso dei cookie: clicca qui