"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Dalla letteratura cristiana antica a oggi Per capire l’evoluzione di pāx nel latino tardo e medievale ci si deve rifare agli usi cristiani. Oltre ai valori già visti, la parola viene impiegata dai Cristiani nel senso specifico di ‘libertà dalle persecuzioni’, inoltre si diffonde l’uso dell’espressione in pace dormire (v. anche la sezione dedicata a Pace nell’AT per quanto riguarda l’origine dell’espressione medesima) per indicare il sonno della morte. In alcune iscrizioni pax viene a indicare il riposo eterno dell’anima cristiana e si contrappone alla cura temporale, il saeculum. Il valore molto particolare e per così dire imprevedibile di ‘bacio’ che pāx assume risulta da un’abbreviazione dell’espressione osculum pacis o osculum sanctum, nome che si dava al bacio di pace e di riconciliazione che i credenti si scambiavano durante la liturgia della messa. Da qui la specializzazione della parola in questo senso molto particolare nel termine provenzale (semidotto) pais: anche al di fuori del mondo romanzo la parola è assunta con questo valore, ad es. in territorio celtico nel prestito irlandese pōc o nell’inglese moderno peace. Più a monte, l’espressione liturgica date vobis pacem (nella traduzione italiana attuale scambiatevi un segno di pace) è un calco del gr. e„r»nhn didÒnai o poie‹n, che a sua volta si rifà a un’espressione rabbinica. Vale la pena osservare che queste formule (fare pace, mettere pace) sono divenute molto popolari anche al di fuori dell’ambito liturgico e religioso. [Nell’evoluzione
verso le lingue romanze la parola rimane come termine vivo e vitale in tutto il
territorio: abbiamo così come diretti continuatori del termine l’it. pace,
il rum. pace, il sardo page, il fr. paix, lo spagn.
e il port. paz, il prov. patz. Il verbo derivato pacare si
è ben presto allontanato dal valore originario e si è specializzato in quello
odierno di ‘pagare’ (it. pagare, fr. payer, prov., cat., spagn.,
port. pagar, ant. rum. păca): in ant. spagn. e ant. port. il
participio pagado ha ancora mantenuto il valore di ‘in pace,
tranquillo’; prossimo al valore originario il composto italiano appagare.
Le continuazioni di pax e di pacare sono registrate dal REW rispettivamente
ai nn. 6317 e 6132. Trascuriamo alcune continuazioni di uso molto particolare,
come p.es. pugliese pače ‘tipo di pane
con incisa l’immagine di Gesù bambino’. Altri derivati di pāx nelle
lingue romanze sono il fr. apaisenter < *ad-pacentare;
sp. apaciguar, cat. apayabagar < ad-pacificare] Non possiamo qui seguire l’evolversi della concezione di pace nel pensiero occidentale, anche perché una problematica del genere esulerebbe dai fini della nostra esposizione, orientata all’esplorazione dei contenuti semantici del termine. Ricorderemo solo che molti pensatori moderni e molti movimenti hanno richiamato al valore della pace nel corso dei secoli, dal medioevo a oggi, sia sul piano religioso con appelli alla pace come valore universale sia sul piano politico (con richiami o riflessioni sulle possibilità e i metodi di una prassi pacifica nei rapporti interstatali e con la proposta di creare organismi sovranazionali destinati ad arbitrare le controversie di natura politica). Ancora meno è possibile qui richiamare i nomi di grandi leader religiosi e politici, occidentali e orientali, che hanno fatto del richiamo alla pace il nucleo principale della loro azione o del loro pensiero. Il tutto non ha impedito il protrarsi delle guerre, fino alle grandi catastrofi dei due conflitti mondiali del XX secolo. Senza entrare nei particolari, per ovvie ragioni di spazio, e limitandoci all’ambito italiano, noteremo soltanto che nell’epoca moderna si assiste a una progressiva desemantizzazione di pace. Il Dizionario del Battaglia così definisce la parola: "Condizione normale dei rapporti bilaterali fra i vari Stati ... caratterizzata come elemento minimo ed essenziale dall’assenza dello stato di guerra ... e dal reciproco rispetto di sovranità, indipendenza, integrità territoriale". Anche per il Vocabolario Treccani pace è fondamentalmente la "condizione di normalità di rapporti, di assenza di guerre e conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc., sia ell’esterno con altri popoli, altri stati, altri gruppi". A conclusioni più o meno simili conduce l’esame di altri strumenti lessicali di uso corrente, come il Devoto-Oli o lo Zingarelli. Certo nell’uso odierno si percepisce pace nel senso di ‘assenza di conflitti armati’: è quindi comprensibile la scelta dei lessici che, rifacendosi innanzitutto all’uso moderno, privilegiano questa accezione. Meno comprensibile una scelta del genere da parte di un’opera che, come il Battaglia, dovrebbe dare maggiore risalto alla dimensione storica della lingua. Dire che pace da un punto di vista storico-etimologico significhi ‘assenza di guerra’ è di già di per sé inesatto: ma le ulteriori specificazioni che il Battaglia adduce fanno parte di un modo moderno di concepire le relazioni fra Stati, e risulta quindi anche inadeguato per eccesso. Che l’uso primitivo del termine comprendesse anche i valori indicati dal Battaglia mi pare indubbio: che la coscienza del parlante li percepisse come primari è quanto meno problematico. Del resto, una scorsa anche veloce all’articolo mostra che pochi degli esempi recati per questo primo valore appartengono ad autori dei primi secoli della nostra storia letteraria, mentre per alcune delle accezioni successive gli esempi recano testimonianze di autori arcaici in misura assai più nutrita. Per limitarsi alla Divina Commedia, è assai dubbio che delle trentasei occorrenze di pace nell’intiero poema (5 Inf.; 17 Purg.; 14 Par.) più di tre al massimo si potrebbero inquadrare (e non senza sforzo!) nella definizione del Battaglia. Sarebbe interessante, ma non può essere fatto in questa sede, seguire le vicende della moderna concezione della pace. Nel XIX e XX sec. ci si è ulteriormente allontanati dalla concezione primitiva, e all’idea di pace tipica della tradizione occidentale si sono sovrapposte modo di pensare che hanno la loro origine nella concezione indiana della non-violenza (ahiṃsā). L’idea che la pace possa essere un valore assoluto, del tutto sganciato da qualsiasi considerazione di etica o di giustizia, è stata diffusa da una propaganda martellante: la parola pacifismo, giunta in Italia dalla Francia nei primi anni del sec. XX, usata inizialmente con una connotazione apertamente dispregiativa, ha assunto col passare del tempo valore positivo. Pacifista indicava in origine chi si adopera per il raggiungimento di una pace che risulta favorevole a una potenza straniera. Assumendo successivamente un significato fondamentalmente positivo, la parola ha finito in anni recenti per prendere il posto del preesistente pacifico, termine della tradizione cristiana che indica chi non solo si adopera per diffondere un messaggio di pace, ma anche vive il valore che si impegna a predicare. [Cfr. NT Mat. 5, 9
"Beati gli operatori di pace (e„rhnopoio…, pacifici),
perché saranno chiamati figli di Dio". Nella tradizione
giudaico-ellenistica e„rhnopoiÒj (ed
e„rhnofÚlax) è Dio, in quanto difende il popolo dai nemici
(Filone, spec. leg. 2, 192). Cfr. anche Foerster, art. cit, coll. 241-243 (si deve risalire al rabbinico ·sh šlwm, "che indica
l’opera di chi stabilisce concordia e pace fra gli uomini")]. [Sulla
problematica del pacifismo si veda, oltre alla bibliografia citata nella
premessa, per una esame del pensiero e dell’attività pacifista da un punto
di vista istituzionale e politico nel XX secolo, la voce Pacifismo in Enciclopedia
Italiana, Appendice 2000, L’eredità del Novecento, Roma 2000.
Per la parola francese pacifisme, falsa costruzione da pacem e facere
– ci saremmo aspettati pacificisme – si pone come data di nascita il
1901; per le corrispondenti parole italiane pacifismo e pacifista il
DEI pone come data di prima utilizzazione rispettivamente il 1905 e
1908. L’atteggiamento
di sostanziale discredito con cui furono guardati i movimenti pacifisti nella
prima metà del sec. XX portò all’uso della parola pacifondaio, coniata
secondo guerrafondiaio, e panciafichista, deformazione
dispregiativa di pacifista, termine coniato dal giornalista Vamba e poi
ampiamente utilizzato soprattutto dalla propaganda mussoliniana. Rinviamo al
Battaglia per un profilo più esauriente di queste due parole, oggi peraltro
uscite dall’uso] Unica voce dissonante rispetto a questa semplificazione interessata della cultura odierna è quella della Chiesa. In ogni circostanza e in tutti i momenti, anche i più tragici, della vita moderna, la Chiesa non ha cessato di far sentire la sua voce che richiamava o implorava la pace, e il ruolo centrale della pace nell’insegnamento cristiano è ribadito da importanti documenti della Chiesa apparsi nel corso del XX secolo, quali le encicliche Populorum progressio o Pacem in terris. [Molti interventi sulla pace dei vari Pontefici del XX secolo da Leone XIII a Paolo VI possono essere letti nel fascicolo antologico La Chiesa e la Pace, con prefazione del card. G. Colombo, Milano s.d. (ma 1969).] Una voce di grandissimo rilievo che con inesauribile vigore, negli ultimi decenni, ha richiamato ai valori della pace è quella di Giovanni Paolo II, che in più occasioni durante il suo pontificato ha esaltato la pace, sottolineando però nel contempo che non è possibile disgiungere i valori di questa dai valori di giustizia e di libertà: non è pace quella che non comporta un rispetto per l’altro (nazione o individuo) e non gli consente di esprimere e manifestare liberamente la sua personalità. Numerosi sono gli interventi che si potrebbero citare a questo proposito: ci limitiamo a un paio di passi, che ci sembrano particolarmente significativi. Nella prima enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor hominis, leggiamo fra l’altro queste parole (p. III, cap. 6): In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo – opera di giustizia è la pace –, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancora più gravi violazioni di essa. Se i diritti dell’uomo vengono violati in tempo di pace, ciò diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta un incomprensibile fenomeno della lotta contro l’uomo. E nel discorso alle autorità polacche del 2 giugno 1979 (n. 3): La pace e l’avvicinamento fra i popoli si possono costruire soltanto sul rispetto dei diritti oggettivi della nazione, quali: il diritto all’esistenza, alla libertà, ad essere sogetto socio-politico ed altresì alla formazione della propria cultura e civilizzazione. Più recentemente, nell’omelia pronunziata durante la celebrazione della Giornata della Pace (1 gennaio) del 2001, il Papa, rifacendosi a un suo precedente intervento che definiva la pace "obiettivo primario di ogni società e della convivenza civile e internazionale", ha esplicitamente dato rilievo ai valori della solidarietà, della giustizia, della difesa della vita, che sono i contenuti essenziali e ineliminabili di una vera cultura del dialogo e della pace. Rinnovo oggi, in questa suggestiva cornice
liturgica, ad ogni persona di buona volontà l'invito accorato a percorrere
con fiducia e tenacia la via privilegiata del dialogo. Solo così le
ricchezze specifiche, che caratterizzano la storia e la vita degli uomini e dei
popoli, non andranno disperse, ma, al contrario, potranno concorrere a
costruire un'era nuova di fraterna solidarietà. Sia sforzo di tutti promuovere
un'autentica cultura della solidarietà e della giustizia, strettamente
"collegata con il valore della pace, obiettivo primario di ogni società e
della convivenza nazionale e internazionale" (Messaggio per la Giornata
mondiale della Pace, 18). Ciò è ancor più necessario nell'attuale
contesto mondiale, reso complesso dalla diffusa mobilità umana, dalla
comunicazione globale e dall'incontro non sempre facile tra culture diverse. Al
tempo stesso, va con vigore ribadita l'urgenza di difendere la vita,
fondamentale bene dell'umanità, giacché "non si può invocare la pace e
disprezzare la vita" (Ibid., 19). All’inizio dell’anno successivo, in una situazione internazionale particolarmente difficile, e di fronte a un’opinione pubblica mondiale ancora scossa e disorientata da recenti fatti di terrorismo assolutamente privi di raffronto con qualunque azione terroristica mai prima compiuta, non solo per l’esito tragico ma anche per la dovizia di mezzi materiali e per la capacità organizzativa di cui i gruppi terroristici avevano dato prova, il Papa riprendeva e ribadiva il suo precedente insegnamento, ampliandone ulteriormente l’orizzonte, con un discorso significativamente intitolato Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono. Dopo aver richiamato le tragiche vicende del settembre 2001 (fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura) il Papa esortava con forza a una visione cristiana che percepisce la speranza del bene come comunque prevalente rispetto alla presenza del male (la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane). Ancora, il Papa richiama sulla necessità di coniugare giustizia e perdono, due termini che non devono essere visti come contrapposti o tali da elidersi a vicenda, e richiama in modo nuovo e sintetico l’insegnamento dei Padri e della Chiesa sull’argomento. Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di
giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia
risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo
discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono
in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non
alla giustizia. La vera pace, in realtà, è « opera della giustizia » (Is 32,
17). Come ha affermato il Concilio Vaticano II, la pace è « il frutto
dell'ordine immesso nella società umana dal suo Fondatore e che deve essere
attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta »
(Costituzione pastorale Gaudium
et spes, 78). Da oltre quindici secoli, nella Chiesa cattolica risuona
l'insegnamento di Agostino di Ippona, il quale ci ha ricordato che la pace, a
cui mirare con l'apporto di tutti, consiste nella tranquillitas ordinis, nella
tranquillità dell'ordine (cfr De civitate Dei, 19, 13). La vera pace, pertanto, è frutto della
giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di
diritti e doveri e sull'equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la
giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e agli egoismi
personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il
perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani
turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in
quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si
contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere
alle legittime esigenze di riparazione dell'ordine leso. Il perdono mira
piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità
dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle
ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli
animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue
essenziali. Il carattere specifico, costituzionalmente diverso, della pace cristiana è ribadito con forza nell’augurio che chiude il documento del Santo Padre, nel quale vengono ripresi sinteticamente gli spunti centrali del documento stesso: In questi tempi burrascosi, possa l’umana
famiglia trovare pace vera e duratura, quella pace che solo può nascere dall’incontro
della giustizia con la misericordia.
[Il discorso di Giovanni Paolo II può essere letto integralmente,
insieme con altri recenti documenti sullo stesso tema, nel sito
ufficiale della Santa Sede.] In conclusione l’insegnamento della Chiesa, e di Giovanni Paolo II in particolare, non soltanto addita valori che sembrano perduti nell’orizzonte culturale contemporaneo, ma anche si manifestano come l’unica voce che autenticamente interpreta la tradizione dell’Occidente raccogliendo quanto essa ha espresso di positivo e stabilendo col patrimonio culturale ed etico del nostro passato un legame che solo può permettere di affrontare i problemi del presente in modo non parziale o riduttivo. Nell’immagine. La
colomba col ramoscello d’olivo è divenuta nell’iconografia tradizionale la
rappresentazione più frequente della pace. L’immagine qui proposta è un mosaico
della Chiesa di S. Giovanni Bosco a Roma (seconda metà del sec. XX). |
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