"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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OVIDIO, L’ULTIMA NOTTE DI ROMA, trist. I 3
traduzione
poetica di Pietro Rapezzi
Quando di quella notte, in cui passai
gli ultimi istanti a Roma, mi ritorna
alla mente l’immagine tristissima,
quando evoco la notte in cui in un’ora
tante cose dilette abbandonai,
dagli occhi miei scorre ancora una lacrima.
Già s’appressava il giorno, in cui imponeva
Cesare che partissi dall’Italia.
Non tempo c’era stato, né bastante
animo a provvedere l’occorrente
per il viaggio: nell’indugio lungo
i sensi si smarrivano. Nemmeno
ebbi di servi cura, non di amici,
non di vesti e di tutto ciò che all’esule
è insomma necessario. Folgorato
all’annunzio restai come colui
che, colpito dal fulmine di Giove,
vive e della sua vita è inconsapevole.
Pure come il dolore stesso il cuore
liberò dal torpore e a poco a poco
i sensi si riebbero, coi mesti
amici parlo per l’ultima volta,
prossimo alla partenza, che dei tanti
di prima solo uno o due mi restano.
La dolce moglie me piangente abbraccia
piangendo ella più forte e per le guance
scorrendole di lacrime una pioggia
immeritata. Lontano, nei lidi
di Libia, era la figlia, né poteva
mettersi a parte della mia sciagura.
Dovunque ti volgessi, pianti e gemiti
si alzavano: la casa risuonava
come per il compianto d’un defunto.
Uomini e donne e servi si disperano
tutti per la mia sorte: non c’è angolo
dentro la casa che non abbia lacrime.
Se per piccole cose grandi esempi
sono concessi, questo era l’aspetto
di Troia il giorno della sua caduta.
D’uomini e cani s’era spenta ormai
ogni voce e la luna alta nel cielo
i notturni cavalli conduceva.
Volgendomi a guardarla e al suo chiarore
scorgendo il Campidoglio, inutilmente
contiguo al nostro Lare: “Dèi – esclamai, -
delle vicine sedi abitatori,
templi che gli occhi miei più non vedranno,
dèi che racchiude la città sublime
di Quirino ed io devo abbandonare,
abbiate da me l’ultimo saluto!
E, sebbene lo scudo imbracci tardi,
dopo che ho ricevuto le ferite,
fate che l’odio non segua all’esilio
e a quell’uomo divino dite quale
errore m’ingannò, perché non scambi
per delitto una colpa: anche l’autore
di questa pena sappia ciò che a voi
è manifesto. Una volta placato
il dio, potrò non essere infelice”.
Con questa prece supplicai i Celesti,
con altre ancora li implorò mia moglie
con la voce strozzata dai singhiozzi.
Prona davanti ai Lari, coi capelli
scarmigliati, baciò con la tremante
bocca lo spento focolare e molte
parole riversò sugli antistanti
Penati, destinate a rimanere
inefficaci per il pianto sposo.
La notte al suo declino non lasciava
nessuno spazio ormai all’indugio e l’Orsa
Parrasia s’era volta sul suo asse.
Che fare? Il dolce amore della patria
mi tratteneva, ma per me l’estrema
notte era quella prima dell’esilio.
Ah, quante volte dissi a chi premeva
per la partenza: “Perché sproni? Pensa
in quale luogo mi spingi ad andare,
quale luogo a lasciare”. Ah, quante volte
finsi di avere stabilito un’ora
che fosse confacente al mio viaggio!
Tre volte mi avanzai fino alla soglia,
tre volte mi ritrassi: il piede stesso,
con l’animo concorde, vacillava.
Spesso dopo l’addio tornai a ripetere
molte parole e, come per l’estremo
commiato, detti ancora nuovi baci.
Spesso impartii più volte le medesime
disposizioni e mi fermai a guardare,
assorto, i cari pegni del mio amore.
Infine: “A che affrettarmi? E’ nella Scizia
che mi s’impone di recarmi, è Roma
che devo abbandonare – esclamo: - giuste
ragioni tutte e due per indugiare.
La moglie viva a me vivo per sempre
è negata e la casa e i dolci membri
dell’amorosa casa ed i compagni
fraternamente amati. O cuori avvinti
a me con fedeltà degna di Teseo!
Finché potrò, vi serrerò al mio petto:
forse non mi sarà mai più concesso.
Ogni istante carpito è da segnare
a guadagno”. Ma basta con l’indugio,
lascio a metà le parole, abbracciando
quanto il mio cuore aveva di più caro.
Mentre parlo e piangiamo, lucentissimo
era spuntato nell’alto del cielo,
a noi funesto, l’astro di Lucifero.
Di là mi stacco, come se le stesse
mie membra vi lasciassi: sento il corpo
lacerarmisi. In questo stesso modo
sofferse Mezio quando, pungolati
i cavalli in opposte direzioni,
subì la pena del suo tradimento.
Allora si rialzano le grida
e i lamenti e le mani meste battono
i nudi petti, allora la mia sposa
aggrappata al marito che partiva
queste tristi parole unì al mio pianto:
“Non mi sarai strappato: partirò
anch’io con te: ti seguirò dovunque;
sarò d’un uomo esule la moglie
esule: anche per me si apre la via,
anche per me c’è un posto negli estremi
lembi del mondo. Alla tua nave profuga
mi aggiungerò, carico lieve, anch’io.
A te l’ira di Cesare comanda
di lasciare la patria, a me l’amore:
questo amore per me varrà da Cesare”.
Come già prima, questi tentativi
ripeteva, finché solo nel mio
interesse, si arrese a poco a poco.
Parto (e quelle mi sembrano le esequie
di me stesso), sparuto, con la faccia
ispida e coi capelli scarmigliati.
La mia sposa, sconvolta dal dolore,
dicono, con la vista ottenebrata,
s’accasciò come morta nella casa.
Quando riprese i sensi, coi capelli
imbrattati di polvere, e dal gelido
suolo levò le membra, ora piangeva
se stessa, ora i Penati derelitti,
né si stancava d’invocare il nome
del marito a lei svelto, alzando gemiti
come se avesse visto il rogo eretto
col cadavere mio o della figlia
e voleva finire la sua vita,
ma il pensiero di me la dissuase.
Oh che viva! E, poiché così ha voluto
l’avversa sorte, viva per lenire
col suo devoto aiuto questo esilio.
Pietro Rapezzi
Nell'immagine: Ovidio, da una stampa di Anton von Werner
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