"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Sulla traduzione di
Aen. II, 1 e III, 718
di
Giulia Regoliosi
Conticuere omnes
intentique ora tenebant
Conticuit tandem factoque hic
fine quievit
Sono i versi che iniziano il II e concludono il III
libro dell’Eneide, cioè i versi che
racchiudono il racconto di Enea. Notiamo anzitutto che i verbi di modo finito sono
quattro, di cui due si richiamano,
anche metricamente: l’elisione di -r(e)
nel primo verso, che accorcia la parola unendo l’ultima sillaba alla parola
successiva, accentua il richiamo a
distanza, già presente nell’uguaglianza del verbo. Questa corrispondenza mi fa mettere in dubbio che il cum- preverbo
del primo verso rafforzi omnes (tacquero insieme tutti), perché Enea tace da solo; quindi accedo di
più all’idea (si veda M.Morani, Introduzione alla linguistica latina,
Lincom, München, 2000, pag. 269 e 272) che il preverbo rilevi il valore
puntuale/ingressivo (si zittirono o
si misero a tacere:
Leopardi traduceva
ammutirono): la sala del banchetto si zittisce di colpo; d’altra parte il
racconto di Enea termina bruscamente con la morte di Anchise, lasciando in
sospeso tutta la vicenda siciliana, già accennata nel primo libro e ripresa nel
quinto, perché il dolore della perdita inattesa prevale sugli aspetti più
aneddotici dell’accoglienza. Il terzo verbo di modo finito,
quievit, in allitterazione con
conticuit come
-qu’ora è in allitterazione con
conticuere (inoltre l’allitterazione
conticuit-quievit forma chiasmo con l’allitterazione interna
factoqu’hic fine) dice più che il silenzio: è il pacificarsi del cuore dopo che il dolore è
stato raccontato, la fatica del ricordo compiuta, il significato recuperato.
Servio interpreta quievit come andò a dormire:
lo trovo molto improbabile. Penso che
si quietò possa renderlo, o anche
qualcosa di più forte, come si pose in
pace. L’importante è rendersi conto che il IV libro inizia con
at regina: sia la pace di Enea, sia
eventualmente il sonno, sono in opposizione con l’inquietudine della regina, già
segno della tragedia imminente.
L’altro verbo di modo finito, tenebant,
è in opposizione aspettuale rispetto ai
tre predetti: indica l’azione durativa dell’ascolto che si prolunga per
tutto il racconto, quindi virtualmente per due libri: notiamo all’inverso i due
imperfetti del penultimo verso del III libro, riferiti ad Enea che unus…/
renarrabat… docebat. Ma sia tenebant sia ora sono polisemici:
il verbo significa sia dirigere sia trattenere, il sostantivo
sia volti sia bocche:
quindi il sintagma può significare volgevano i volti, oppure frenavano
le bocche: il primo significato sarebbe rafforzato da intenti (tesi,
attenti) il secondo riprenderebbe
conticuere, indicando il perdurare dell’azione momentanea: si
misero a tacere…restavano in silenzio. Ma è conservabile nella traduzione la
polisemia? Per lo più la scelta è di esprimere il primo significato; dei testi
riportati più avanti solo Bacchielli mi sembra esprima il secondo con qualche
tentativo di conservare il primo : muti tenendo nell’attesa il labbro.
Alcuni traduttori rendono poi intenti in
riferimento ad ora, invece che al soggetto:
tenevano intenti gli sguardi
(Vergara). Anche Leopardi traduceva fissi in lui / teneano i volti. A
parte la libertà sintattica, dimenticano intentis omnibus del terzultimo
verso del III libro.
Riporto ora alcune traduzioni: oltre alle osservazioni
fatte qua e là, mi soffermerò su quievit (purtoppo Leopardi traduce solo
il II libro)
Annibal Caro: Stavan taciti, attenti e disiosi /
d’udir già tutti, quando…
….fece
qui fine e tacque
Il secondo verso
è ridotto ed elimina quievit.
Calzecchi: Tacquero tutti e intenti il viso tendevano
E tacque, infine, e qui pose termine al racconto e finì.
Quievit è tradotto finì, con un’ulteriore
ripresa dell’idea già espressa ampiamente. Penso che l’intenzione della
traduttrice sia di conservare la parola breve con forte accento, più che il
concetto banalizzato.
Vivaldi:
Tacquero tutti: gli occhi intenti al viso di Enea / pendevano dalle
sue labbra
Poi finalmente tacque / pose fine al suo dire, stanco si riposò
L’idea del porsi in pace, del riposo, è interessante, ma
mi sembra troppo accentuata dall’aggettivo, come se fosse solo la stanchezza del
lungo parlare.
Albini:
Tacquero tutti, con gli sguardi a lui
E qui si tacque / giunto a la fine, e fu sua voce cheta
Quievit è reso con la ripetizione dell’idea del silenzio. Interessante però la scelta etimologica dell’aggettivo
Bacchielli
Tutti tacquero allora, attenti e fissi / muti tenendo nell’attesa il labbro
…alfin si tacque, e ancor taceano gli altri
Traduzione ridottissima, che costringe il traduttore ad
un’aggiunta bizzarra: perché poi gli altri non potevano finalmente parlare,
magari commentando?
Vergara
S’azzittirono tutti, tenevano intenti gli sguardi
Tacque alla fine e avendo concluso stette raccolto
Quievit sarebbe
azione puntuale, quindi l’idea della durata (stette) è scorretta. Però
l’immagine mi piace.
Baldassarre
Si fece silenzio. I volti stavano intenti /al padre Enea…
Qui mise fine al racconto e tacque, posò.
Posò per quievit mi sembra accettabile:
anche questa parola ha la brevità e il forte accento, senza la banalità
del finì della Calzecchi.
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