Cfr. K. ABEL, art. Sacer, in Kleine Pauly, München 1964 ss., S.v. (Sacer, der Gottheit gehöriger zerfallen; dem profanen Gebrauch entzogen) e la bibliografia ivi cit.
Sulla possibilità di accusare di sacrilegio chi ruba del denaro lasciato in deposito presso un tempio si v. l'edizione della ColI. Budé di Quintiliano (J. COUSIN éd., Paris 1976, vol. II, p. 219), e J.A.C. THOMAS, Animus furandi, «Jura», XIX (1968), pp. 1-32.
Cfr., oltre ai lessici etimologici citati nella bibliografìa, anche G. GIACOMELLI, Forme parallele a 'sancio' e 'sanctus' nei dialetti italici, SE, XXIV (1956), pp. 337-342.
Cfr. J. FRIEDRICH, Hethitisches Wörterbuch, Heidelberg 1952-1954, p. 176; E. H. STURTEVANT, A Comparative Grammar of the Hittite Language, Philadelphia 19512, p. 159; IEW, p. 878. Sulla possibilità di accostare al gruppo di sacer anche l'itt. sankunni- 'sacerdote' cfr. V. PISANI, Obiter Scripta 20, « Paideia», XV (1960), pp. 241-252.
G. DEVOTO, che esamina il lemma *sak- al n. 383 a delle sue Origini Indeuropee (Firenze 1962, p. 468) connette a questo gruppo anche il tocario
sākär
'eminente'.
L'ipotesi etrusca fu avanzata per la prima volta da M. Bréal (v. bibliografia) e ripresa da Leifer, Goldmann e altri, WH considerano l'ipotesi «unwahrscheinlich». Per un'ulteriore bibliografia si v., oltre ai soliti lessici etimologici, H. FUGIER, Recherches ..., cit., pp. 109-110. Del tutto caduto è il tentativo, operato da Meillet, di connettere sacer e
–gioj (quest'ultimo da *yag., scr. yajati ecc.). Cfr. WH, sub voce.
Questi termini non sono da assumere secondo un'accezione negativa. Anche la religione del popolo , ebraico è fortemente formalista e collettiva, tanto da negare, almeno in apparenza, la possibilità di un senso religioso interiore e personale (cfr., fra i tanti, E. GALBIATI - A. PIAZZA, Pagine difficili della Bibbia, Milano 196611, pp. 308 ss.). Si deve rilevare che ogni culto, per diffondersi in un popolo, ha bisogno di un grado più o meno grande di esteriorità e che questa è anche la condizione e il terreno su cui poi fiorisce il genio religioso (come Vergilio o altri in Roma).
Cfr. LIV. X 36, 11. Anche il praeire verbis, cioè il recitare a voce alta la formula precisa, in maniera che gli altri possano seguire ripetendo le stesse parole, ha la medesima funzione di evitare errori nella recitazione della preghiera.
Cfr. si deus si dea es (CAT. Agr.,139); si divus si diva esset (LIV. VII 26, 4); Iuppiter optime maxime, sive qua alio nomine te appellare volueris (SERV. in Aen., II 251), ecc.
Anche D. Sabbatucci (Sacer, cit,) osserva che nell'azione sacra in Roma si ha sempre la concomitanza di due elementi: la 'donazione' di qualcosa al dio e l'intervento dell'autorità statale.
Su questa interpretazione, che mi pare inoppugnabile, di iouiste cfr. C. W ATKINS, Latin iouiste et le vocabulaire religieux indo-européen, in Mélanges Benvenute, Paris 1975, pp. 527-535.
Qualche traccia dell'antico valore religioso è però rimasta in lex, ad es. nell'espressione legum dictio con cui si indica la richiesta degli augnri agli dèi (SERV. in Aen., III 89) oppure in formule come quaque lege volet, con cui si lascia all'offerente la libertà di celebrare l'azione sacra come meglio crede.
Secondo la Fugier (Recherches ...,cit., pp. 18 s.) castus e castitas sono gli attributi del sacerdote (cfr. Aen., VI 661: sacerdotes casti dum vita manebat), mentre la magnanimitas è l'attribuzione del guerriero.
A risultati analoghi, vale a dire a un frequente passaggio di termini dall'ambito religioso all'ambito giuridico o politico, si potrebbe approdare analizzando altri termini, quali voveo, censor, ecc. Alcuni termini, come flamen, ritus (sul quale si v. H. H. ROLOFF, in «Glotta», XXXIII (1954), pp. 36-65), hanno conservato il loro valore originario.
Cfr. WH, I, p. 794. Quanto a libum, non ha nulla a che vedere con libare e sarà da connettere (con Pedersen e altri) al got. hlaifs e all'ant. slavo
chlěbŭ,
nonostante le riserve di WH, I, p. 796.
Gli antichi connettono generalmente
fās con fari, tratti in inganno anche dal passaggio all'ambito religioso di molti derivati di questo verbo, quali fatum, fandum, ecc. L'uso di fās in luogo di fātum è attestato in Virgilio (Aen., II 779, col commento di Servio fas pro fato); quanto a fanum, è connesso con fari: quod ponlifices in sacrando.fati suntfinem (VARR. LL VI 54); analogamente, dies fasti, per quos praetorem omnia verba sine piaculo licet fari (ibid., VI 29). Qualche tentativo moderno di riprendere questa etimologia (cfr. R. ORESTANO, Dal ius al fas. Rapporto tradiritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, BIDR, NS, V (1939), pp. 194-273; inoltre E. BENVENISTE, Il vocabolario. . . , cit., pp. 386 ss.) non è convincente. Non dà alcuna difficoltà neppure l'allungamento di fās: esso è frequente in monosillabi (cfr. dās. datis).
Fētiālis
da fē-lis. Sulla connessione tra questa parola e fās è illuminante la formula della dichiarazione di guerra, trasmessaci da Liv. I 32: Audi, Iuppiter, audite, fines, audiat, fās: ego
sum publicus nuntius populi Romani, iustepieque legatus venio verbisque meis fides sit.
Fānum
da fasnom indica ciò che cade sotto il dominio del fās:
non l'edificio sacro, bensì il luogo in cui esso è edificato e che viene prescelto con riti particolari.
R. SCHILLING, L'originalité ..., cit., pp. 92 ss., tenta di connettere a questo gruppo anche il gr.
qeój e il nome armeno delle divinità precristiane dik' (da *dhēs-es), notando una relazione fra il nome del dio e una qualche regolamentazione del sacro. L'ipotesi è fragile: sia ragioni semantiche sia ragioni fonetiche (*dhēs- alterna con *dh&s-, non col .dhes- presupposto dal greco) la rendono scarsamente credibile.
In qualche contesto
pāx
assume il senso di 'benevolenza' (del dio verso l'uomo). Cfr. PL. Trin., 836 ss. Secondo Dumézil (La religione. . . , cit., p. 128) l'uomo s'attende dagli dèi la pax «rapporti normali e per di più benevoli ».
Sull'evoluzione che ha comportato l'attribuzione di poteri religiosi sempre maggiori al
ponti/ex
cfr. G. DUMÉZIL, La religione. . . , cit., pp. 103 ss., e la bibliografia cui ivi si rimanda.
Secondo W. W. FOWLER, The Original Meaning ..., cit., «the Word (sacer) may have meant simply taboo, i.e. removed out of the region of the profanum, without any special reference to a deity, but 'holy' or accursed, according to circumstances».
Come indica la vocalizzazione in
Þn- dinanzi spirito aspro (le parole antiche hanno Þ-). Sulla questione E. BENVENISTE, Profanus, in Hommage Dumézil, pp. 56 ss.
Secondo H. Bennett (Sacer esto . . . , cit.) l'immolari di Festo indica che almeno in origine la persona dichiarata «sacra» veniva sacrificata agli dèi (the sacer homo was never a picturesque outlaw . . . he was merely condamned to death for a heinous criminal offence and regularly execuled). L'ipotesi del sacrificio umano, che sostituisce l'esecuzione proclamata da un regolare tribunale, parrebbe confermata da Plutarco (Rom., 22,3) e Macrobio (Sat., III 7, 5), che paragona l'uomo sacer alla vittima del sacrificio. La possibilità di dichiarare sacer un uomo è in origine prerogativa del rex: in séguito è affidata al ponlifex, che la pronunzia solo dopo un verdetto giudiziario.
Cfr. Kleine Pauly, cit., IV, pp. 1540-1541, per un'ampia e aggiornata bibliografia: in particolare M. G. TIBILETTI BRUNO, I Sabini e la loro lingua, 1962, p. 416.
Ad es., la divisione di Gaio (Inst., 2, 3) del ius divinum in tre parti: res sacrae (le cose consacrate al dio); rea sanctae (le cose riferite all'ambito militare); res religiosae (le cose riferite agli dèi sotterranei). Sul valore di religiosus in questo contesto cfr. supra, nota 40, e F. DE VISSCHER, Locus religiosus, «Atti del Congresso internazionale di diritto romano», 3, 1951, pp. 181-188.
Che sanctus designi «sur le plan moral une activité négative de défense, un état négatif d'exemption» è ben messo in luce dalla Fugier (Recherches . . . , cit., p. 259).
Su tutto questo passo di Livio e sugli aspetti giuridici della lex Valeria Horatia si rimanda ai principali commenti liviani (in particolare WEISSENBORN-MÜLLER, II, pp. 116 ss.; OGILVIE, pp. 497 ss.) e alla bibliografia ivi richiamata.
In vedico è attestato solamente il tipo dasyave v3ka-
(non risolto a livello formale e per di più usato come nome proprio); anche in greco il tipo pasí-filoj è raro in epoca antica.