"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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LA TENEBRA E LA LUCE
NELLE METAMORFOSI DI APULEIO
di Tiziano Lorenzo Vezzoli
Se il primo capitolo del nostro lavoro mirava a evidenziare il significato e il valore dell’elemento della luce nell’XI libro delle Metamorfosi, che potremmo forse giustamente chiamare il libro dello svelamento, dove ogni cosa appare nel suo significato più profondo e ultimo, non sembrerà idea troppo ardita, grazie allo stretto legame esistente tra epilogus ed exordium, che ora ci si soffermi sul prologo del primo libro delle Metamorfosi (1).
Forse avremo l’opportunità di chiarire come ogni oggetto e ogni elemento, pure se tenebroso od oscuro, in verità riflette quella luce isiaca che risplende chiaramente nell’ultimo libro e che finisce con il dare nuovo senso anche ai libri precedenti. Potremo scoprire se fin dall’inizio è presente quel nesso di corrispondenze in cui ogni cosa rimanda a se stessa e ad altro (2) così come era, del resto, già nel pensiero filosofico-misterico dell’età di Apuleio (3).
Dovremo cercare, dunque, che cosa permanga invariato e stabile nelle metamorfosi e nel flusso dei cambiamenti. Occorrerà andare oltre la metamorfosi? Certamente, ciò che significa tornare al punto di partenza, cioè alla forma. Dovremo dedicare parte delle nostre analisi alle strutture narrative delle di Apuleio; e l’incipit, con la forza e l’importanza dei valori che a esso sono strettamente legati, è forse il miglior punto di osservazione per scoprire quali segnali che Apuleio ha nascosti nell’intreccio narrativo del romanzo.
Dal momento poi che la notte, la luce e la oscurità sono elementi che entrano come tessere importanti nelle strutture narrative, un’analisi che evidenzi i diversi piani attraverso cui Apuleio si muove nella narrazione finirà con il fornirci una chiave per scoprire i significati, latenti o manifesti, che Apuleio ha attribuito ai diversi componenti della sua spiritualità filosofica.
At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido sussurro permulceam, modo si papyrum Aegyptiam argutia nilotici calami inscriptam non spreveris inspicere, figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se rursum mutuo nexu refectas ut mireris. Exordior.
Innanzitutto concentriamoci sull’at.
La particella at viene impiegata nella lingua comune quando si inizia un discorso con un tono controversista e dialettico, così da introdurre una vera e propria replica (4). Già il Calonghi (5) notava che “at ego è proprio di chi entra e riprende il discorso dopo che altri hanno cessato di parlare o di narrare”. E proprio seguendo la suggestione prodotta in chi legge, abbiamo scelto di iniziare il lavoro di rilettura delle Metamorfosi partendo dall’undicesimo libro, la lysis del romanzo. Tra at ed ast in età tarda è possibile uno slittamento semantico nell’uso, mentre in età augustea a ciascuna competono significati specifici:
1) At introduce l’inizio di una replica.
2) ast è posto all’inizio di una apodosi di un periodo ipotetico con il senso avverbiale di “allora”.
E nel nostro caso? Insieme alla critica più avveduta notiamo che ci troviamo dunque di fronte ad un periodo ipotetico, con apodosi e protasi, il cui senso portaa confondere il lettore per la sfavillante presenza di quell’ut mireris posto contro ogni logica alla fine della frase. Dunque il nostro primo libro inizia con un’obbiezione, una replica che si prolungherà per tutto il romanzo, rivolgendoci in maniera velata verso chi ha già letto una prima volta le Metamorfosi.
Fin dall’inizio Apuleio costruisce un tessuto comunicativo in cui sono stabiliti i due piani fondamentali del suo svolgimento: quello del mittente e quello del destinatario.
I due pronomi instaurano un ruvido contatto tra chi parla e ascolta (6), chiamando perentoriamente l’interlocutore a esercitare l’arguzia: solo così egli potrà comprendere i termini della replica che è stata preannunciata dall’at. Dichiarando fin dall’inizio i piani su cui si costruirà il racconto, Apuleio pone il suo lettore in una condizione di superiorità rispetto alla narrazione. Alla lettura coinvolgente del primo approccio al romanzo deve seguire una lettura estraniante (7), il cui compimento sarà dato dalla svolta isiaca dell’undicesimo libro, in cui ogni mistero viene svelato (8).
Il termine sermone è qui usato nel suo forte significato etimologico di “intrecciare” (sero, serui). Esso indica l’intreccio costruito attraverso una catena di parole, in cui sia il livello fonetico sia quello grafico hanno un loro ruolo. L’idea del tessuto, molto marcata, compare infatti inI, 3 dove Lucio si rivolge ad Aristomene dicendo :Heu tu -inquam- qui sermonem iaceras priorem, ne pigeat te vel taedeat reliqua pertexere. L’invito che il protagonista rivolge al mercante tessalo è quello di narrare fino alla fine la sua favola, concepita precisamente come una trama o un ordito (9). Sullo stesso piano vanno collocati i due exordiar di I, 1 e I, 5: il senso originario di exordiri come ‘cominciare a tessere, a ordire’ è ribadito da un passo di Plauto serve a porci sulla giusta interpretazione – non a caso Plauto, con, dovette servire da ampio modello (10) ad Apuleio per i prologhi delle sue commedie, in cui le divinità o i capocomici si rivolgono direttamente al pubblico.
Vediamo il passo dello Pseudolus vv. 398-404:
Nunc quid faciam scio. Neque exordiri primum unde occipias habes neque ad etexundam telam certos terminos. Sed quasi poeta, fabulas quom cepit sibi, quaeri quod nusquam gentiumst, reperit tamen, facit illud veri simile quod mendacium est, nunc ego poeta fiam.
Ricordiamo inoltre che il termine sermone (come nei Sermones oraziani) (11) indica un’espressione linguistica assai libera, con una spiccata attenzione al ritmo, alle allitterazioni, ai giochi di parola quasi in termini poetici.
Con il termine milesio Apuleio indica che tutto quello che si accinge a raccontare sarà caratterizzato dal senso “picaresco” dell’avventura e da una forte tinta di erotismo (12).
Il contenuto del romanzo viene rivelato al lettore da varias fabulas, e anche questa locuzione stata caricata dall’autore di una serie di significati. Innanzitutto il termine indica il racconto e la novella, ma può designare tutto il romanzo (cf. la fabula Graecanica che troveremo alla fine del capitolo)
L’etimologia ci dice che la parola è corradicale del verbo for (13), il che ci colloca direttamente sul livello della oralità. Il romanzo si presenta come una favola mormorata e sussurrata (troveremo direttamente anche questa indicazione specifica) da un narratore a un narratario.
Il termine fabula si richiama alla ricca tradizione favolistica di Esopo e Fedro, i cui protagonisti sono animali che vediamo comportarsi e parlare come uomini. In maniera dissimile da questi, nelle Metamorfosi noi ci troveremo dinanzi a un protagonista, Lucio, che costretto a comportarsi e a esprimersi, suo malgrado, proprio come un animale (il ribaltamento della situazione precedente, ma sempre nel campo dell’assurdo) (14). D’altra parte il termine fabula si collega altresì al genere del dramma. È infatti con questo termine che si designa la commedia e la tragedia, e se già alcuni hanno accostato il prologo del romanzo, per stile e linguaggio, alle Menippee varroniane (15), non sembrerà strano scoprire analogie strette anche con il prologo delle commedie plautine. È soprattutto il forte valore metaletterario di queste ultime a fondare tale tipo di attinenza.
Apuleio ci dice che le fabulae saranno di diverso contenuto e di diversa concezione. È notevole poi la differenza tra le semplici novelle che troviamo nel romanzo e la bella fabella di Amore e e, che occupa il cuore delle Metamorfosi (IV, 28-VI, 24).
Riguardo al conseram, Apuleio ci dà ulteriori elementi per confermare in modo evidente quanto già abbiamo visto in riferimento a sermone. Questo per non tutto. Infatti il nostro autore presenta il romanzo come pura opera di collage e così facendo mostra di porsi al seguito della tradizione letteraria riguardante la Milesia. Sappiamo che anche di Aristide, tradotto in latino da Sisenna, si diceva (Ov. Tristia, vv. 443 e segg.) iunxit Aristides milesia crimina secum, volendo indicare che questi aveva unito e messo assieme diversi racconti, inserendoli poi nella sua biografia. Il parallelo con il nostro autore evidente e la dibattuta questione del Madaurensem (XI, 27), dove pare che Apuleio si manifesti, attraverso un sogno oracolare, come il vero autore delle Metamorfosi, ne è una valida testimonianza.
Tra narratore e narratario si stabilisce subito un rapporto di comunicazione auditiva e orale. Il vero strumento di ricezione sono le grandi orecchie del nostro asino, che in molte occasioni gli consentiranno di ascoltare indisturbato tutto quanto avviene attorno a lui: l’ascoltare dell’asino il tramite di una ricca esperienza che coinvolge tanto Lucio quanto il lettore. Ma le osservazioni su questo punto vanno ben oltre. Prendiamo un altro passo sempre del libro primo, in cui Lucio sta ringraziando Aristomene del suo racconto (I, 20) :
Sed ego huic et credo hercules et gratas gratias memini, quod lepidae fabulae festivitate nos avocavit, asperam denique ac prolixam viam sine labore ac taedio evasi. Quod beneficium etiam illum vectorem meum credo laetari, sine fatigatione sui usque ad istam civitatis portam non dorso illius, sed meis auribus provecto.
Non dimentichiamo il profondo valore iniziatico che il romanzo assume quando si riconosce ad esso quel clima spirituale tipicamente isiaco che lo caratterizza e lo pervade. Senza forzare l’interpretazione su questo punto e fare del romanzo ci che esso non è, forse possiamo vedere in esso le tappe di un cammino di conversione (16) e metamorfosi spirituale, di cui quella fisica solo una parte.
Infatti la porta che qui viene citata è certo quella della città di Hypata, ma attraverso di essa noi veniamo introdotti nel mondo della goetìa, dove tante altre porte verranno divelte e spalancate da streghe o briganti. E avremo modo di vedere come strettamente collegato al tema delle porte sarà quello della luce e della oscurità : non si dimostrerà un caso che in Apuleio le porte o gli ingressi di ambienti particolari, come l’atrio di Birrena, compaiano sempre in posizioni di luce o di tenebra demoniaca. Si tratta del riflesso della spiritualità a cui esse danno accesso. Abbiamo citato l’atrio di Byrrena che ricchissimo di luce e di candore, e a esso aggiungiamo le sale del palazzo di Amore e Psiche che brillano di luce propria. Altre porte invece le troveremo soltanto nella tenebra della notte, dove l’unica luce sarà quella delle lucerne magiche e delle fiaccole dei riti goetici. Se la porta della novella di Aristomene e Socrate si mostra un vano riparo contro la magia di Meroe (17), dopo la conversione che si ha alla fine del romanzo la porta più importante che Lucio varcherà sarà quella del regno di Proserpina nell’undicesimo libro, quando nel corso della iniziazione verrà portato alla presenza della divinità infernale. Anche dietro questa porta troveremo una luce (XI, 23): Accessi confinium mortis et calcato Proserpinae limine per omnia vectus elementa remeavi, nocte media vidi solem candido coruscantem lumine, deos inferos et deos superos accessi coram et adoravi de proxumo.
Con aures tuas benivolas lepido sussurro permulceam Apuleio ci d alcune informazioni sulla ricezione del romanzo. Le nostre orecchie saranno accarezzate dalla azione delicata del permulcere. Apuleio rafforza l’idea che dar al narratario il piacere dell’ascolto.
Le orecchie indicano la nostra fruizione del romanzo. Noi siamo portati dalle novelle di Apuleio attraverso una via ardua e difficile, quale la scoperta dei misteri di Iside così come ardua et prolixa era la via che il racconto di Aristomene aveva saputo rendere meno aspra. Vediamo infatti in I, 2 ... simul iugi quod insurgimus aspritudinem fabularum lepida iucunditas levigabit e ci viene riconfermato anche alla fine del racconto in I, 20, un passo che abbiamo appena visto. ...gratas gratias memini, quod lepidae fabulae festivitatae nos avocavit, asperam denique ac prolixam viam sine labore ac taedio evasi.
La novella dunque il mezzo che ci consente di arrivare a comprendere alcuni particolari messaggi che anche a Lucio, notiamo bene, sono rivolti attraverso il registro del racconto: pensiamo non solo alla vicenda di Meroe e Socrate, ma anche alla storia di Telifrone, che ha precise assonanze linguistiche (18) con il nostro prologo, e poi alla favola di Amore e Psiche con il suo profondo significato filosofico e misterico.
Il racconto si qualifica e si identifica per la sua gradevolezza e la sua euphonia. Forse per il lepos indica anche il piacere che deriverà al lettore se si lascerà irretire dal susurro (19) e arriverà, sul modello di quanto avviene a Lucio, alla condizione di lieta beatitudine del l. XI. È a questo che Apuleio sembra alludere con il lector, intende: laetaberis della fine del primo capitolo (20).
Susurro: Il racconto verrà mormorato dall’autore nelle nostre orecchie come un dolce chiaccherio. Questo nascondersi di Apuleio sotto le spoglie di una vecchietta, che incanta con il suo vocio sussurrato, troverà grandi conferme all’interno del romanzo (21). Possiamo pensare soprattutto alla anicula che allieta Carite prigioniera con la favola di Amore e Psiche.
Notiamo che fin dall’inizio si pongono in risalto alcuni temi che ci portano nel vivo della nostra ricerca : anche la figura della vecchietta, tanto cara e dolce a un primo approccio (si veda la viva cortesia di Meroe con Socrate) (22) si rivela in realtà come un essere tenebroso e oscuro, che vive e opera nella notte. Ci sono aniculae che si trasformano in potenti streghe che con i loro poteri demoniaci sono in grado di (I, 8)
caelum deponere, terram suspendere, fontes durare, montes diluere, Manes sublimare, Deos infirmare, sidera extinguere, Tartarum ipsum illuminare.
Non dimentichiamo poi che ai cenni della maga Panfile (III, 15) obaudiunt Manes, turbantur sidera, coguntur numina, serviunt elementa.
Tutto era già stato annunciato dall’adynaton di I, 3, dove appariva chiaro che magico susurramine amnes agiles reverti, mare pigrum conligari, ventos inanimes exspirare, solem inhiberi, lunam despumari, stellas evelli, diem tolli, noctem teneri.
In effetti sembra essere prerogativa delle streghe, vecchiette o no (23), quella di togliere la luce, di spegnere il sole, di oscurare il giorno, di prolungare la notte, di estinguere le stelle (24). La loro magia si configura come una magia di luce e di ombra ma anche di inganni, di visioni e di trasformazioni (25) che esse producono su se stesse e anche sugli altri (come il povero Telifrone ha avuto la sventura di sperimentare riguardo alle versipelles). In Tessaglia, lo vedremo, nulla come appare, l’atmosfera e quella irreale di un sogno, dove il capovolgimento della “realtà” costituisce la misura e l’ordine delle cose!
Ci si deve fermare, ora, su quanto abbiamo sentito dire in I, 3 dal compagno di viaggio di Aristomene. Qui ci troviamo di fronte a un altro punto focale dell’incipit del romanzo e la presenza dell’at, con tutto quello che a esso si riferisce, ce lo dimostra. Lucio ha appena sentito una risonante risata (che introduce noi tutti, lo ricordiamo, nella trama diretta del racconto, essendo il primo suono che le nostre orecchie, insieme a quelle del protagonista, percepiscono) e ci ha suscitato la sua viva curiosità. Il riso, anzi, il sanctissimus deus Risus come lo chiamerà Birrena nel terzo libro, da cosa può essere prodotto se non dall’assurdo, dall’impossibile? Ed esattamente su questo sfondo che Apuleio colloca la prima affermazione diretta riguardo alla magia del romanzo (I, 3): Ne – inquit – istud mendacium tam verum est quam siquis velit dicere magico susurramine amnes agiles reverti... La magia è un mendacium, un inganno di cui ironicamente si afferma la verità e la realtà (26) per poter su di essa proiettare un altro elemento di cui, almeno apparentemente, si d per scontata la illusorietà. Cosi facendo il nostro anonimo e sconosciuto compagno (27) crede di aver negato tutto? Rivediamo gli elementi dell’equazione.
Da una parte abbiamo il riso, di scherno o di superiorità. Dall’altra due negazioni, il mendacium e gli adynata, posti in stretto legame dal verum.
verum ~ mendacium ~ adynata
La falsità del primo elemento viene equiparata alla assurdità del secondo, ma il fulcro su cui si incardina la equivalenza una affermazione – anche se ironica – di verità, tanto più marcata perché su di questa Apuleio costruisce un nuovo gioco beffardo, facendo avverare nel romanzo quegli adynata che qui sono negati.
Se dunque a una prima lettura l’espressione sembra reggere, così non è. Il nostro amico non ha compreso – ma sarà poi vero? – la verità del racconto di Aristomene ed lo stesso Lucio a metterci sulla buona strada, rimproverandogli di non avere nemmeno sentito e capito : tu vero crassis auribus (28).
Seguendo l’invito di Lucio abbiamo affinato il nostro udito e abbiamo scoperto che ci che all’inizio sembrava novum auditu, si rivelato, dopo un esame un po’ più accurato, evidente e vero (29). È così che assume nuovo significato anche il riso che ci ha introdotto nella questione: non era semplicemente un messaggio di scherno, ma l’invito a saper guardare la realtà con occhi diversi, secondo quel capovolgimento (30) che sarà caratteristica di tutto il romanzo.
L’inciso costituisce l’elemento restrittivo (modo si...) di quel sottointeso periodo ipotetico rivelatoci dall’at, o ast, di cui abbiamo discusso all’inizio. La frase introdotta da modo e si crea subito una sospensione perché il verbo stato posto alla fine. Questo vuoto riempito da oggetti fisici reali, da immagini, sulle quali converge tutta l’attenzione. La papyrus è il materiale scrittorio per eccellenza, usato al posto della pergamena, che proprio nel corso del II secolo va diffondendosi sempre più. La predilezione per l’uno o per l’altro materiale aveva un preciso significato culturale e sociale, tanto che questo ci utile per comprendere il tipo di pubblico a cui era rivolto il romanzo (31). Mentre la pergamena, più resistente e economica, si diffonde presso le classi popolari (per esempio il libro dei cristiani doveva essere in questa foggia), il papiro oggetto esotico e particolare. Solo le élites continuarono a usarlo anche quando il codex si impose definitivamente sul mercato.
L’espressione papyrum Aegyptiam sembrerebbe un pleonasmo, ma in realtà ha un significato importantissimo se connesso con la matrice egiziana dei culti isiaci ai quali, nell’ultimo libro, Lucio sarà iniziato per ben tre volte.
Inspicere indica il guardare “in filigrana”, con allusione al significato del romanzo. È Apuleio stesso che in maniera molto eloquente ci fornisce le direttive in base alle quali impostare l’analisi. Infatti subito dopo si fa cenno all’argutia che vuole indicare, nel contempo, sia l’acutezza dello stilo che la sottigliezza mentale con cui stato scritto il romanzo. L’autore strizza l’occhio al lettore e maliziosamente gli comunica la possibilità di un gioco sotteso a cui questi deve prestare attenzione. Winkler (32) va anche oltre e nota una serie di accostamenti paronomastici tra Aegyptiam e argutia – così come all’interno del sintagma successivo inscriptam non spreveris inspicere – a significare ancora una volta la matrice egiziana di questa spregiudicata ironia. Ci sembra opportuno riportare le parole di Winkler che a questo proposito (33) dice: “The point is that the Asinus Aureus was originally written not to be a hermetically sealed monument, to be admired only from a respectful distance, but as an open text, one that encourages participation – real embarassment, puzzlement... – mental rewriting and physical rewriting.”
Proseguiamo. Seguendo un topos retorico ben definito, l’autore si atteggia a umile per catturare la benevolenza del lettore. Si tratta in realtà di un “gioco di specchi”, perché dietro un’apparente semplicità lo stile fa trasparire una ricercatezza e un preziosismo notevoli.
L’espressione mutuo nexu che qui indica la reversibilità delle trasformazioni, acquisterà nel corso delle uno specifico significato in rapporto alla schiavitù (34). Nexus propriamente il legame che si instaura, fra un debitore insolvente e il suo creditore, quando il primo si d in schiavitù al secondo, come in un regolare contratto. Ci sono qui interessanti paralleli con la vicenda di Socrate, il quale spiega il suo rapporto con Meroe (35) proprio facendo ricorso al paragone della schiavitù. Il termine che usa contraho, quasi a indicare un contratto, (I, 7 Et statim, miser, ut cum illa adquievi, ab unico congressu annosam ac pestilentem servitutem contraho) e anche Apuleio, nel prologo, sottolinea il concetto di reciproco vincolo con mutuum, che termine familiare per il denaro nei rapporti commerciali.
La cosa per noi più interessante è che anche Lucio dovrà diventare schiavo di Fotide (36) Possiamo partire da quanto dice il grande sacerdote Mithras proprio a Lucio, il quale lubrico virentis aetatulae ha commesso l’errore di essere ad serviles delapsus voluptates. Il nostro eroe sembra cercare fin dall’inizio la sua schiavitù, come quando sceglie di dedicare tutte le sue attenzioni alla servetta Fotis piuttosto che a Panfile: II, 6 ... a nexu quidem venerio hospitis tuae tempera et probi Milonos genialem torum religiosus suspice, verum etiam vero Fotis famula petatur enixe. E cadr facilmente nella trappola che si cercato: dice infatti a Fotide in III, 19 in servilem modum addictum atque mancipatum teneas volentem, e poco oltre in III, 23 adiuro per dulcem istum capilli tui nodulum, quo meum vinxisti spiritum, me nullam aliam meae Fotidi malle (37).
L’espressione figuras fortunasque ... refectas ha un singolare riscontro con la notizia che Fozio (38) ci dà circa il prologo delle di Lucio di Patre.
Le corrispondenze sono evidenti:
varias fabulas – μεταμορφώσεων λόγοι διάφοροι
figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas – τὰς ἐκ ἀνθρώπων εἰς ἀλλήλους μεταμορφώσεις
in se rursum refectas – καὶ ἀνάπαλιν
ut mireris – διώκει τὴν ἐν τοῖς διήγμασι τεράτειαν.
In questa analisi appare evidente che Apuleio conferma la matrice greca dei suoi racconti, già affermata dal sermone isto Milesio precedente, e che in questo modo anticipa il fabulam Graecanimam incipimus con cui si chiude la seconda parte del prologo.
Come occorre intendere il termine trasformazione? Apuleio precisa che la metamorfosi si attua secondo due modalità distinte: nella prima il cambiamento riguarda la figura, il piano dell’imago e dell’apparenza, mentre nella seconda essa riguarda il campo in cui domina l’azione della fortuna, la vita in senso generale (39). In termini ancora più specifici possiamo riconoscere nella Fortuna due entità distinte: la Fortuna caeca (XI, 15 Fortunae caecitas), altrove detta exitiabilis (II, 20), iniqua (V, 9), scaeva e saeva (II, 13), e invece la Fortuna videns che subentra alla seconda. Se la prima ha la caratteristica di attribuire ricchezza ai malvagi e sventura a chi invece meriterebbe onore (come espresso in VII, 2: et subibat me non de nihilo veteris priscaeque doctrinae viros finxisse ac pronuntiasse caecam et prorsus exoculatam esse Fortunam, quae semper suas opes ad malos et indignos conferat nec unquam iudicio quemquam mortalium eligat, immo vero cum is potissimum deversetur, quos procul, si videret, fugere deberet, quodque cunctis est extremius, varias opiniones, immo contrarias nobis attribuat, ut et malus boni viri fama glorietur et innocentissimus contra noxio rumore plectatur), la Fortuna videns si presenta con forti tratti di positività e con caratteristiche di luminosità che si rivelano pienamente soltanto nel libro XI, 15 : In tutelam receptus est Fortunae, sed videntis, quae suae lucis splendore ceteros etiam deos illuminat. La Fortuna caeca sprofonda Lucio in un vortice di abiezione e di inganno ma la seconda lo salva, portandolo invece alla beatitudine e alla consacrazione religiosa, secondo un processo assimilabile al concetto stoico di Provvidenza (40). Il processo di intervento e vittoria dell’una sull’altra Fortuna non è sempre necessitato: la metamorfosi di Telifrone rimane fissa e deformante, il suo volto deformato prova tangibile della forza della Fortuna caeca. Lo stesso avviene con la vicenda di Carite che riuscirà a unirsi allo sposo (41) soltanto attraverso il suicidio, mentre lo stesso rituale – quello delle Nozze funebri (42) – condurrà Psiche al suo felice destino di dea.
Riferendoci ai vari aspetti della fortuna e a quanto abbiamo detto precedentemente, possiamo comprendere il perché della forma plurale del titolo. In Apuleio le modalità con cui la trasformazione si attua sono due: o in modo omeopatico, secondo il principio per cui a cause uguali corrispondono uguali conseguenze, oppure secondo la norma che potremmo definire la “legge del contrappasso”, quando a cause uguali corrispondono conseguenze opposte.
Il caso di Socrate è interessante: questi subisce addirittura tre trasformazioni.
La prima riguarda la figura, il viso e il corpo, che sono consunti dal pallore e dalla sporcizia.
La seconda la fortuna, cioè la sua condizione sociale di marito e padre di famiglia, ridotto ora a chiedere l’elemosina ai lati delle strade.
La terza metamorfosi riguarda il nome, Socrates, che non è più un esempio di sapienza e virtù, ma di degenerazione e sventura.
figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se rursum mutuo nexu refectas: Apuleio ci dice che nel nostro romanzo, a differenza di come era nelle di Ovidio, la trasformazione reversibile. Al lettore la possibilità di constatare che quanto detto nel prologo si rifletterà, trovando conferma, sulla storia del protagonista.
Come suo tipico, il nostro autore si diverte a ordire trame che intrappolano la nostra attenzione e che ci permettono di scoprire, se aguzziamo le nostre capacità, l’unità della costruzione della sua opera.
conversas: se la metamorfosi porta al cambiamento delle forme, sarà la conversio spirituale a salvare Lucio e a renderlo sensibile al richiamo della dea Iside. Solo partendo da questo presupposto Apuleio può consentire al protagonista di accedere all’ultima metamorfosi, con cui egli riacquisterà la figura e la dignità umana. Nella circolarità di queste imagines conversas e in se refectas è già implicito il finale catartico e la spiritualità isiaca che genera il romanzo (43).
Consideriamo ora il curioso ut mireris al termine del primo periodo dell’opera. La posizione del verbo genera sorpresa in chi legge: l’invito ad ascoltare le favole scritte alla maniera egiziana si arricchisce di un significato nuovo, che ci richiama il senso di incredulità e di meraviglia che percorrerà il romanzo quando, attraverso la magia, si concreteranno quegli adynata che via d’accesso verso misteri religiosi più profondi. Ciò ottiene anche due effetti primari:
1) estrapola il senso di meraviglia;
2) lo pone come conseguenza diretta del racconto egizio (44).
Inoltre, la posizione dell’ ut mireris alla fine della prima parte del prologo si lega strettamente con la chiusa della seconda parte – con inizio in Quis ille? e termine in lector, intende: laetaberis. Rileviamo con C. Harraurer e F. Romer (45) che il primo capitolo dell’opera di Apuleio si costruisce secondo una struttura circolare, quella Binnenringkomposition che la ricerca ha evidenziato essere il primo manifestarsi dei due poli attorno cui si edificherà la narrazione di tutti gli undici libri: il meraviglioso e l’edificante. A questa parte segue un punto d’arresto (Exordior), il limite oltre il quale saremo calati direttamente all’interno dell’intreccio narrativo
Consideriamo innanzitutto il testo.
Quis ille? Paucis accipe. Hymettos Attica et Isthmos Ephyrea et Taenaros Spartica, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea vetus prosapia est; ibi linguam attidem primis pueritiae stipendiis merui. Mox,in urbe Latia advena, studiorum Quiritium indigenam sermonem aerumnabili labore nullo magistro praeeunte adgressus excolui. En ecce praefamur veniam, siquid exotici ac forensis rudis locutor offendero. Iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet. Fabulam Graecanicam incipimus. Lector, intende: laetaberis.
Non possiamo evitare di accennare, qui, ad alcuni temi e ad alcune questioni, anche se brevemente. Questa integrazione è necessaria per avere un quadro complessivo del prologo e dei quesiti che esso ci pone.
La narrazione in prima persona fa sospettare che sia Lucio a parlare in questa prime righe, e tale è il parere di vari studiosi tra i quali K. Burger, che riconosce la presenza di Apuleio insieme a Lucio soprattutto nell’espressione Fabulam graecanicam incipimus (46). Secondo una linea ermeneutica simile si muove F. Calonghi (47) il quale attribuisce a Lucio la prima parte del prologo compresa tra l’inizio del romanzo e il verbo exordior, facendo poi intervenire direttamente Apuleio per l’inciso Quis ille? Paucis accipe; sarebbero invece compresenti Lucio attore nella favola e Apuleio autore della medesima nelle espressioni praefamur veniam ... stilo quem accessimus... Fabulam graecanicam incipimus.
È comunemente accettato che il queste parole non parla soltanto Lucio. Sembra anzi che chi parla in questo prologo osservi dal di fuori le vicende che seguiranno, ciò che è sottolineato con forza da Winkler (48): “The prologue speaker does not say that he will tell a long, continuous story about himself; if anything he creates the opposte impression. “
Quale è infatti il senso di Quis ille? Questo ille è una presenza disturbante, che si inserisce con stridore tra l’ego del narratore e il tu del narratario. Se qui fosse il lettore ad intervenire con domanda, avremmo dovuto trovare un Quis tu?, ciò che non è. La terza persona indica colui che nelle righe precedenti aveva rivolto l’invito a prestare attenzione alla papyrus. Se leggiamo fra le righe, con questo accorgimento Apuleio ci d l’indicazione che il racconto sta per divenire omodiegetico e che d’ora in poi il narratore e l’autore del testo si compenetreranno.
Con Paucis accipe vediamo che Apuleio si richiama ancora una volta al prologo delle commedie plautine. Il modello specifico sembra essere quello dell’Aulularia, dove troviamo un’eco che a noi interessa (vv. 1-3):
Nequis moretur qui sim, paucis eloquar.
Ego Lar sum familiaris ex hac familia
unde exeuntem me aspexistis...
Paucis accipe: anche in questo caso occore chiedersi chi stia parlando. Potrebbe essere l’autore esterno al racconto, ma più verosimilmente si tratta di quel medesimo ille che ha raccolto l’invito a intervenire in prima persona nella narrazione. Paucis accipe funge infatti da tramite fra la realtà esterna al romanzo e la narrazione interna alle Metamorfosi. Con questo stratagemma Apuleio si firà al prestigioso modello della commedia di Plauto per catturare al meglio l’attenzione del pubblico. Possiamo ricordare a questo proposito il prologo dei Menaechmi che risulta scisso fra l’antiprologo, in cui il capocomico racconta l’antefatto, e il prologo vero, dove il capocomico, con un passaggio brusco e quasi contraddicendosi, cattura l’attenzione del pubblico. Anche qui ci sono locuzioni “apuleiane” (vv. 1-6) :Salutem primum iam a principio propitiam
mihi atque vobis, spectatores, nuntio.
Apporto vobis Plautum lingua, non manu.
Quaeso ut benignis accipiatis auribus.
Nunc argumentum accipite atque manum advertite,
quam potero in verba conferam paucissima.
Notiamo bene come l’intenzione di esporre paucis verbis il contenuto verr elusa con un turbinio di informazioni, tanto che il lettore finisce con l’essere confuso. Infatti le indicazioni biografiche che l’ille ci fornisce di se stesso appaiono alquanto vaghe: ci sono addirittura tre patrie in ordine geografico: Hymettos ... Isthmos ... Taenaros. dal punto di vista dimensione ale e fisico esse rappresentano tre dimensioni alternative: il monte dell’Attica celebre per la produzione di miele si accompagna alla stretta pianura a nord di Corinto e alle caverne (presso Sparta) da cui si accedeva all’inferno (luogo di comunicazione tra il mondo degli anà e quello dei katà). Non si tratta di connotazioni casuali: attraverso questi piani dimensionali (la collina attica = il cielo; Corinto = la terra; la grotta presso il tempio di Poseidone = l’Ade) (49) Apuleio riesce a comunicarci, già nel prologo, il percorso preciso che Lucio seguirà nel suo itinerario spirituale.
In particolare, Corinto (Isthmos Ephyrea) è citata nel romanzo come città d’origine del protagonista in I, 22, dove essa è ricordata come patria di Demea, l’amico che invia Lucio da Milone, e poi viene di nuovo apertamente in II, 12 : Nam et Corinthi apud nos ... Non è casuale, dunque, che alla fine del decimo libro il circolo narrativo ritorni appunto a Corinto. È qui infatti che il vortice della disumanizzazione e della trasformazione di Lucio raggiunge il suo punto più basso e da cui ricomincia la salita verso l’umanizzazione. Corinto si rivela come il luogo di nascita e di “morte” (l’iniziazione è una mors voluntaria) (50) punto di passaggio tra l’oscuro regno della goetia e la spiritualità isiaca che irromperà a Cencrea. Qui l’oscurità annichilente cede il passo alla luminosità lunare e la città diviene luogo di purificazione. L’adesione ai culti egiziani di Iside – quello stesso Egitto di cui si era parlato nel prologo – produce l’irrompere della lieta beatitudine promessa nell’incipit: lector, intende, laetaberis. Cerchiamo di riassumere in uno schema quello che stato detto. I tre piani sono:
– quello celeste
– quello ctonio
– quello catactonio.
Al primo corrisponde la luce piena, quella della visione diretta della divinità; al secondo la penombra della notte, illuminata tuttavia dalla luna (come nella notte a Cencrea), al terzo corrisponde la cecità, prodotta dalla luce malata della goetia stregonesca, che è riflesso della Fortuna caeca.
Apuleio ci ha rivelato fin dal prologo le diverse strade attraverso cui, passando dall’oscurità alla luce, il protagonista avrebbe visto realizzato quel destino solare di cui porta traccia già nel nome. Ma anche il lettore ha la speranza di poter raggiungere la medesima dimensione di luce: è appunto in questo senso che dobbiamo interpretare la chiusa del primo capitolo Lector, intende: laetaberis.
Figure: 1. Pagina di incunabolo di Apuleio; 2. Città di Hypata (Ipati), L'antro della vecchia strega; 3. Piante di papiri ad Alessandria d'Egitto; 4. Raffigurazione della Fortuna (Tyche): Eutichide (V sec. a.C.), la Tyche di Antiochia, copia di età romana (Musei Vaticani); 5. Dorso di edizione di Apuleio del primo Cinquecento (1512).
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