"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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LA TENEBRA E LA LUCE
NELLE METAMORFOSI DI APULEIO
di Tiziano Lorenzo Vezzoli
La realtà così plasticamente viva e mai idealizzata dei primi dieci libri delle Metamorfosi contrasta vivacemente con il tono spirituale e religioso dell’ultimo libro. Sta a noi indagare se tale opposizione, molto forte a una prima lettura del libro, all’analisi complessiva dell’opera non risulti essere soltanto apparente (1).
Nella nostra analisi abbiamo stabilito di lasciarci guidare da una traccia, che ci siamo prescelta, e che data dal rapporto luce e tenebra. Ci sembrato opportuno prendere inizio dalla manifestazione di Iside perché questa si rivela, nel contempo, sia come visione luminosa che come avvenimento della notte, e proprio per questo essa racchiude in sé, nel modo pi chiaro e trasparente, le proprietà e i caratteri specifici del nostro tema.
Come si sa, il libro XI ha come esordio l’epifania di Iside. Le strade che di volta in volta nei libri precedenti sembravano aprirsi per poi richiudersi subito dopo trovano ora uno sbocco nell’intervento diretto della dea. La tenebra e la luce, la notte e la rivelazione, la visione della realtà e l’accecamento, sono elementi che in questo libro vengono ripresi e rivelati nella pienezza del loro significato. I loro contenuti, adulterati dal mondo della imperfezione, sono sanati dalla luce di Iside.
La nostra intenzione, in questo capitolo, è appunto quella di scoprire il ruolo che la luce ha e le tematiche che a essa sono collegate nell’economia generale del libro, in rapporto anche con i suoi contrari, il buio e l’oscurità. Esamineremo concretamente i passi del testo e la teoria che ne uscirà sarà la sinopia su cui i colori, tratti dall’analisi dei primi dieci libri, andranno a costituire, contrastivamente, l’immagine d’insieme.
Per calarci in modo adeguato sulla scena del libro XI dobbiamo per volgerci a considerare gli ultimi momenti del libro precedente. La rivelazione di Iside ha infatti un precedente: il nostro protagonista si rifiuta di unirsi nel mostruoso accoppiamento con la donna pluriomicida e fugge, prima di nascosto e poi a rotta di collo, fino a raggiungere il sobborgo di Cencrea, lontano da Corinto e da quell’inferno di perversione. Lucio sceglie un luogo lontano dalla folla e dalla concitazione che gli ricordavano il teatro e la atroce scena preparata per lui. Sente un forte desiderio di solitudine e di raccoglimento: (X, 35) ... vitatis ergo turbulis... electo secreto litore (2). In questa spiaggia isolata abbiamo solitudine e silenzio, per ora. Ma a essi si aggiunge ben presto anche la immobilità, perché Lucio sdraia il proprio stanchissimo corpo in quodam mollissimo harenae gremio. Tutte le sensazioni appaiono attutite, ovattate. Il soffice manto della sabbia accoglie Lucio come nel grembo materno. Non vi altra condizione in cui la solitudine e l’essere sciolti da ogni stimolo esterno possano raggiungere un grado pi alto di intensità. Per esempio, l’udito viene meno quando Lucio sceglie di allontanarsi dalle turbulae del porto. Per quanto concerne poi la vista, Lucio non visibile agli occhi degli altri perché ha scelto un secretum litus, e ora anche la sua sensibilità visiva verrà spenta dal buio della sera: Nam et ultimam diei metam curriculum solis deflexerat (X, 35). Il termine ultimo che viene a indicarci come Lucio, arrivato nel porto di Cencrea, stia ora per approdare sulle terre del sogno e della visione, il sonno. A questo punto del romanzo il sonno non pi tormentato dalle oscure forze delle tenebre e dell’inganno, ci che avviene particolarmente nei primi libri, ma grazie alla cura pervigilis della dea reso vera quies: (X, 35) et vespertinae me quieti traditum dulcis somnus oppresserat. Tutti gli elementi citati sono inseriti in una trama che ha come compimento l’estasi. Analizzando con F. Rouget (3) i sintomi dell’estasi troviamo pieno riscontro con quanto Lucio sta vivendo in questo momento. Dall’esame dei dati che Rouget riporta rileviamo immobilità, silenzio, solitudine, privazione sensoriale, allucinazione. Quest’ultima voce quella che troveremo proseguendo nella lettura: la vista di Lucio, inghiottita dall’oscurità, verrà catturata da un’unica e fondamentale fonte di luce: i raggi della luna (4). La luce dell’epifania e quindi della conversione si accenderà per il nostro protagonista soltanto quando questi, superate la imperfezione e la incompiutezza del mondo delle apparenze, saprà aprirsi al mistero.
Vediamo dunque le tappe della visione. Innanzitutto (XI, 1) il risveglio avviene con una forte sensazione di trepidazione e di paura (Circa primam ferme noctis vigiliam experrectus pavore subito, video...), perché per la prima volta Lucio si sente al cospetto di un dio maestoso (5), venerabile e terribile. Siamo in una notte di plenilunio e l’attenzione di Lucio tutta concentrata sulla lucentezza del disco lunare che, scintillando con un candore straordinario, emerge dai flutti del mare. Video praemicantis lunae candore nimio orbem completum, dice Apuleio. Lucio sta per avere una rivelazione straordinaria e il silenzio, la solitudine e l’oscurità di quella notte oscura (XI, 1 Nanctus opacae noctis silentiosa secreta) annullano ogni sensazione esterna, accrescendo la sensibilità interna del protagonista. Nel profondo del suo animo il nostro Lucio avverte che tutti i corpi della terra e del mare e gli esseri viventi sono nutriti dai raggi umidi e limpidi della luna (nec tantum pecuina et ferina, verum inanima etiam divino eius luminis numinisque nutu vegetari XI, 1). Rileviamo come spunto di prossime analisi che, come Lucio scopre la divinità di Iside nella sua luce notturna, così anche Psiche aveva conosciuto il lumen di Eros nell’oscurità e nell’ombra della notte. Lucio sente che ormai il destino sazio delle sue infinite sventure (fato scilicet iam meis tot tantisque cladibus satiato) e, svegliatosi (confestimque discussa pigra quiete alacer exurgo) si purifica per sette volte nel mare da cui l’astro era nato.
Dopo aver assistito alla ambientazione del racconto che Apuleio ha strutturato secondo le linee che sono emerse, ora vediamo la nuova fase della conversione, forse quella pi importante, in cui Lucio si rivolge, in preghiera, direttamente alla divinità (Laetus et alacer deam praepotentem lacrimoso vultu sic adprecabar...). Innanzitutto rileviamo la presenza di alacer che è ripetuto per ben due volte in poche righe: segno che lo stato d’animo di Lucio è di grande fervore ed entusiasmo. Si tratta di un termine tecnico da iniziati: vedremo in seguito come tutto il dies salutaris si riveste di gioia e vitalità. Due punti ora devono guidare il nostro esame: che cosa Lucio chiede alla dea e con quali termini a lei si rivolge (cap. 2).
Si tratta, come vediamo, della richiesta di concedere pace e riposo ai suoi affanni (Sit satis laborum, sit satis periculorum) e di risollevare il suo destino caduto (tu fortunam conlapsam adfirma). Addirittura, con un paradosso, Lucio chiede di essere restituito a se stesso (Redde me meo Lucio) o di morire, se non gli più lecito vivere. Questa domanda di aiuto si lega a quella forma di devozione che venerava Iside come Isis-Tyche, dea che soccorre e trae in salvo, come testimoniano i particolari appellativi che a lei erano rivolti nel culto: Isis restitutrix salutis, Isis salutaris (6). Infatti uno dei suoi caratteri principali era il potere di vincere la Fortuna e il Destino. Fin dall’Ellenismo, per influenza dell’astrologia orientale, la vita umana era stata considerata dominata da una legge ferrea e immutabile che regolava il corso delle stelle e determinava i destini degli uomini. Solo chi si poneva sotto la protezione della dea poteva sperare di sconfiggere la Fortuna caeca. Dirà Lucio al cap. 25 tu ... fatorum etiam inextricabiliter contorta retractas licia, et Fortunae tempestates mitigas, et stellarum noxios meatus cohibes.
A questo punto osserviamo direttamente le parole di Lucio alla dea: (XI, 12) Regina caeli (7) sive tu Ceres alma frugum parens originalis, quae... miti commonstrato cibo nunc Eleusinam glebam percolis, seu tu caelestis Venus, quae primis rerum exordiis sexuum diversitatem generato Amore sociasti..., seu Phoebi soror, quae partu fetarum medelis lenientibus recreato populos tantos educasti praeclarisque nunc veneraris delubris Ephesi, seu nocturnis ululatibus horrenda Proserpina triformi facie larvales impetus comprimens terraeque claustra cohibens lucos diversos inerrans vario cultu propitiaris...
Dall’esame della preghiera traiamo il concetto della realtà mirionimica di Iside (8), che può essere identificata con Cerere, Venere, Artemide e Proserpina (ma l’intreccio di nomi sarà ampliato notevolmente da quanto dirà Iside stessa) (9). Ciò che è più importante però viene dopo: quando Lucio dice ista luce feminea conlustrans cuncta moenia et udis ignibus nutriens laeta semina ci svela come la luce sia la caratteristica fondamentale della dea. Sapevamo infatti che la luce ci che fa crescere gli esseri viventi e proprio i raggi della luna hanno fatto svegliare Lucio (praemimicantis lunae candore nimio completum orbem... in XI,1 – e si dice anche – ...verum inanima etiam divino eius luminis numinisque nutu vegetari (10).
A questo punto dovremmo continuare l’osservazione e considerare come costruita l’immagine della visione mistica di Iside. Prima per necessario fare alcune osservazioni sullo stato e le condizioni in cui avviene la visione. Le caratteristiche di totale silenzio e solitudine non mutano. Lucio (cap. 3) ricade in eodem illo cubili, oppresso dal peso di un sonno diffuso che soffoca il suo animo illanguidito e stanco (marcentem animum). Si dice poi Necdum satis coniveram: assistiamo al sorgere dal mare dell’apparizione divina (divina facies) in uno stato particolarissimo che è a metà tra il sonno profondo e la veglia. Esaminiamo se anche nella descrizione della dea gli elementi di luce trovino riscontro. (XI, 3) ... toto corpore perlucidum simulacrum, ... corona ... in argumentum lunae candidum lumen emicabat... [la veste] multicolor, bysso tenui pertexta, nunc albo candore lucida, nunc croceo flore lutea, nunc roseo rubore flammida, et...palla nigerrima splendescens atro nitore (cap. 3),.. [sul manto] stellae dispersae coruscabant earumque media semenstris luna flammeos spirabat ignes. Talis et tanta, spirans Arabiae felicia germina, divina me voce dignata est (cap. 4). Notiamo per inciso che alla luce si aggiunge il profumo. Come nasce storicamente la identificazione Iside-Luna? In verità già da tempo gli astrologi ellenistici avevano riconosciuto negli astri le immagini di alcune divinità, inoltre dobbiamo rifarci alla sovrapposizione fra le figure di Iside e quella di Hator, antica dea egiziana del cielo rappresentata in forma bovina, le cui corna sono all’origine, nella visione, del disco luminoso chiuso da serpenti (11).
Da dove proviene la luce in questa immagine ? Il corpo lucido risplende, la corona manda un candido fulgore e il manto riluce di bagliori cupi. Inoltre anche le stelle sul manto brillano e la luna al loro centro emette raggi di fuoco. Queste stelle che rivestono il manto di Iside appaiono come le medesime che, secondo la promessa di Carite, avrebbero dovuto ornare il corpo di Lucio-asino sotto forma di ricchi gioielli (VI, 28 bullisque te multis aureis inoculatum velut stellis sidereis relucentem) (12).
Riguardo poi la luce e l’oscurità, i loro contrasti e le loro assonanze, possiamo affermare con certezza che in Iside tutte queste opposizioni si accordano e si conciliano in un unico significato e in un unico valore, sotto la tutela della Fortuna videns, subentrata alla fortuna caeca. Vediamo in XI, 15: in tutelam iam receptus es Fortunae, sed videntis, quae suae lucis splendore ceteros etiam deos illuminat . D’altra parte la rivelazione della divinità sarà completa solo quando Lucio vedrà nocte media ... solem candido coruscantem lumine (XI, 23).
La visione mistica continua in XI, 5 con le parole che Iside rivolge direttamente al protagonista. La dea si definisce genitrice e dominatrice di tutti gli elementi, signora della natura e dei suoi principi (rerum naturae parens, elementorum omnium domina). Iside ripercorre la intuizione di Lucio, che aveva colto la presenza di una unica sovrana maestà dietro i vari nomi e aspetti degli dei (quoque nome, quoque ritu, quoque facie te fas est invocare), e la ribadisce con la sua autorità: è lei la progenitrice di tutti gli elementi, la più grande fra i numi, il divino che si cela sotto infinite forme e che è onorato con nomi e riti diversi. La considerazione che stiamo per fare sarà ampliata in altro luogo ma è utile rilevare fin d’ora che Lucio è già entrato in rapporto con la goetìa – forma occulta e degradata della teurgia di Iside (13) – attraverso le figure di Panfile che egli ha conosciuto direttamente e, indirettamente, attraverso il racconto che Aristomene fa delle vicende di Meroe.
Ma accanto alle due streghe va collocata un’immagine positiva, quella di Birrena. Se infatti Lucio ha sentito parlare di Iside sotto forme e nomi diversi, non deve stupirci il fatto che anche il nome di Birrena gli sia noto: (II, 3) Ego sum Byrrena, cuius saepicule nomen inter tuos educatores frequentatum retines. I nomi delle divinità che celano l’immagine di Iside sono arricchiti notevolmente rispetto a quelli di Lucio (14): la dea si presenta ora come Cibele, Minerva, Venere e Diana, Proserpina, Cerere, Giunone, Bellona, Ecate, Ramnusia e infine Iside. Questo solo il suo vero nome, noto a Etiopi ed Egiziani, i popoli che per primi sono illuminati dai raggi del sole. Ci occuperemo in altri momenti di scoprire il volto di Iside nei numerosi punti del romanzo dove esso presente in forma velata.
Proseguiamo. Per quale motivo Iside si è manifestata a Lucio? Ha agito su di lei la commozione e la pietà per le sue sventure (Adsum, tuos miserata casus XI, 5). Già nella preghiera iniziale infatti Lucio si era espresso dicendo fato ... tot tantisque cladibus satiato e il sacerdote, dopo la metamorfosi, dirà che proprio i pericoli e le sventure della Fortuna cieca lo hanno portato infine alla salvezza: Sed utcumque Fortunae caecitas, dum te pessimis periculis discruciat, ad religiosam istam beatitudinem improvida produxit malitia (XI, 15). Il destino di Lucio deve cambiare. Nel giorno consacrato a Iside si schiuderà per lui il ritorno alla vita e alla luce del sole. Come dice Iside “viene il giorno della tua salvezza”? Utilizza un verbo chiaro e specifico. Iam tibi providentia mea inlucescit dies salutaris (XI, 5). La salvezza dunque sempre luce, ma il nostro protagonista era incapace di vederla nel suo stato precedente perché accecato dalle false apparenze del mondo. È dunque molto logico, anche se sembra paradossale, che unicamente nell’oscurità totale della notte egli possa ricevere la illuminazione e la luce della conversione.
Il riverbero di Iside si riflette ormai pienamente su di Lucio del quale si dice vives beatus, vives in mea tutela gloriosus e più avanti in ipso subterraneo semirutundo me, quam vides, Acherontis tenebris interlucentem Stygiisque penetrabilibus regnantem... tibi propitiam frequens adorabis (XI, 6). Rileviamo qui che durante la iniziazione e la morte temporanea, in cui Lucio si porta oltre la soglia di Proserpina, egli vede nocte media... solem candido coruscantem lumine. Questo sole è immagine della stessa Iside che risplende fra le tenebre dell’Acheronte.
Andiamo oltre. Il sorgere del sole dopo la visione mistica è ricchissimo di elementi che ci interessano: il verbo, in particolare, il medesimo che Apuleio usa nel passo precedente quando descrive il risveglio di Lucio dal sonno e il suo aprire gli occhi alla luce della Verità: Nec mora, cum somno protinus absolutus pavore et gaudio ac dein sudore permixtus exsurgo ... e poche righe dopo, sempre in XI, 7, Nec mora, cum noctis atrae fugato nubilo sol exsurgit aureus. Siamo di fronte a una costruzione in parallelo fra il mutamento che avvenuto nella sua anima da una parte e il mutamento dell’atmosfera e del mondo che lo circondava dall’altra. Cosa è accaduto? L’oscurità è stata messa in fuga, la notte e il suo potere sono stati spazzati via o, per meglio dire, si sono dovuti piegare alla volontà della Fortuna videns.
Ecco che le tinte del nuovo giorno si colorano di gioia, di luminosità e di festosa allegria. Prima avevano predominato il silenzio e il raccoglimento, ora invece il giorno stesso sorride fulgido e ogni cosa si riveste di una esuberante vitalità: ecce discursu religioso ac prorsus triumphali turbulae complent totas plateas, tantaque hilaritudine, praeter peculiarem meam, gestire mihi cuncta videbantur, ut... ipsum diem serena facie gaudere sentirem (XI, 7). Al fine di creare un valido effetto di contrasto, Apuleio ricorda la tristezza e il freddo del giorno precedente, accostando la pruina pridiana al dies apricus ac placidus dove la natura si esprime con tutta la sua esuberanza: canorae etiam aviculae prolectatae verno vapore concentu suaves adsonarent. Vediamo gli alberi catturare la luce del giorno e mormorare con i rami mossi dal vento, mentre su questi rami sono le gemme ad emettere bagliori luminosi: arbores ... germine foliorum renidentes. Le nubi sono state finalmente disperse e il cielo risplende di una luce bianca, pura e serena. Proprio la descrizione del cielo in XI, 7 è fortemente paradigmatica per esprimere il timbro cromatico di tutto il paragrafo: caelum autem nubilosa caligine disiecta nudo sudoque luminis proprii splendore candebat. Anche in questo caso è interessante rilevare affinità sorprendenti con la luminosità sfavillante del castello di Eros, narrata da Apuleio in V, 1 (15). Nella residenza divina erano le pareti e le colonne d’oro ad emanare una meravigliosa epifania di luce, sebbene all’esterno non vi fosse alcun sole. Si dice infatti che la luce stessa del giorno aveva fatto di quel castello la propria dimora: totique parietes solidati massis aureis splendore proprio coruscant (16), ut diem suum sibi domus faciat licet sole nolente.
Esaminiamo ora in XI, 9 la processione sacra alla dea. Nel corteo le donne sono candido splendentes amicimine, hanno alcuni specchi luminosi anche dietro le spalle nitentibus pone tergum reversis con cui mostrano di onorare la bellezza della dea (17). Segue una gran folla con lucerne, fiaccole, candele e lumi con cui i fedeli mostrano la loro devozione alla dea, mentre il coro dei giovani che cosparge fiori e profumi canta inni in abito bianco (veste nivea et cataclista praenitens XI, 9). Per l’immagine delle fiaccole rileviamo che essa è simile ad alcune altre già vedute come in III, 28, dove la notte si illumina a giorno per le torce dei briganti a casa di Milone, oppure come in IV, 19 dove le fiaccole dei servi scoprono l’inganno di Trasileone travestito da orsa. Passando quindi al corteo degli iniziati, lasciamo che parli innanzitutto il testo: linteae vestis candore puro luminosi (così appaiono i consacrati a Iside) illae limpido tegmine crines madidos obvolutae, hi capillum derasi funditus verticem praenitentes. E prosegue: Antistites ... candido linteamine cinctum pectoralem adusque vestigia strictim iniecti. Troviamo di nuovo l’abito candido, i crani rasati e rilucenti come segno di consacrazione a Iside.
C’è ancora qualcosa di particolarmente interessante, per il tema della fiamma e della luce, nel culto isiaco: Quorum primus lucernam claro praemicantem porrigebat lumine non adeo nostris illis consimilem, quae vespertinas illuminant epulas, sed aureum cymbium medio sui patore flammulam suscitans largiorem. Iside si rivela come principio luminoso, e la sua fiamma qui è conservata in una lucerna dorata a forma di navicella. Abbiamo già avuto modo di dire che la luce è immagine della vita: in questo senso Iside va intesa come dea della luce. La luce che nasce e che muore è ritratta allegoricamente sul volto di Anubi-Hermes, il dio a testa canina messaggero degli dei, il cui viso a tratti nero e a tratti luminoso come l’oro (nunc atra, nunc aurea facie sublimis ... Anubis XI, 11) esprime il contrasto ombra-luce. Occorre però vedere bene che qui non si tratta più di una contraddizione quanto di un’armonia simbolica. In questo capitolo merita particolare attenzione proprio il tono aureo della luce. È d’oro la lucerna che Iside porta in mano nella visione mistica, aureus è il sole che illumina il dies salutaris e insieme con esso sono aueri molti tra i simboli sacri della processione. La lampada a forma di barca (il cymbium), i sistri, la palma di Anubi, simbolo di vita eterna, il vaso a forma di mammella (contenente il latte, elemento con cui Isis trasmise la immortalit al figlio Horus), la vannus con rami d’oro (che secondo Wittmann (18) custodiva simbolicamente il corpo ritrovato di Osiride), il viso del dio Anubi e l’urnula effigies veneranda summi numinis (che doveva contenere l’acqua sacra del Nilo) sono tutti di questo nobile metallo (19).
Un altro passo che ci interessa molto è costituito dal discorso del sacerdote in seguito alla trasformazione di Lucio in uomo: XI, 15 Iam receptus es Fortunae, sed videntis, quae suae lucis splendore ceteros etiam deos illuminat. Il messaggio appare chiaro: Lucio ha sopportato infinite fatiche e tribolazioni, scontrandosi con briganti, streghe e malfattori, ma le disavventure (asperrimorum itinerum ambages reciprocae) lo hanno condotto dal dominio della Fortuna caeca a quello della Fortuna videns. Dopo le tempeste, le sofferenze e i pericoli Lucio è entrato ormai nel portus Quietis. La sua rinascita, dalla oscurità alla luce, si realizza specificamente secondo tre tempi: in primo luogo si è realizzata la conversione spirituale della sua anima, causa determinante del secondo momento che vede l’intervento di Iside e la nuova metamorfosi, grazie alla quale Lucio torna ad acquistare la figura e la dignità di essere umano; nell’ultima fase il nostro ex-asino si vede aprire le porte della consacrazione alla dea, privilegio concesso solo a pochi, e con questo momento si ha il compimento della sua vera rinascita spirituale.
Tutti gli altri dei non hanno luce propria, dice l’immagine di XI, 15, ma ricevono i riflessi e la illuminazione dallo splendore della Fortuna videns. Quando poi Lucio viene a porsi sotto la protezione della dea (vives beatus, vives in mea tutela gloriosus XI, 6) anche il suo aspetto esteriore manifesta a tutti la sua nuova condizione: Sume iam vultum laetiorem, candido isto habito tuo congruentem. Il fulgore, la luminosità delle vesti e dei volti nella processione isiaca trovano conformità e piena accoglienza nell’animo di Lucio che accetta di ‘farsi schiavo’ della dea per poter essere veramente libero: Nam cum coeperis deae servire, tunc magis senties fructum tuae libertatis gli dice il sommo sacerdote.
Un nuovo momento di luce è presente nella descrizione della Nave augurale sacra a Iside (XI, 16), il varo della quale dava inizio alla stagione della navigazione. Osserviamo i particolari: la vela è definita nitens, dell’albero maestro si specifica iam malis insurgit pinus rutunda, splendore sublimis, insigni carchesio conspicua, mentre della carena della nave si aggiunge et puppis intorta chenisco, bracteis aureis vestita fulgebat, omnisque prorsus carina citro limpido perpolita florebat. Possiamo vedere in Lucio l’immagine vivente di qyetsa nave che, lasciata libera durante la processione e guidata dalla volontà della dea, avrebbe garantito alla città una navigazione propizia. Anche Lucio infatti è approdato al suo porto, se pure dopo infinite peripezie, con successo. Così ci era stato detto in XI, 15: ad portum Quietis et aram Misericordiae tandem, Luci, venisti. Ora anche la sua navigazione potrà essere serena in un mare navigabile e tranquillo.
La notizia della straordinaria e miracolosa vicenda di Lucio si diffonde presto, così che (cap. 8) molti suoi amici, credutolo già morto, accorrono a salutarlo complimentandosi per il prezioso privilegio concessogli dalla dea, grazie alla quale era tornato dagli inferi alla luce : quisque munerabundi ad meum festinant ilico diurnum reducemque ab inferis conspectum. La vita di Lucio cambia totalmente e la dimensione spirituale prende sempre più spazio nella sua esistenza: anche le notti non sono più teatro di magie oscure, ma, anzi, in esse si manifestano la volontà e i consigli di Iside (Nec fuit nox una vel quies aliqua visu deae monitu ieiuna cap.19). Apuleio ricorda con precisione le caratteristiche della liturgia isiaca e anche in questo caso sottolinea le caratteristiche luminose: splendente è il colore delle cortine che fanno velo alla statua della dea (velis candentibus cap. 20), mentre sono gli fedeli, raccolti nel tempio, a salutare con canti e acclamazioni la nascita della luce di ogni nuovo giorno salutata (Rebus iam rite consommatis inchoatae lucis salutationibus religiosi primam nuntiantes horam perstrepunt). In una rivelazione notturna Lucio sogna il sommo sacerdote che gli porge alcuni oggetti prendendoli dal suo grembo, predizione legata all’arrivo del suo ‘servo Candido’: il mattino seguente, infatti, giungono da Ipata alcuni servi che gli riportano il cavallo bianco lasciato in quella città (20). Se Lucio aveva detto in XI, 1 che erano i raggi della Luna a nutrire e a far crescere ogni essere vivente, alla fine del romanzo accade effettivamente che tutti gli aspetti della realtà si trasfigurino e albeggino di questi raggi. L’universo ha subito anch’esso una sua metamorfosi.
Riguardo alla consacrazione di Lucio, Apuleio ci dice che la dea suole prescegliere solo coloro che sono più degni di questo onore per affidare loro i segreti della grande religione: quippe cum transactis vitae temporibus iam in ipso finitae lucis limine constitutos, quis tamen tuto possint magna religionis committi silentia, numen deae soleat eligere (XI, 21). Il dies semper optabilis arriva anche per Lucio in una nox obscura, quando con non obscura imperia un sogno gli comunica la decisione positiva della dea. La gioia di Lucio è tale che questi si mette in cammino ancor prima che si sia fatta luce: necdum satis luce lucida, discussa quiete, ... protinus ad receptaculum sacerdotis contendo (XI, 22). Portati a termine i dieci giorni di digiuno, la cerimonia inizia all’imbrunire: Sol curvatus intrahebat vesperam (XI, 23). Folle di fedeli accorrono per partecipare al rito iniziatico ma Apuleio si rivolge direttamente al lettore del romanzo, avvertendolo che non gli è lecito conoscere fino in fondo i misteri arcani del rito: dicerem, si dicere liceret, cognosceres, si liceret audire. Gli elementi che Apuleio ci dà sono ancora una volta relativi all’oscurità e alla luce: Accessi confinium mortis et calcato Proserpinae limine per omnia vectus elementa (21) remeavi (22); nocte media vidi solem candido coruscantem lumine, deos inferos et deos superos accessi coram et adoravi de proxumo (XI, 23). Come nella favola di Eros e Psiche, così ora Lucio conosce l’unione estatica con il dio e la sua esperienza più elevata si esprime con l’immagine di un luminoso abbacinamento. Nel punto più complesso del romanzo il sole e la notte (luce e tenebra in apparente contraddizione) coesistono (23) in virtù di un mistero splendido e oscuro: Ecce tibi rettuli quae, quamvis audita, ignores tamen necesse est (XI, 23). Dobbiamo ricordare ora almeno alcune delle molte interpretazioni che sono state date su questo passo, forse il più difficile e affascinante delle Metamorfosi. A. Loisy (24) ricostruisce dalle allusive parole di Apuleio un complicato rituale in cui l’“iniziando”, sotto la suggestione di immagini dipinte (25) rivivrebbe in prima persona la morte e la risurrezione di Osiride». Anche qui sarebbe fondamentale l’importanza dell’atmosfera di luci e di ombre tipica dei Misteri, in cui una lampada avrebbe rappresetato il sole. Similmente F. Cumont (26) pensa al cuore della iniziazione come alla attualizzazione del ciclo della uccisione e resurrezione del dio, sottolineando però che attraverso di questa il mysta giungerebbe a ottenere la immortalità, identificandosi con Osiride. Di parere diverso M. P. Nilsson (27) che non parla di vita eterna: secondo le sue ricerche il contrasto morte-vita sarebbe da riferirsi semplicemente alla vita precedente la conversione, che verrebbe rifiutata e considerata come una morte; la nascita sarebbe da intendersi come la nuova vita nella consacrazione alla divinità (28).
Iniziate all’imbrunire, le sacre cerimonie si prolungano fino all’alba quando Lucio si pone su un alto piedistallo presso la statua della dea, con le dodici stole e il mantello ricamato a figure zoomorfe – una fiaccola nella mano destra e il capo cinto da raggi di foglie di palma (29) – offrendosi così alla venerazione dei fedeli quale nuovo Sole. Secondo Wittmann le dodici stole a motivi floreali sono da considerarsi un simbolo egiziano ed ellenistico di fecondità poiché, unite alla figura del Sole, compaiono già nel culto liturgico rivolto ad Helios-Osiride in età alessandrina. L’osservazione è convincente: anche la torcia e la corona di palme ci orientano verso un culto solare. Wittmann ci aiuta dunque a comprendere la grande importanza che aveva la luce nel culto egiziano, dove essa era l’essenza visibile della vita. Iside e Osiride sono per questo motivo divinità della luce. Per capire il senso del rito inizatico dobbiamo dunque riferirci al dio Osiride-Helios (30), con il quale il mysta giungerebbe a identificarsi durante la notte sacra. Nel mondo degli inferi l’unione mistica consentirebbe al mysta di superare la notte, rivestendosi di luce e sconfiggendo la morte. Riguardo ancora alle dodici stole, sono altrettanto interessanti le corrispondenze ipotizzate dagli studiosi con le dodici ore della Notte durante le quali il sole si oscura prima di rinascere al mattino, e con i dodici segni zodiacali.
Il manto con i dracones Indici e i grypes Hiperborei viene interpretato da N. Fick (31) secondo il sistema semantico dei simboli orfici, che fa proprio quello cosmico-astrale dell’Oriente. Ecco che il mostro rappresenta dunque la forza dell’oscurità, il mondo ctonio e quello infernale, contro cui il mysta risulterà vincitore. N. Fick fa notare che il segno della vittoria di Lucio appare ben visibile sul manto: «Il applique ses marques presques comme des glorieux trophées» (32). Dobbiamo rilevare che il serpente, come il drago, è una figura-simbolo di eccezionale valore per la nostra ricerca: esso rappresenta l’amore e l’odio, la luce e l’oscurità, la vita e la morte. Il suo significato è tipicamente misterico: esso è l’antico simbolo di Ishtar, dea dell’amore per i Babilonesi, mentre compare ad Eleusi e nei Misteri di Dioniso nel matrimonio mistico. Apuleio ha fatto ricorso ad esso nella favola di Amore Psiche: è proprio un serpente mostruoso quell’essere, temuto anche dagli dei, che Psiche deve sposare in Met. IV, e che, alla fine della favola, si rivelerà essere l’Amore (Eros) tra le cui braccia Psiche si sveglia dal sonno infernale (VI, 21).
Torniamo dal nostro Lucio che è rimasto dove l’avevamo lasciato (XI, 24): At manu dextera gerebam flammis adultam facem et caput decore corona cinxerat palmae candidae foliis in modum radiorum prosistentibus. Sic ad instar Solis exornato me et in vicem simulacri constituto, repente velis reductis, in aspectum populus errabat. Anche in questo caso è la luce ad attirare la nostra attenzione. Infatti, secondo la promessa fatta da Carite a Lucio-asino (VI, 26), una volta fuggiti dai briganti Lucio sarebbe stato ricoperto di gioielli come un manto di stelle. La luce di queste stelle, che abbiamo già visto rifulgere sul manto di Iside, è quella che risplende ora nello sfavillare del nuovo sole (33). Consideriamo ora la bellissima preghiera che viene rivolta alla dea in XI, 25: Te superi colunt, observant inferi, tu rotas orbem, luminas solem, regis mundum, calcas Tartarum. Lucio riproduce l’immagine del sole (34) che, nel linguaggio simbolico di Apuleio, riceve la luce esattamente da Iside-Luna (35).
La parte finale del libro non fa che confermare quanto già sapevamo: anche dal viaggio a Roma che Lucio compie monitu deae si ricavano elementi che hanno attinenza con il sole e con l’oscurità. È di sera che Lucio entra nella sacrosancta civitas e in quell’occasione viene a chiudersi il primo anno dopo la conversione e la metamorfosi: Vesperaque, quam dies insequebatur Iduum Decembrium, sacrosanctam civitatem accedo ... Ecce transcurso signifero circulo Sol (36) magnus annum compleverat (XI, 26). Comunque le peripezie del nostro protagonista non sembrano aver fine nemmeno dopo la consacrazione. Infatti Lucio apprende con grande meraviglia che dovr procedere a una iniziazione nuova e totalmente diversa. Non sapendo cosa voglia intendere la dea, la sua mente viene turbata gravemente, finch il sogno di Asinio Marcello, dal nome che parla, cancella ogni dubbio: Sublata est ergo post tam manifestam deum voluntatem ambiguitatis tota caligo (cap. 27). Nell’undicesimo libro la notte diviene la fonte di illuminazione privilegiata per risolvere situazioni di incertezza e oscurità, grazie alla cura pervigilis della dea (ricordiamo Nec fuit nox una vel quies aliqua visu deae monituque ieiuna di XI, 19). Al contrario, nei libri precedenti proprio la notte era il regno della magia e della mistificazione.
Quale stupore per Lucio (37) quando gli si prospetta una terza consacrazione! Confortato da un nuovo intervento notturno che lo esorta con decisione a non essere spaventato per quel privilegio che, concesso raramente agli altri una sola volta, lui potrà rinnovare per la terza (38) Lucio si sottopone nuovamente al rito.
Giungiamo così a considerare l’ultimo episodio di “luce” dell’opera: il punto in cui Osiride si manifesta a Lucio nella sua vera essenza, senza alcun velo, nel suo reale e venerabile aspetto. È la rivelazione ultima per Lucio, quando il momento di più intensa luce spirituale supera la traccia della inexplicabilis voluptas di cui Apuleio aveva parlato con riferimento al primo gradino della scesa spirituale del mysta. Tutto ciò corrisponde a una fase più evoluta della rivelazione, poiché le folle dei fedeli rivolgevano la loro venerazione quasi esclusivamente a Iside. Certamente esercitava attrazione, sulle moltitudini, il potere della dea di spezzare i ferrei legami del destino e di raddrizzare gli stellarum noxios meatus (39), ma quanto più si avanza nella parte intima e antica dei misteri sacri tanto maggiore è il potere e il ruolo che Osiride assume. Ecco il reale motivo per cui alla massa dei semplici fedeli restava sconosciuto, in molti casi, il senso più recondito delle cerimonie del culto isiaco. Per Lucio tuttavia non sarà così: nelle due iniziazioni a Osiride al posto della luce che acceca troviamo una luce che rende perspicuo, evidente e intellegibile, ciò che prima non lo era: Osiris non in alienam quampiam personam reformatus, sed coram suo illo venerando me dignatus adfamine per quietem praecipere visus est (XI, 30).
Il privilegio straordinario di Lucio è stato quello di aver potuto contemplare la divinità a occhi aperti, lui che era passato dall’accecamento per mancanza di luce dei primi dieci libri all’abbacinamento del sole nella nox media.
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