"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Il "Notturno" di Alcmane (fr. 89 P)
εὕδουσι δʼ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες
πρώονές τε καὶ χαράδραι
φῦλά τʼ ἑρπέτ' ὅσα τρέφει μέλαινα γαῖα
θῆρές τʼ ὀρεσκώιοι καὶ γένος μελισσᾶν
καὶ κνώδαλʼ ἐν βένθεσσι πορφυρέας ἁλός·
εὕδουσι δʼ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων.
Assumiamo come punto di riferimento per il testo del frammento l’edizione di Alcmane curata da A. Garzya (Alcmane, I Frammenti, a cura di A. Garzya, Napoli 1954, fr. 49, pp. 126 ss.):
"Dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, e le schiere di animali, quanti nutre la nera terra, e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli abissi del mare purpureo; dormono le schiere degli uccelli dalle ali distese".
Traduzioni moderne:
1. Pascoli Dormono de’ monti le vette e le valli e i picchi e i burroni e quanti esseri, che fogliano e che serpono, nutre la nera terra, e le fiere montane e la schiatta delle api e i mostri nei gorghi dell’iridato mare, e dormono degli uccelli i popoli, dall’ampio alare
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6. G.Perrotta Dormono le cime dei monti e gli abissi e i promontori e le forre, e le stirpi degli animali che la nera terra nutre, e le fiere montane e la progenie delle api e i mostri nei gorghi profondi del mare di viola; dormono le sirpi degli uccelli dalle lunghe ali. |
2. Fraccaroli (1913) Dei monti i greppi dormono e le balze e i declivii e le convalli e quanti nutre la terra animali striscianti e le fiere selvagge e la famiglia dell'api, e quanti mostri entro i recessi stanno del mar purpureo, e il popol tutto dei pennuti ach'essi hanno chiuse le ciglia
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7. F.M. Pontani Dormono i vertici dei monti e i baratri, le balze e le forre; e le creature della terra bruna, e le fiere che ai monti s’acquattano, e gli sciami, e i cetacei nel fondo del mare lucente. Dormono le famiglie degli uccelli fermo palpito d’ali.
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3. Quasimodo Dormono le cime de’ monti e le vallate intorno, i declivi e i burroni; dormono i rettili, quanti nella specie la nera terra alleva, le fiere di selva, le varie forme di api, i mostri nel fondo cupo del mare; dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali.
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8. A. Aloni Dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, le selve e gli animali, quanti ne nutre la nera terra, le fiere montane e la famiglia delle api, i pesci nel profondo del mare purpureo; dormono le stirpi degli uccelli dalle lunghe ali.
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4. M. Valgimigli Dormono le grandi cime dei monti, e i dirupi e le balze, e i muti letti dei torrenti; dormono quanti strisciano animali sopra la terra nera; e le fiere montane, e le famiglie delle api; dormono i mostri giù nel fondo del buio-ceruleo mare; dormono gli uccelli dalle lunghe ali distese.
5. G. Mazzoni (*) De le montagne dormono le cime; E i dirupi e i burroni e le valli ime; E quante foglie ha in selve, Quante montane belve E quante serpi mai nudre la terra; E le api, e i mostri che l'abisso serra Del nereggiante mare, E il popol degli augelli uso a volare
(*) E' la versione utilizzata dal compositore Giorgio Federico Ghedini (1892-1965) per la sua rielaborazione musicale (per voce grave e pianoforte). |
9. E. Savino Addormentate guglie, strapiombi di rocce macigni, crepacci, vive cose che vanno, striano la terra madre notturna, prede intanate nei sassi, api del miele, zanne nel buio del mare perlaceo. E addormentati i nidi degli uccelli scatto d'ali.
10. F. Ferrari Dormono le cime dei monti e le gole e le balze e le forre e la selva e gli animali che nutre la terra scura e le fiere montane e la stirpe delle api e gli animali negli abissi del mare cangiante: dormono le specie degli uccelli dalle ali distese.
11. Mauro Pagani
Dorman e cimme di munti
(Traduzione-rielaborazione in dialetto genovese del musicista e compositore Mauro Pagani: vedi |
Qualche riflessione sulle traduzioni italiane di Alcmane
Rileveremo innanzitutto quanto sia difficile per il traduttore italiano trovare
il giusto tono. Un evidente disagio di fronte alla rigorosa essenzialità del
dettato alcmaneo induce qualche traduttore a moltiplicare i termini: ad esempio
la duplice anafora di e!udousi (vv. 1 e 6) diviene una triplice anafora in
Quasimodo e addirittura una quadruplice anafora in Valgimigli: è inutile
rilevare come simili interpolazioni (tra l’altro non giustificate da alcuna
esigenza della lingua d’arrivo) sconvolgano l’architettura generale del brano.
La tendenza a sovrabbondare trova la sua massima espressione in Valgimigli
(«...le grandi cime ... i muti letti dei torrenti; ... giù nel fondo del
buio-ceruleo mare»), ed è una situazione sorprendente, perché tutti sappiamo
quale fine vena critica e quale capacità di penetrare i classici antichi avesse
Valgimigli. Ma anche nella versione di Quasimodo non mancano aggiunte
fuorvianti: «le vallate intorno ... i rettili, quanti nella specie ... »:
retaggio forse di una tradizione retorica che mira all’enfasi e all’effetto, una
tradizione che certo era estranea ad Alcmane. Nel testo leggiamo
fûla ... génoj
... fûla, con una variazione e una ripetizione: nessuna delle versioni proposte
riproduce questo schema, e tutti decidono di sopprimere uno o due di questi
sostantivi. Altro motivo per cui la versione di Quasimodo si segnala è la
volontà di privilegiare i legami asindetici (p.es. « le fiere di selva, le varie
forme di api, i mostri nel fondo cupo del mare»), incrinando anche in questo la
struttura originaria del frammento, in quanto al lungo distendersi della
descrizione e al ritmo lento determinato dal polisindeto subentra una sintassi
spezzata e un ritmo faticoso. Pascoli, in genere misurato e teso a una
letteralità in qualche caso persino esagerata nel suo assoluto rigore e di
faticosa lettura, ci offre un incredibile «quanti esseri, che fogliano e che
serpono»: la sua versione presume la lezione (congetturale) fûlla
che si trova
nell’edizione dei lirici curata da Bergk, ma fûlla sono le foglie, non gli
esseri che fogliano (!): anche in questo caso l’avere posto sullo stesso piano
fûlla e çrpetá, quasi che fossero entrambi forme verbali, contribuisce a
intaccare la struttura originaria del frammento. Anche in Pascoli, comunque, si
nota un sostanziale disagio di fronte all’originale: col fine di ottenere un
effetto di solennità si opera intenzionalmente scegliendo parole che
appartengono a un registro molto elevato: e l’appartenenza alla lingua poetica
di un determinato termine lo fa preferire anche se la sua rispondenza a una
determinata parola dell’originale è molto relativa: p.es. «nei gorghi
dell’iridato mare» per pofuréaj. Anche a Pontani non basta rendere
ðreskÐoi con
‘abitanti dei monti’ o simili: si ricorre all’espressione «che ai monti
s’acquattano». È obiettivamente difficoltosa la resa dei composti bimembri greci
del tipo ×ododáktuloj: la resa analitica (dalle dita di rosa o che ha le dita di
rosa) comporta un’alterazione del ritmo originario, perché impone più parole di
fronte a una sola parola del testo, la resa letterale non è possibile se non in
quei casi in cui un composto equivalente è consentito da una tradizione
preesistente (piè-veloce), lo stato costrutto (l’aurora dita di rosa) è molto
amato nelle traduzioni del nostro secolo, ma costituisce un’aperta violazione
delle norme sintattiche italiane, ed è comunque soluzione di ripiego perché
l’espressione italiana non si realizza come unità e non si configura come
attributo. Nel caso di tanupterúgwn, che contiene nella prima parte un elemento
ampiamente attestato in molte lingue indeuropee, ma non più conservato in greco
se non come primo membro di composti, si ha in più la difficoltà di una resa
precisa del contenuto: ciò spiega perché le ali degli uccelli di Alcmane siano
ora lunghe ora ampie: riappare la tendenza di Pascoli ad avvalersi di lessemi
alti («dall’ampio alare») e la tendenza di Valgimigli ad abbondare («dalle
lunghe ali distese»): soluzione originale, ma lontanissima dal testo, è quella
di Pontani («le famiglie degli uccelli fermo palpito d’ali»).
L’intraducibilità del lirico greco ha ragioni obiettive. Abbiamo già visto che
ogni parola e ogni immagine del brano di Alcmane ha precisi antecedenti in
Omero. Alcmane è pienamente inserito in una tradizione poetica che non è più la
nostra: per Alcmane la terra è mélaina come il mare è purpureo, gli uccelli sono
tanuptérugej e le fiere ðreskÐoi: è una preoccupazione nostra stabilire se il
mare è purpureo perché ribolle o se purpureo allude a un colore (e in tal caso
quale: un colore specifico, un’idea generica di scuro, un’idea di lucentezza
brillante?), e il fatto che la terra nella nostra comunicazione abituale non sia
più sentita come nera ci induce a tradurre come la terra bruna, che è un’aperta
violazione non solo della lettera del testo, ma anche e soprattutto del mondo
poetico, culturale ed espressivo dell’autore. Tradurre il notturno di Alcmane
significa per noi filtrarlo attraverso una tradizione di retorica: si finisce
per applicare sul testo di Alcmane un’incrostazione di elementi estranei alla
composizione originale. La volontà, in sé legittima o almeno comprensibile, di
immettere Alcmane in una tradizione di linguaggio poetico più vicina al nostro
finisce per alterare in modo indelebile la struttura originale del quadro. È un
problema senza soluzione. Leggere il notturno di Alcmane, come in genere i testi
greci, significa percepire una sensazione di alterità e di lontananza: questi
testi provengono da mondi e da culture lontane. Compito della traduzione non è
soltanto quello di superare la barriera linguistica che rende il testo greco
accessibile solamente ai pochi che hanno acquisito, attraverso un addestramento
necessariamente lungo, duro e paziente, la capacità di accostare una lingua
dalle forme e dalle strutture complesse: la traduzione dovrebbe anche attenuare
(non eliminare del tutto, ché questo non sarebbe né possibile né corretto) la
sensazione di lontananza che intercorre tra quei testi e noi. Paradossalmente,
ogni traduzione di Alcmane finisce per accentuare questa barriera, ed ottiene
dunque un effetto che è l’esatto opposto delle sue premesse. La sola via è
quella di accostare il lirico avvicinando noi stessi al suo mondo, animati dalla
volontà di ascoltarne la voce e di percepirne in profondità le vibrazioni,
attraverso uno studio minuto, ma intelligente dei suoi testi. È sicuramente una
via più faticosa, ma, oltre ad essere la sola percorribile, produce alla fine
una gratificazione pari all’impegno che si è profuso nel percorrerla.
Nell'immagine: E. Munch, Chiaro di luna (1895), olio su tela, cm 93 x 110, Oslo, Nasjonalgalleriet
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