"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
|
|
![]() ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
Ulisse o il viaggio interminato
di Giulia Regoliosi
(articolo pubblicato su Il nuovo Areopago 1/3 (1982), pagg.48-62)
Già nel corso della letteratura greca la valutazione del personaggio è fortemente contraddittoria; varia, mutevole e poliedrica è la figura di Ulisse nella tradizione occidentale. E importante rilevarlo, giacché l’immagine che se ne ha abitualmente, in fondo, non coincide con nessuno degli Ulissi effettivamente creati, ma è una curiosa commistione di vaghi ricordi omerici e danteschi. Capire perché proprio questo personaggio, fra tutti, si sia così mutato, capire il senso dei diversi ricordi omerici e danteschi. Capire perché proprio questo personaggio, fra rutti, si sia cosi mutato, capire il senso dei diversi Ulissi, può voler dire invece capire meglio i poeti e le epoche che li hanno espressi, e la loro visione dell’uomo. È appena il caso di dire che una ricerca di tale portata richiederebbe un lavoro di ben altra ampiezza: i giudizi che tentiamo sono offerti all’approfondimento critico del lettore (1).
Segno di contraddizione
L’Ulisse-Odisseo dei poemi omerici, che per comodità affronteremo in blocco senza porre problemi sull'unità d’autore, appare caratterizzato da tre ordini di appellativi, che pongono in rilievo tre fondamentali caratteristiche del personaggio: l’intelligenza, nei suoi diversi aspetti di ingegnosità, astuzia, capacità di comprendere situazioni e persone, di far tesoro dell’esperienza; una complessa qualità espressa dalla radice tla- coi suoi molteplici derivati, e che indica sia la sofferenza, sia la capacità di sopportazione, sia la capacità di attendere il momento giusto per agire, sia l’ardimento e il coraggio; infine l’abilità militare (2). Il terzo ordine di appellativi mostra come Odisseo sia pienamente inserito fra gli eroi omerici, in cui la capacità di usare le armi, la forza, perfino la spietatezza verso il nemico abbattuto sono segni distintivi e notazioni non solo usuali, ma legittime e positive. Gli altri due ordini sono più tipicamente suoi, e lo contraddistinguono: su questi in particolare vale allora la pena di soffermarsi. Quale valore dà Omero all’astuzia, ad esempio, o alla pazienza-coraggio? Intravede in queste caratteristiche delle luci e delle ombre, o l’immagine di esse, e quindi del personaggio, è chiaramente positiva? Un’analisi puntuale dei due poemi ci dà una risposta netta. In entrambi il giudizio che gli altri personaggi danno di Odisseo, la coscienza che egli ha di sé, il suo comportamento nelle diverse situazioni sono univocamente positivi: nei rari casi in cui non lo siano, interviene subito un cambiamento o una rettifica. Odisseo nell’Iliade è stimato da tutti i capi, e dagli stessi nemici; gli sono affidati tutti gli incarichi diplomatici e difficili imprese belliche; è costantemente presente sul campo, spesso in posizione di autorevolezza; ha la stima e l’appoggio di Atena, dea dell’intelligenza; ha una sicura consapevolezza del proprio valore, che lo porta sia a rintuzzare prontamente accuse infondate (ricevendo le scuse di chi le aveva avanzate), sia a rifiutare lodi superflue (3). Nell’Odissea, naturalmente, il ritratto si approfondisce, ma le notazioni presenti nell’Iliade vengono più volte riprese: il giudizio espresso su di lui dai protagonisti dell’Iliade sopravvissuti, Nestore, Menelao, Elena, ribadisce positivamente la sua abilità nell’inganno e la sua esperienza molteplice. Emerge anche un giudizio su Odisseo come uomo privato e come signore: sia la madre (evocata dai morti), sia lo schiavo Eumeo lo ricordano con parole affettuose, sottolineandone le doti di umanità. Nell’incontro coi Feaci egli rivela doti di fine psicologo e, in particolare nelle parole di augurio a Nausicaa, una profonda visione del matrimonio come comunione di spirito (4). Ma soprattutto su tre caratteristiche ci soffermiamo, poiché richiedono una precisazione.
La seconda caratteristica, che gli viene rimproverata sia da Calipso sia da Atena, è la diffidenza, che lo porta a non fidarsi e a mentire su di sé anche quando non sarebbe strettamente necessario. Ma questa tortuosità della sua mente è un habitus o nasce da una dolorosa esperienza? L’episodio di Polifemo, che precede cronologicamente ogni altro accenno a tale caratteristica, è illuminante: inizialmente le risposte di Odisseo al Ciclope sono sincere; solo dopo che Polifemo ha rivelato la sua crudeltà e l’ha insultato dandogli dell’ingenuo, l’eroe ricorre agli inganni. L’esperienza lo renderà poi prudente: non a caso la parola eidòs (“esperto”) ricorre sia nell’episodio in questione sia nel contesto del rimprovero d’Atena (6). Finalmente abbiamo da approfondire l’idea di tlemosýne, “pazienza”. Come emerge chiaramente soprattutto ad Itaca, quando Odisseo freme di fronte alla spudoratezza delle ancelle e s’impone di calmarsi, si tratta dell’attesa vigile e forte che la situazione cambi, che sia tempo di agire con fermezza e coraggio: l’esplicito ricordo dell’episodio di Polifemo chiarisce una volta di più come tale episodio sia per più versi chiave di lettura del personaggio (7). Un’ultima osservazione: alcuni tratti del mito di Odisseo, noti da autori piu tardi, sono in Omero appena accennati, e in contesti non sicuramente omerici (8), o mancano completamente: così la discendenza dal maligno Sisifo, la falsa accusa di tradimento architettata contro Palamede, l’inganno operato contro Filottete, il sacrilego furto da Troia della statua di Atena, la parte odiosa svolta nell’uccisione di Ifigenia, di Polissena o di Astianatte. E’ impresa disperata chiedersi se Omero conoscesse questi episodi o per lo meno il legame di Odisseo con essi, così come chiedersi se l’immagine che il poeta ci dà del personaggio è sua innovazione o se tale gli era pervenuta dalle fonti preletterarie. Quel che è certo è l’assoluta positività dell’Odisseo omerico: intelligenza e azione sono in lui sempre nella giusta luce e misura.
Negli autori successivi questa visione va gradatamente deteriorandosi. E’ purtroppo impossibile, data la ristrettezza di spazio, effettuare un’analisi puntuale del cammino che il personaggio compie nella fase più creativa della cultura greca: nei poemi ciclici, nella lirica, nella tragedia. Possiamo solo accennare ad alcune tappe. Nei poemi ciclici si va lentamente facendo strada l’idea di una partecipazione di Odisseo agli episodi negativi cui si era alluso più sopra: ma la sua responsabilità e soprattutto l’idea di una sua condanna morale non sono ancora chiaramente presenti (9). In Pindaro gli accenni sono scarsi, ma significativi nella loro negatività: per un autore che considera come massimi valori la verità e la sapienza che solo gli dei possono dare, l’accusa ad Odisseo di frode, d’inferiorità nella sophía rispetto alla sua vittima Palamede, l’accusa ad Omero di aver usato della bellezza della poesia per coprire la verità della figura d’Odisseo, sono assai chiare: ciò che è dono divino non può essere manipolato dagli uomini ai propri fini (10).
Ma
è soprattutto la tragedia che conferisce al personaggio connotazioni fortemente
negative, trasformandolo in una figura maligna e sinistra. Anche se le tragedie
di Eschilo dedicate a lui non sono pervenute, già la scelta degli episodi e gli
scarsi frammenti sono abbastanza significativi (11). Nell’Aiace di
Sofocle Odisseo subisce un’evoluzione, una maturazione nel corso della tragedia:
il vedere il proprio nemico, Aiace, prima colpito dagli dei in quella che per
lui è la massima qualità umana, l’intelligenza (Aiace infatti impazzisce), poi
suicida per il disonore, fa crescere anche Odisseo, che si rende conto della
precarietà dell’uomo in tutti i suoi aspetti: donde il rispetto per il cadavere
di Aiace e la proposta di seppellirlo; ma la maturazione presuppone uno stato
iniziale differente: e il giudizio che il Coro dà di lui, la diffidenza con
cui ascolta le sue parole fin quasi alla fine, fino a persuadersi della sua
buona fede, sono chiari segni dell’immagine che ormai il personaggio aveva
assunto (12). Nel più tardo Filottete non c’é più alcun ripensamento:
Odisseo è costantemente un consigliere d’inganni, che tenta di rendere simile a
sé il giovane e generoso Neottolemo. Sapienza e pazienza-coraggio sono
rivisitati: solo la menzogna permette di acquisire fama rispetto alla prima
qualità; la seconda consiste nel rinunciare ai propri ideali
(13).
Nelle molte tragedie, intere o frammentarie, di Euripide in cui compare Odisseo, il personaggio è ormai nettamente delineato: appellativi che rovesciano volutamente quelli omerici, costante atteggiamento d’istigazione all’inganno e alla crudeltà; i consigli di pazienza sono, ironicamente, rivolti ai vinti. Molti critici hanno voluto vedere nell’Odisseo euripideo un riferimento a personaggi contemporanei, ad esempio ad Alcibiade nel frammentario Palamede: e questo è possibile. Ma più al fondo c’é il dubbio del poeta sulla sophìa (“c’è una sapienza che non è sapienza” afferma nelle Baccanti, v. 395), il disgusto per la vita politica della polis divenuta sofisma e demagogia, un’ansia di conoscere la verità disillusa dall’incomprensibilità del reale (15).
Odisseo diviene così, per i poeti greci, un segno di contraddizione: valori saldamente positivi in Omero, in cui parole come métis (“intelligenza”) esprimono concetti univoci, termini come délos (“inganno”) non hanno in sé alcun giudizio negativo, i derivati dalla radice tla- nelle accezioni di “pazienza” e di “ardire” sono senza sfumature di eccesso, s’incrinano: il rischio della hybris, l’assenza del senso del limite, s’accentua nel pensiero e nell’azione dell’uomo. Non è Odisseo a modificarsi: sono le sue caratteristiche originarie, e sono anche la politica, la guerra, la filosofia a rivelarsi, all’uomo del VI e soprattutto del V secolo, una realtà precaria e intrisa di male (16).
Com’altrui piacque
Dante ignorava la letteratura greca, e non ebbe quindi la possibilità di attingere direttamente la complessa evoluzione-involuzione del personaggio che siamo andati delineando. E’ probabile che non conoscesse neanche le tarde opere attribuite a Ditti e a Dares, rielaborazioni in chiave antiomerica del mito troiano e fonti del ciclo troiano medioevale (17). Conobbe la figura di Ulisse e se ne formò un giudizio attraverso la mediazione degli autori latini, a loro volta ispirati chi a Omero chi ai poeti greci successivi: e se Cicerone, o Orazio, o Seneca accennano a Ulisse come modello di pazienza, temperanza e desiderio di conoscenza, Virgilio nell’Eneide dà un’immagine composita, fortemente negativa nel contesto della caduta di Troia (con riferimenti significativi ad episodi quali il processo di Palamede o il furto del Palladio, oltre naturalmente al cavallo di legno) o nell’accenno pieno d’avversione e timore all’isola d'Itaca; sfumata in compassione per l'esilio e di ammirazione per le imprese nelle parole dell’ex-compagno Achemenide; e Stazio, nell’Achilleide, ci presenta un Ulisse operatore d'inganni insieme con Diomede, ma pur sempre a vantaggio della spedizione greca, cui viene reso Achille. Nel complesso la mentalità pratica, tendenzialmente pragmatica, romana rivaluta Ulisse: non a caso le parole più dure contro di lui sono messe da Virgilio in bocca al traditore Sinone, o da Ovidio in bocca al rivale Aiace, in quell’esercitazione retorica che è il dibattito fra Ulisse ed Aiace per il possesso delle armi d'Achille nelle Metamorfosi. In Ulisse la concreta morale romana, di stampo vuoi epicureo, vuoi stoico, vuoi accademico ma in chiave latina, trova, o sottolinea, qualità a lei vicine, vale a dire, come si accennava prima, la resistenza alla fatica, alla sventura e alle passioni, ed anche l’aver visto e conosciuto città e costumi di uomini; la durezza del guerriero, l’uso e l’abuso dell’astuzia, sembrano notazioni marginali, ormai d'obbligo ma secondarie; piuttosto traspare la simpatia per l'esule, visibile, oltre che nel passo virgiliano, in molti accenni nelle opere di Ovidio dall’esilio (18).
Dante ripercorre, illuminato dall’esperienza di fede, il cammino che la cultura greca aveva percorso “a tentoni”, secondo le parole di S. Paolo all’Areopago. La precarietà della ragione e dell’agire, il pericolo insito nelle più alte manifestazioni umane ‒ l’amore come l’impegno politico, la fedeltà al proprio signore come la scienza ‒ quando divengono criterio assoluto e totalizzante, stanno al fondo della concezione del poema, come vita vissuta, sofferta e giudicata. Eppure ragione e agire, amore e impegno, fedeltà e desiderio di conoscenza sono doni e dignità grandissimi, se liberamente inseriti in un disegno salvifico. L’Ulisse di Dante nasce così, in una visione sintetica che supera ogni antica e moderna contraddizione, recupera tutto il positivo di una tradizione millenaria, pone in giusta luce e motiva il negativo e l’errore, elimina ogni anacronismo scegliendo come segno del limite un divieto già pagano: “acciò che l’uom più oltre non si metta”. Non c’è contrasto fra il consigliere di frodi e l’uomo che considera suprema caratteristica dell’umanità il “seguir virtute e canoscenza”. L’intelligenza in tutte le sue accezioni e le sue valenze è posta da lui come il massimo valore, a cui tutto è sottomesso, la lealtà verso nemici e amici come il rispetto degli dei, gli affetti e i doveri familiari come i confini da non varcare (21). Il Dante politico e uomo di corte, il Dante filosofo e ansioso del vero resta turbato:
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a cio ch’io vidi, e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, perché non corra che virtù nol guidi... (vv. 19-22).
La scoperta del vero, il superamento del limite, la realizzazione della suprema conoscenza, folle sogno di Ulisse che tutto gli ha sacrificato e tutto vi ha perduto, riusciranno a Dante: ma non da solo, né in “compagna picciola”. Al Purgatorio, da cui, “com’altrui piacque”, era nato il turbine che aveva fermato Ulisse, segno dell’inconoscibilità all’uomo del mistero eterno, Dante giungerà per un piano di salvezza: e come primo gesto gli sarà chiesto di cingersi con una corona di sottomissione. Dante compie il gesto “com’altrui piacque”, ubbidendo all’inconoscibile che sceglie di rendersi conosciuto (22). Si diceva prima che Dante ha ripercorso il cammino degli antichi greci. La meditazione che egli opera sulla ragione e sull’agire dell’uomo è simile in modo impressionante alla meditazione antica, ma la speranza, la certezza che anima il poeta cristiano agli antichi non è stata data. Ulisse non aveva la possibilità di giungere dove Dante giunge: salvezza e saggezza (connesse per il greco, in cui sophron, “saggio”, significa “che ha salva la mente”) erano per lui il frenarsi, il fermarsi: del resto anche Virgilio, il dantesco simbolo della ragione, non accompagna Dante per tutto il viaggio e, in vita, è riuscito solamente a illuminare chi veniva dopo di lui, ma non ha conosciuto la via che la Rivelazione ha aperto (23). Come e diversamente da Virgilio, Ulisse evoca la condizione dell’uomo precristiano, la cui massima saggezza era l’accettazione del limite, la cui massima colpa era il negarlo. Ma così Dante ci dà un personaggio costruito su fonti antiche ‒ ambigue e non originali ‒, ripensato nella problematica fondamentale, ma anche diverso e nuovo. L’Ulisse omerico ha resistito alle sirene, è tornato in patria, conosceva se stesso: quello dantesco, consigliere d’inganni come nei poeti postomerici, è anche l’uomo teso alla suprema realizzazione di sé e per ciò stesso violatore dell’antica saggezza. Alla sintesi dell’antico si aggiunge una meditazione sull’uomo di sempre, e in particolare su se stesso e sull’inquieta epoca che si apre davanti a lui.
Sei secoli dopo la creazione dantesca, presso il lager nazista di Buna Monowitz, vicino ad Auschwitz, si svolge una straordinaria lezione d’italiano, che usa come strumento didattico il Canto d’Ulisse (24). Primo Levi, Häftling il cui nome è un numero, testimone e partecipe di una grandiosa opera di annientamento morale e fisico di chi una volta era un uomo, si trova, in una sorta di breve pausa, ad insegnare la propria lingua ad un deportato francese: e sceglie come testo i frammentari ricordi scolastici del passo dantesco. Rivissuta nel lager, la vicenda di Ulisse acquista significati nuovi: il divieto e il folle desiderio di superarlo sono esperienze tragicamente concrete, il “mare aperto” e la “montagna, bruna per la distanza” evocano ricordi lontani; ma la terzina della dignità dell’uomo è “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”. E soprattutto il maestro-Häftling si ferma sconvolto sul “com’altrui piacque”, cercando disperatamente “prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più” di far capire all’altro “qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...”. La dignità dell’uomo e il mistero di Dio e della Sua volontà penetrano per questa via inconsueta, attraverso il pagano Ulisse, il cristiano Dante, l’ebreo Levi, fra gli ingranaggi di una macchina assurda e disumana.
Il consigliere
La sintesi dantesca non si ripete. Gli autori che nella letteratura occidentale reinterpretano la figura di Ulisse ormai conosciuta negli originali greci o in traduzione colgono di questo complesso personaggio solo un aspetto: il consigliere, a volte negativo e sinistro, a volte saggio e costruttivo; l’esule roso dalla nostalgia; l’uomo dall’inesausto desiderio di conoscenza. Un libero tentativo di sintesi nuova lo troviamo solo nella creazione joyciana di Leopold Bloom, in cui però i motivi omerici sono intrecciati a motivi ebraici e irlandesi, Ulisse a Parnell, e i puntuali riferimenti agli episodi dell’Odissea (peraltro soppressi dall’autore nell’edizione definitiva) coesistono con la lettura delle vicende di Bloom come momenti del rituale ebraico. La saggezza borghese di Bloom, il suo desiderio di novità, i sogni d’impossibile evasione, i consigli dati all’inquieto Dedalus-Telemaco in cui rivive il figlioletto morto undicenne, sono compresenti nel “viaggio” di una giornata all’interno di Dublino: e alla fine Leopold-Ulisse rincasa, supera il desiderio di ripartire e sparire, supera bonariamente l’idea di vendicarsi della moglie infedele e si ferma; è Telemaco invece ad andarsene.
Le
altre riletture del mito di Ulisse ‒ nella sua veste più tradizionale
‒ sono, come si diceva, ad una dimensione.
Dell’Ulisse consigliere scegliamo un solo esempio (25), certamente il più
significativo e approfondito: il personaggio creato da Shakespeare in
Troilo
e Cressida.
Il ritorno in patria
Il tema dell’esilio e della nostalgia, pur così importante nell’Odissea, cosi affettuosamente sentito anche dai latini, come si è visto, non ebbe invece grande sviluppo nella tradizione successiva. Fra i non molti autori che colsero del personaggio soprattutto quest’aspetto ne scegliamo due, Foscolo e Pavese (27). In realtà Foscolo allude due volte, come si sa, ad Ulisse: e il riferimento dei Sepolcri riprende la visione negativa della figura mitica. Se Aiace, suicida perché soccombente nella contesa per le armi di Achille, è un “generoso”, Ulisse ha vinto per il “senno astuto” e il “favor di regi” (v. 222), ingiustamente e, forse, con l’inganno. Le armi assegnate a chi meno le meritava sono tolte dagli dei alla “poppa raminga” (v. 224) e portate dal mare sulla tomba di Aiace. “Poppa raminga”: questa definizione della nave d’Ulisse è l’unico nesso che leghi l’“Itaco” dei Sepolcri all’Ulisse di A Zacinto. L’antica contraddizione si perpetua nel Foscolo, che utilizza il mito come segno, né gli chiede un’assoluta coerenza. Nel carme la figura centrale del passo in questione è Aiace, il generoso cui la morte è stata giusta dispensiera di gloria: nel sonetto la figura centrale è il poeta stesso, esule in modo definitivo dalla sua terra, dalla sua isola: e Ulisse diviene per lui un segno, l’esule nato come lui in un’isola ionia, come lui costretto a vagare e soffrire, ma uscito “bello” dalla sofferenza, ma tornato a baciare la sua terra, mentre Foscolo non tornerà.
Il viaggio
L’ansia di conoscenza dell’Ulisse dantesco segna profondamente la letteratura successiva: certamente l’immagine del personaggio che prevale nella tradizione occidentale, non solo letteraria ma anche popolare, è quella del viaggiatore avventuroso, curioso, avido di esperienze e ribelle al riposo o ai divieti: un personaggio variegato e sfumato, a volte parente di Gulliver, a volte degli esploratori o dei corsari, a volte di Sinbad o dell’Ebreo errante. Al di là delle varietà una vicenda accomuna tutti questi Ulissi: la nuova e definitiva partenza dopo il ritorno ad Itaca (la variante dantesca per cui il ritorno addirittura non avviene è dopo di lui abbandonata). E’ curioso come l’atteggiamento che da Ulisse prende nome, l’ulissismo, sia estraneo al personaggio mitico nella sua gestazione antica. La navigazione-simbolo degli antichi, la spedizione che ha infranto un tabu, non è quella di Ulisse: su un piano mitico è quella degli Argonauti, la prima in assoluto nella cronologia antica (e se ne ricorderà il Monti nell’ode Al Signor di Montgolfier), su un piano storico è quella di Serse, che ha violato i limiti imposti ai Persiani e le leggi della natura, o quella di Alessandro, che è giunto ai confini del mondo conosciuto e ha preteso onori divini. Il viaggio di Ulisse, che pure arriva al misterioso paese dei Cimmerii dove si apre l’Aldilà, come il viaggio di Enea, che pure penetra negli Inferi, sono sì avvertiti dagli antichi come straordinari, ma senza alcuna caratteristica di eccesso, o di ansia di novità. L’ulissismo non è una nozione antica, né dalla maggioranza degli autori classici sarebbe accolto in modo positivo.
Soprattutto l’Ottocento e il Novecento hanno scelto questa immagine del personaggio. Si tratta del resto di una tematica continuamente presente nella cultura a noi più vicina nel tempo, anche quando il riferimento esplicito ad Ulisse manca; l’idea di una meta perseguita, di una sfida, di un’ansia di procedere e di conquistare permea molta parte della letteratura dell’occidente: basti pensare a Melville, o ad Hemingway, o a Buzzati. Come primo esempio scegliamo l’Ulysses di Tennyson. E’ il monologo del vecchio re, ormai da anni rientrato in patria e reinserito nel suo compito di legislatore, ma che si sente profondamente estraneo e al compito e al suo popolo. Egli che molto ha visto e conosciuto, che è divenuto un nome, che è parte di tutto ciò che ha incontrato, è tuttavia uno sconosciuto per i suoi; a loro rimarrà Telemaco, che più del padre è adatto a regnare; ad Ulisse si apre il mondo non ancora esplorato, “il cui confine si dilegua sempre e sempre quando io avanzo” (vv. 20-21). L’appello che rivolge ai compagni è per certi versi simile all’ “orazion picciola” dantesca: ma anche se una direzione è prevista ‒ l’occidente ‒, anche se una meta ‒ e quale meta! le isole dei morti ‒ è ipotizzata, pure né la direzione né la meta né la stessa conoscenza di un mondo nuovo sembrano l’essenziale, lo scopo ultimo del viaggio. Lo scopo è non fermarsi, non arrugginire come una spada nel fodero, esercitare la volontà sfidando il tempo e la vecchiaia come una volta a Troia si sfidavano perfino gli dei, sfruttare la vita fino all’estremo istante della morte, dovunque e comunque essa venga.
Più esplicito, in altri poeti del Novecento, è il riferimento soggettivo, il confronto o l’identificazione fra il mito e l’io. D’Annunzio immagina, nel primo libro delle Laudi, un incontro con Ulisse, che naviga nello Ionio: ma il protagonista è l’io narrante, che intuisce nel personaggio mitico uno simile a sé e gli chiede di metterlo alla prova e, se lo riconosce suo pari, di prenderlo seco, altrimenti di ucciderlo; Ulisse, che aveva mostrato la propria superiorità non degnando di uno sguardo i nuovi venuti, a questa profferta volge gli occhi, pur senza rispondere, a “quel giovane orgoglio chiarosonante nel vento”: un orgoglio vicino al suo (30). E Saba intitola Ulisse una breve lirica in cui l’identificazione col personaggio è compiutamente avvenuta: come da giovane egli aveva navigato lungo le coste dalmate, così ora, rifiutando il porto, lo spinge ancora al largo “il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore”: il viaggio reale della giovinezza diviene l’impegno costantemente aperto dell’età matura. Il titolo è evocativo di un retroterra culturale che dà spessore all’autobiografia: e l’Ulisse prescelto è ancora, come per gli autori precedentemente citati, quello dantesco, ma, come in quasi tutti, spogliato di un giudizio trascendente (31).
Note 1) Indichiamo in particolare due testi, rimandando ad essi per un’ulteriore bibliografia: E. Wust, RE XVII, Stuttgart 1937, 1905 segg. (cfr. anche Suppl. VII, 696 segg., a cura di P.v.d. Muhll) s.v. Odysseus; W.B. Stanford, The Ulysses Theme. A Study in the Adaptability of a Traditional Hero, Oxford 1954. Due precisazioni generali: i passi riportati in traduzione sono tradotti dall’autrice. La variazione della forma di nomi propri - Odisseo/Ulisse, Vergilio/Virgilio, Calipso/Calypso - è legata all’uso dell’autore di cui si sta trattando. 2) Al primo gruppo appartengono, ad esempio, polýmetis, polyméchanos, poikilométes, kérdea eidós, dólon átos; al secondo, polýtlas, talasíron, telémon, al terzo douríklytos, ptolíporthos, kraterós. L’appellativo di Od. 1,1 polýtropos può porsi nel primo o nel secondo gruppo, a seconda che s’intenda “dal multiforme ingegno” o “dalle molte traversie”. 3) Si veda 1,430 segg.; 2,166 segg.; 3,203 segg.; 4,338 segg.; 5,519 segg.; 10,227 segg.; 11,310 segg.; 14, 29 segg.; e le due ambascerie ad Achille nei libri 9 e 19. 4) Si veda 3,121 segg.; 4,242 segg.; 5,12 segg.; 11,202 segg.; 14,137 segg. Inoltre l’incontro coi Feaci nei libri 6 e 7 e, in particolare, 6,180 segg. 5) 9,172 segg.; 10,185 segg.; 12,191 segg. 6) 5,171 segg.; 5,356 segg.; 13,256 segg. Vedi anche la riluttanza a svelarsi sia presso i Feaci sia ad Itaca (non sempre con motivi comprensibili, come nel caso dell’incontro con Laerte). La parola eidòs ricorre in 9,281 e in 13,296. 7) Il passo citato è 20, 18 segg.; ma cfr. anche 10, 54. 8) Od. 11, 543 allude alla vittoria su Aiace nella contesa per le armi di Achille: comunque Odisseo si rammarica di aver vinto, rivedendo l’ombra sdegnosa del rivale. Od. 24, 115 segg. allude alla riluttanza di Odisseo a partecipare alla guerra e al suo stratagemma per sottrarvisi. 9) I frammenti del Ciclo sono riportati, insieme col riassunto di Proclo, nell'edizione omerica di T.W. Allen, Oxford 1946, vol. V. In particolare si vedano i fr. 2, 9, 21, 26. 10) N. 8, 26; fr. 275 Bowra; N. 7, 20. Cfr. Ol. 1,30 segg.; fr. 42 Bowra. 11) In particolare il Palamede, il Filottete, l'Armorum iudicium. Per i frammenti si veda l'edizione del Nauck, Leipzig 1926 (anche per Euripide). 12) Per la maturazione del personaggio v. in particolare i vv. 121 segg. Per i giudizi su di lui i vv. 1 segg.; 379 segg.; 955 segg. 13) Vedi in particolare i vv. 82 e 119 segg. 14) L’Aiace è collocabile fra il 450 e il 442; l’Antigone nel 442-441; l’Edipo Re probabilmente fra il 433 e il 410; il Filottete nel 409; l’Edipo a Colono fu rappresentato postumo nel 401. Ricordiamo che fra il 431 e il 404 si svolse la tragica guerra del Peloponneso. 15) Le tragedie euripidee in cui appare Odisseo, o se ne parla, sono l’Ecuba, le Troiane (in trilogia col frammentario Palamede), l’Ifigenia in Tauride, l’Ifigenia in Aulide e il frammentario Filottete. Solo nel dramma sariresco Il Ciclope, che riprende l’episodio dcll’Odissea, l’imitazione omerica si estende alla raffigurazione del personaggio. 16) In età ellenistica e grecoromana il mito viene più volte ripreso, anche se la fase creativa è sostanzialmente finita. Tralasciamo di approfondire questa fase, anche perché in genere non molto rilevante. 17) Nel IV sec. d.C. vennero tradotte o ridotte in latino due opere greche perdute, l’Ephemeris belli Troiani, attribuita a Ditti cretese, eroe della guerra medesima, e il De excidio Troiae, attribuita a Dares frigio, pure eroe della guerra ma di parte troiana (in realtà le due opere risalivano a un paio i secoli prima). Fra i poemi medioevali il più famoso è il Roman de Troie di Benoit de Sainte Maure (XII sec.). 18) Si veda Cic. De fin. 5,18,49; De Or. 1,44,196. Hor. Epod. 17,16; Ep. 1, 2, 17 segg.; Ep. 1,7,40. Verg. Aen. 2 passim; 3,271 seg.; 3,613 segg. Ov. Met. 13, 1 segg.; Ep. 1, 3, 33-34; 4,10,9 segg.; Trist. 1,2,9; 1,5,57 segg.; Sen. De const. sap. 2, 1; Ep. 31, 2; 56, 31; 123, 12. Uisse è personaggio anche della tragedia Troiane di Seneca, derivata dall'omonima tragedia euripidea: una lettura attenta ce lo mostra in luce meno negativa che nel modello. Sarebbe interessante esaminare anche la tragedia latina arcaica: molte coturnate di Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio e Accio riprendono opere greche ispirate a episodi del mito di Ulisse. Sovente i frammenti non sono significativi: ma quando lo sono, l'immagine del personaggio conserva l’ambiguità antica, con una certa prevalenza di elementi positivi. 19) Ov. Met. 14, 154 segg. 20) Od. 11, 100 segg.; in particolare 134 segg. 21) Inf. 26, 59 segg.; 93 segg.; 109. 22) Cfr. Inf. 26, 141 con Purg. 1, 133. 23) Purg. 22, 67 segg. 24) P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi 1964, pagg. 138 segg. 25) Altri esempi in Racine (Iphigénie), Metastasio (Achille in Sciro), Fénelon (Les aventures de Télemaque), Giraudoux (La guerre de Troie n’aura pas lieu). 26) L’episodio con Troilo è nell’atto V, scena II. Degli altri passi, citiamo il discorso sul buon governo (Atto I, scena I). L’interpretazione del rapporto Ulisse-Troilo in Stanford, op.cit., pag. 169 segg. 27) Possiamo citare anche i due drammi di Calderón de la Barca, El mayor encanto amor e Los encantos de la culpa: entrambi riguardano l’episodio di Circe, abbandonata da Ulisse per tornare in patria. Il secondo, rifacimento del primo, l’interpreta in chiave allegorica, riprendendo una linea interpretativa del mito già antica, sia pagana sia del cristianesimo primitivo. 28) C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi 1968, pagg. 113 segg. e 125 segg. 29) Le poesie di Pascoli citate fanno parte delle raccolte: Myricae (La felicità); Primi poemetti (Il libro, La felicità); Odi e Inni (La piccozza); Poemi conviviali (L’ultimo viaggio ma anche Anticlo e Il sonno di Odisseo, in cui pure compare il personaggio; Alexandros). 30) Maia, Laus vitae, 4, 21 segg. Sempre nell’ampio poema che occupa quasi tutto il primo libro delle Laudi D’Annunzio usa il termine “Ulisside” per designare due suoi amici che avevano dell’eroe l’ansia di conoscenza, contrapposti al “savio Ulisside”, cioè il pigro Telemaco senza ambizioni (cfr. 15, 301 segg. con 4, 190 segg.). A Ulisse, contrapposto per la sua audacia e la sua fortezza (nel mare e nella vendetta) alla debolezza passiva del cristianesimo, è dedicato anche il primo componimento della raccolta, Alle Pleiadi e i Fati: accenniamo, solo di passaggio, che il tema della vendetta è stato ripreso anche da altri autori. 31) U. Saba, Ulisse, in Il Canzoniere, Einaudi 1948.
Le immagini: 1. Gigantesca immagine di Odisseo che acceca Polifemo rinvenuta in una caverna di Sperlonga (LT). - 2. Circe offre la coppa a Odisseo (1891, Oldham Art Gallery, Oldham, U.K.) di J. W. Waterhouse, 1849-1917 - 3. A. Canova, Palamede (Como, Villa Carlotta). - 4. Dante e Virgilio incontrano nell'Inferno Ulisse e Diomede (miniatura del XIV sec.) - 5. V. W. Bromley, Troilus and Cressida (edizione delle opere di Shakespeare, Londra 1873-76) - 6. A. Böcklin, Odisseo e Calipso (1883, Museo d'arte di Basilea). - 7. Il folle volo.
|
<
Per tornare alla home |
Per contattare la Redazione |