"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Edipo e il Giovane Voltaire
di Giulia Regoliosi Morani
(da Zetesis, n. 1-2002)
In un precedente numero della rivista [1] avevamo preso in esame due Edipi composti e rappresentati a breve distanza l’uno dall’altro da due drammaturghi secenteschi, Corneille (1659) e Tesauro (1661). La questione che ci ponevamo era principalmente quella della scelta di un tema mitico legato inscindibilmente all’inevitabilità del destino, vale a dire ad una predeterminazione che sembrava urtare contro le ferme posizioni a sostegno del libero arbitrio di entrambi gli autori. Nel corso del precedente contributo, alle cui conclusioni rimandiamo, avevamo accennato a due spunti che potevano essere approfonditi: l’interesse politico per il mito di Edipo che determina fra il ’500 e il ’700 un’ampia ripresa teatrale e l’attenzione di Voltaire per il teatro corneilliano e in particolare per il monologo di Teseo sul libero arbitrio nell’Oedipe. Ci è sembrato pertanto che valesse la pena prendere in considerazione l’Edipo dello stesso Voltaire, un testo di cui non risulta reperibile una traduzione italiana e che quindi presentiamo in una nostra traduzione “di servizio” pensando di far cosa utile ai lettori.
Allievo dei gesuiti al collegio Louis-le-Grand, il giovane François-Marie Arouet [2] vi studia i classici e comincia a mettere alla prova le sue capacità di scrittore. Inizia la composizione dell’Oedipe a diciotto anni, ma l’opera, la sua prima tragedia, viene rappresentata alla Comédie Française solo nel 1718, quando l’autore, ventiquattrenne, è ormai fuori di tutela ed è passato attraverso esperienze e disavventure dovute al suo spirito satirico - prima l’esilio a Sully-sur-Loire, poi la Bastiglia. La rappresentazione fece conoscere il giovane drammaturgo presso il vasto pubblico, oltre che presso il mondo della cultura. Furono soprattutto i suoi aspetti polemici a renderla famosa: sembra che il pubblico abbia apprezzato particolarmente la battuta anticlericale “Nos prêtres ne sont pas ce qu’un vain peuple pense. / Notre credulité fait toute leur science” (IV, 1); d’altro canto, scriverà Voltaire in una lettera a Rousseau del 30 agosto 1755, “une troupe de misérables acharnés” l’avrebbe perseguitato fin dalla rappresentazione dell’Oedipe, ponendolo fra i deisti, gli atei e perfino i giansenisti.
Non siamo in grado, data l’estrema precocità della tragedia, di individuare da testimonianze esterne all’opera, dello stesso autore o di altre fonti, i modelli e i criteri drammaturgici. Negli anni successivi Voltaire svilupperà non solo un’ampia attività teatrale, ma anche riflessioni sul teatro spagnolo, elisabettiano e francese del Grand Siècle che lo porteranno a giudizi più volte rivisitati e contraddetti [3]. Ma l’Oedipe viene prima di tutto questo, così come precede la riflessione filosofica dell’età matura: si fonda sui modelli classici, Sofocle, Seneca, e in ambito francese Corneille, l’immediato antecedente, e Racine, in seguito dichiaratamente prediletto per motivi classicistici ma in quest’opera non ancora modello di primo piano.
La struttura teatrale riprende dalla tradizione greco-romana il Coro, che il teatro francese aveva abolito. Tuttavia il Coro è introdotto fondamentalmente come una moltitudine di popolo che fa il suo ingresso in scena insieme al Gran Sacerdote provenendo dalle porte del tempio: l’archetipo è chiaramente il Prologo di Sofocle, in cui il Sacerdote che dialoga con Edipo è accompagnato da una folla di comparse mute. Non c’è, quindi, un ingresso corale specifico analogo alla Parodo greco-romana: né, del resto, vi sono intermezzi corali sul tipo degli stasimi, né in assoluto canti corali, ma solo interventi nel dialogo di due personaggi parlanti, chiamati rispettivamente Primo e Secondo Personaggio del Coro, che rappresentano la collettività pur intervenendo singolarmente. Secondo la tradizione del teatro secentesco, viene inserita nella tragedia una vicenda amorosa: anzi, la libertà creativa dei differenti autori spazia proprio in questo ambito, in cui sono ammesse le variazioni mitiche più stravaganti. Si ricorderà che sia Corneille sia Tesauro avevano ideato intrecci amorosi assai liberamente inseriti nell’impianto sofocleo-senecano: Corneille crea appositamente un personaggio femminile, Dirce, figlia di Giocasta e Laio e quindi inconsapevolmente sorella di Edipo che considera usurpatore del trono paterno; il suo amore è conteso fra Emone, il candidato prescelto dalla famiglia, e Teseo, il principe ateniese che la ama riamato e che soddisfa anche l’orgoglio di casta della giovane donna. Tesauro preferisce invece usufruire dei personaggi offerti dal mito ma, incongruamente, presenta la coppia Creonte-Antigone, assai poco credibile se non altro per motivi anagrafici. Voltaire segue una via più audace e, nel complesso, più interessante: il personaggio femminile della sua vicenda amorosa è la stessa Giocasta, che nell’adolescenza era stata legata a Filottete, prima che il re Laio la notasse e la costringesse, con la sua autorità assoluta e indiscutibile, a sposarlo. Alla vicenda è dedicata nella tragedia una parte assai ampia: anzitutto la lunga prima scena, che precede quella che corrisponde al Prologo sofocleo ed è quindi anche teatralmente un’innovazione: Filottete giunge a Tebe per organizzare onoranze funebri in onore di Ercole, il grande eroe suo amico appena morto; nel dialogo con Dimante, uno dei personaggi/confidenti tipici del teatro secentesco, ricorda l’antico amore per Giocasta, la partenza da Tebe insieme con Ercole per dimenticarla, l’amicizia virile ed eroica che l’ha fatto crescere; Dimante racconta a lui e al pubblico la peste, la morte di Laio, la Sfinge, la vittoria di Edipo: per un brevissimo momento Filottete s’illude che Giocasta sia tornata libera, ma è subito costretto ad accettare il nuovo matrimonio. Nella seconda scena del secondo atto si riproduce il dialogo al femminile: Giocasta ricorda alla confidente Egina l’affettuoso legame con Filottete e la drammatica rinuncia per le nozze forzate con Laio: il classico contrasto amore-dovere, che richiama molto da vicino quello corneilliano di Pauline sposa forzata di Polyeucte, assume in Voltaire un realismo storico e una concretezza fisica particolarmente efficaci:
Mon souverain m’aima, m’obtint malgré moi-même;
mon front chargé d’ennuis fut ceint du diadème;
il fallut oublier dans ses embrassements
et mes premiers amours, et mes premiers serments.
Tu sais qu’à mon devoir tout entière attachée,
j’etouffai de mes sens la révolte cachée...
“Il mio sovrano mi amò, mi ottenne contro me stessa; la mia fronte carica di dolore fu cinta della corona; ho dovuto dimenticare nei suoi abbracci i miei primi amori e i miei primi giuramenti. Sai che, legata interamente al dovere, ho soffocato la ribellione nascosta dei miei sensi...”
Anche in questo dialogo si fa naturalmente parola del secondo matrimonio: Egina si stupisce che Giocasta abbia potuto sopportare una nuova violenza coniugale e insinua l’impressione che Edipo non fosse del tutto sgradito alla sposa, nonostante il ricordo ancora vivo dell’amore per Filottete; abilmente Voltaire introduce sia il tema della virtù, anch’esso proprio della tradizione corneilliana, sia il tema, diremmo, dell’inconscio:
Je sentais pour Oedipe une amitié sévère:
Oedipe est vertueux, sa vertu m’était chère;
mon coeur avec plaisir le voyait élevé
au trône des thébains qu’il avait conservé.
Cependant sur ses pas aux autels entraînée,
Égine, je sentis dans mon âme étonnèe
des transports inconnus que je ne conçus pas;
avec horreur enfin je me vis dans ses bras.
“Sentivo per Edipo un affetto severo: Edipo è virtuoso, la sua virtù mi era cara; il mio cuore lo vedeva con piacere innalzato al trono dei Tebani che aveva salvato. Tuttavia, condotta agli altari dietro di lui, Egina, sentii nella mia anima stupefatta dei palpiti sconosciuti che non compresi; infine mi vidi con orrore fra le sue braccia.”
Il racconto si amplia con una visione infernale che appartiene alla tradizione dell’orrido risalente sia a Seneca sia ai modelli appena precedenti, senza riuscire, secondo il nostro gusto moderno, ad aggiungere nulla all’accenno inquietante già efficace in sé.
Come nelle tragedie analizzate in precedenza, l’inserto amoroso ha un risvolto politico-strutturale, introducendo possibili alternative alla colpevolezza di Edipo: mentre Sofocle si limita a far sospettare Creonte in connivenza con Tiresia, attraverso questi intrighi amorosi emergono altri rivali, altri potenziali assassini. Voltaire giunge ad un’accusa ufficiale di Filottete, pretesa dal popolo e accolta, seppure con perplessità e con ampie promesse di giustizia, da Edipo. Poiché solo i due confidenti, Dimante ed Egina, sanno degli amori giovanili di Filottete e Giocasta, l’accusa a furor di popolo è poco credibile: viene giustificata nella prima scena del secondo atto dal cortigiano Araspe che ricorda l’evidente odio di Filottete per Laio, anche se il motivo gli è ignoto; e nella prima scena del terzo atto da Giocasta che dichiara l’impossibilità per i sovrani di tener celato alcun sentimento:
Que dis-tu? Crois-tu qu’une princesse
puisse jamais cacher sa haine ou sa tendresse?
Des courtisans sur nous les inquiets regards
avec avidité tombent de toutes parts...
“Che dici? Credi che una principessa possa mai nascondere l’odio o l’affetto? Da tutte le parti cadono su di noi con avidità gli sguardi inquieti dei cortigiani...”.
Nel momento in cui l’intreccio si aggancia più fedelmente al modello sofocleo, con la rivelazione a malincuore del Gran Sacerdote (che nella versione di Voltaire, oltre a rivelare direttamente gli oracoli senza la mediazione di Creonte, svolge anche il ruolo di Tiresia: atto III, scena quarta), la presenza di Filottete diviene sostanzialmente superflua: da rivale in amore e vittima di ingiusti sospetti passa a leale sostenitore, fino a sparire completamente dalla storia e dalla scena. Un unico spunto interessante s’incontra quando Edipo, avendo saputo di essere l’assassino di Laio, decide di andare in esilio lasciando il trono e con questo anche il suo status di marito della regina: l’erede che autorevolmente designa è Filottete e si potrebbe immaginare, dato il virtuale divorzio conclamato, che si aprano per gli antichi innamorati delle speranze inattese (Atto V, scena prima). Tuttavia nessun accenno da parte di alcun personaggio (Dimante ad esempio, che è presente) sottolinea questa possibilità, lasciandola forse solo intuire al pubblico; del resto anche il suicidio finale di Giocasta non comprende nessun riferimento a Filottete, tenacemente e drammaticamente amato ma sostanzialmente estraneo all’impianto tragico.
È curioso come Voltaire preferisca, seguendo pure in questo Corneille, dividere in due momenti la rivelazione, separandoli anche con l’intervallo fra quarto e quinto atto: si presume che sia considerata di maggior effetto sul pubblico una climax di orrori rispetto ad una scoperta globale. Così Forbante, il servo che conosce sia l’identità dell’assassino sia la sopravvivenza del piccolo esposto (si noti che in ogni versione si è mantenuta la coincidenza dei due ruoli, del tutto incongrua già in Sofocle ma per lo meno giustificata dalla necessità di concentrare lo scioglimento), interviene qui due volte: una prima quando viene richiamato dalla prigione in cui era stato rinchiuso come sospetto dell’assassinio (non un autoesilio volontario, quindi) e costretto a riconoscere in Edipo l’uccisore di Laio, una seconda quando capita casualmente (Edipo l’ha fatto richiamare per dargli dei doni, ma è poco credibile che possa arrivare fino al re mentre questi riceve ufficialmente l’ospite di Corinto) e deve raccontare la storia del piccolo figlio di Laio e Giocasta. Nonostante l’ampia serie di grida di esecrazione ed orrore, si ha l’impressione che Edipo abbia fatto a tempo ad abituarsi all’idea di essere l’omicida e di dover quindi lasciare Tebe e i suoi, prima di ricevere il nuovo colpo. Ben più efficace Sofocle, che giunge a far comprendere l’incesto e sottintende che anche il parricidio è stato inevitabilmente compiuto: Edipo cioè (e prima di lui Giocasta) capisce di essere il marito della madre, e quindi l’uccisore del padre, e quindi l’assassino a lungo cercato. In un punto sta tutta la verità, con un’efficacia d’impatto assai superiore.
Si è accennato all’incongruità del doppio ruolo di Forbante. Per il corinzio Icaro la questione è invece diversa, perché non giunge a Tebe come ambasciatore bensì come fuggiasco in cerca di protezione, e la notizia della morte di Polibo si accompagna con quella della persecuzione subìta in quanto complice nell’adozione del bambino. Per entrambi Voltaire, abituato alla solennità della Corte, sembra trovare indegno il mestiere di pastore: consiglieri dei sovrani di Tebe e Corinto non è possibile che pascolino le pecore. Così resta però inspiegato l’incontro sul Citerone: se Forbante vi era andato perché lo riteneva un luogo abbastanza selvaggio per abbandonarvi il bambino, un luogo comunque vicino a Tebe, il corinzio Icaro passava semplicemente di lì (Quelque dieu bienfaisant guida vers vous mes pas “Un dio benevolo guidò i miei passi verso di voi”: frase che potrebbe essere concettualmente significativa, ma resta in realtà un po’ troppo nel vago); anche la decisione di Forbante di affidargli il bambino violando l’ordine di ucciderlo rimane poco chiara, senza una preventiva conoscenza e fiducia fra i due.
Appunto alla Corte regale sono dedicati moltissimi riferimenti dell’opera che, come si accennava all’inizio, appartiene ad una serie di Edipi legati almeno in parte alla riflessione politica, serie che ha il suo archetipo nella tragedia senecana. Nel corso della sua vita la posizione di Voltaire nei confronti del regime monarchico avrà parecchie vicissitudini: in questa opera giovanile i vari spunti, quando non derivano da modelli, sono abbastanza significativi. Il personaggio di Edipo è un re non solo sollecito del bene dei suoi sudditi, paterno e pronto a sacrificarsi, ma anche modesto e desideroso di aiuto per restare nel giusto, fino ad essere forse troppo prudente e incerto nel decidere: Mais un roi n’est qu’un homme en ce commun danger, / e tout ce qu’il peut faire est de le partager “Ma un re non è che un uomo nel pericolo comune e tutto ciò che può fare è condividerlo” (I, 3); ... conduisant un roi facile à se tromper, / ils marqueront la place où mon bras doit frapper “... guidando un re facile a sbagliarsi, (gli dèi) segneranno il punto in cui il mio braccio deve colpire” (ibid.) ; être utile aux mortels, et sauver cet empire, / voilà, seigneur, voilà l’honneur seul où j’aspire...mourir pour son pays, c’est le devoir d’un roi; c’est un honneur trop grand pour le céder à d’autres “Essere utile ai mortali e salvare questo regno, ecco, signore, ecco il solo onore a cui aspiro...morire per il proprio paese è il dovere di un re; è un onore troppo grande per cederlo ad altri (II, 4); Nécessité cruelle attachée à l’empire! / Dans le coeur des humains les rois ne peuvent lire; / souvent sur l’innocence ils font tomber leurs coups, / et nous sommes, Araspe, injustes malgré nous. “Necessità crudele legata al regno! I re non possono leggere nei cuori degli uomini; spesso facciamo cadere i colpi sull’innocente, e siamo, Araspe, ingiusti senza volerlo” (II, 5); Moi qui ne juge point ainsi que le vulgaire, / je voudrais que, perçant un nuage odieux, / déjà votre innocence éclatât à leurs yeux. / Mon esprit incertain, que rien n’a pu résoudre, / n’ose vous condamner, mais ne peut vous absoudre. “Io, che non giudico come la gente comune, vorrei che la vostra innocenza si rivelasse già ai loro occhi, trapassando una nuvola odiosa. Il mio spirito incerto, che nessuna cosa è riuscita a convincere, non osa condannarvi, ma non può assolvervi” (III, 3).
Giocasta, che pure è vittima del sopruso di Laio, ricorda positivamente le virtù del primo marito, e in particolare la semplicità e l’assenza di fasto:
Ce roi, plus grand que sa fortune,
dédaignait comme vous une pompe importune;
on ne voyait jamais marcher devant son char
d’un bataillon nombreux le fastueux rempart;
au milieu des sujets soumis à sa puissance,
comme il était sans crainte, il marchait sans défense;
par l’amour de son peuple il se croiyait gardé
“Quel re, più grande della sua fortuna, sdegnava come voi una noiosa pompa; non si vedeva mai marciare davanti al suo carro la fastosa difesa di un numeroso battaglione; in mezzo ai sudditi sottoposti al suo potere, poiché era senza paura, camminava senza protezione; si credeva custodito dall’amore del suo popolo” (IV, 1).
Pesante è invece il giudizio sulla Corte e sui sudditi: oltre al discorso di Giocasta sui pettegolezzi dei cortigiani ricordato in precedenza citiamo il rimprovero di Edipo al popolo tebano che non ha cercato subito l’assassino del suo re:
Tel est souvent le sort des plus justes des rois!
Tant qu’ils sont sur la terre on respecte leurs lois,
on porte jusqu’aux cieux leur justice suprême;
adorés de leur peuple, ils sont des dieux eux-même;
mais aprés leur trépas que sont-ils à vos yeux?
Vous éteignez l’encens que vous brûliez por eux;
et, comme à l’interêt l’ame humaine est liée,
la vertu qui n’est plus est bientôt oubliée.
“Tale è spesso la sorte dei re più giusti! Finché sono sulla terra si rispettano le loro leggi, si esalta fino al cielo la loro suprema giustizia; adorati dal popolo, sono essi stessi delle divinità; ma dopo la morte che cosa sono ai vostri occhi? Voi spegnete l’incenso che bruciavate per loro e poiché l’anima umana è legata all’interesse la virtù che più non esiste è presto dimenticata” (I, 4).
Si condanna la gelosia verso i favoriti dei re: Tout l’état en secret était son ennemi: / il était trop puissant pour n’etre point haï; / et du peuple et des grands la colère insensée / brûlait de le punir de sa faveur passée “Tutto lo stato gli era in segreto nemico: era troppo potente per non essere odiato; e la collera insensata del popolo e dei grandi ardeva dal desiderio di punirlo del passato favore” (ibid.). Filottete, nato principe ma vissuto alla ventura insieme con Ercole, ha un atteggiamento negativo verso il potere regale, che richiama personaggi senecani quali Ippolito e Tieste: Un roi pour ses sujets est un dieu qu’un révère; / pour Hercule et pour moi, c’est un homme ordinaire. / J’ai défendu des rois; et vous devez songer / que j’ai pu les combattre, ayant pu les venger. “Un re per i suoi sudditi è un dio da riverire; per Ercole e per me è un uomo comune. Ho difeso dei re; e dovete pensare che ho potuto combatterli se ho potuto vendicarli”; e più oltre: Le trône est un objet qui n’a pu me tenter:/ Hercule à ce haut rang dédaignait de monter. / Toujours libre avec lui, sans sujets et sans maître, / j’ai fait des souverains, et n’ai point voulu l’être. “Il trono è una meta che non mi ha mai tentato: Ercole sdegnava di salire a quell’alto rango. Sempre libero con lui, senza sudditi e senza padrone, ho creato sovrani, e non ho mai voluto esserlo” (II, 4). Le questioni dinastiche, che l’autore greco non abituato ai re affronta senza troppi problemi, diventano complesse per chi conosce gli intrighi di Corte: già Corneille, si è detto, aveva introdotto con Dirce problemi di successione legittima e complicazioni matrimoniali tipiche di una mentalità monarchica; Voltaire immagina che Polibo in punto di morte si penta della colpa commessa introducendo nel regno un figlio adottivo, accolto a suo tempo solo per dare stabilità al trono; l’erede designato dal re morente è il marito della figlia e Icaro, complice del falso e per questo perseguitato dal nuovo re, ne riconosce senza dubbi le legittime ragioni.
Resta da affrontare il problema di fondo, vale a dire l’interpretazione voltairiana del rapporto fra l’uomo e il suo destino: questione che sarà sempre fondamentale nel pensiero successivo dello scrittore, dominato dall’inconciliabilità di un Dio provvidente con la presenza del dolore e di conseguenza dal rifiuto di una visione ottimistica della storia. Il giovane allievo dei Gesuiti, che più tardi ricorderà l’entusiasmo suscitato dal discorso corneilliano sul libero arbitrio, non segue il suo predecessore sulla stessa via; e, seppure in un particolare contesto, fa dire ad Edipo una frase rivelatrice: Mais, seigneur, je n’ai pas la liberté de choix “Ma, signore, non ho libertà di scelta” (II, 4).
Fin dalla prima scena Dimante parla della triste vengeance degli dèi, dell’état horrible in cui hanno ridotto Tebe, prima con la sfinge, poi con la peste. Edipo li invoca con veemenza: Ces maîtres des humains sont-ils muets et sourds? “Questi padroni degli uomini sono sordi e muti?” e in seguito: Donnez, en commandant, le pouvoir d’obéir “Date insieme al comando la possibilità d’obbedire” (I, 3). Nell’elogio di Ercole più volte ripreso è implicita una equiparazione, se non una superiorità, dell’eroe rispetto agli dèi, come del resto rispetto ai sovrani. Tuttavia la giustizia degli dèi non è inizialmente in discussione: il Gran Sacerdote, rimproverando i lamenti disperati dei personaggi del Coro, afferma una sorta di pedagogia nell’onnipotenza divina: Fléchissons sous un dieu qui veut nous éprouver “Pieghiamoci sotto un dio che vuole metterci alla prova” (I, 2); Edipo, udito il responso dell’oracolo sulla punizione dell’assassino di Laio, ne riconosce la correttezza; il Primo Personaggio del Coro chiede a Giocasta di imitare la giustizia suprema degli dèi (I, 3).
È il cortigiano Araspe nella scena quinta del secondo atto che contrappone con forza la capacità umana di indagine e conoscenza alle arti divinatorie dei preti, che utilizzano strumenti formati dagli uomini per far parlare gli dèi a loro piacere:
Ne nous endormons point sur la foi de nos prêtres;
au pied du sanctuaire il est souvent des traîtres,
qui, nous asservissant sous un pouvoir sacré,
font parler les destins, les font taire à leur gré.
“Non addormentiamoci sulla fede dei preti; spesso ai piedi del santuario ci sono dei traditori, che, asservendoci sotto un potere sacro, fanno parlare e tacere i destini a loro piacimento”
Ma Edipo respinge queste insinuazioni, in nome di una fede negli dèi che si spinge fino alla piena fiducia nei loro ministri. Solo quando la tragedia si innesta più decisamente nell’alveo sofocleo, cioè dalla scena quarta del terzo atto in cui il Gran Sacerdote (qui sostituito a Tiresia, come già si è notato) è costretto a fare il nome di Edipo e poi, preso dall’ira, gli rinfaccia colpe assai peggiori, s’introducono le due linee opposte già presenti nel modelPierre Cartellier (1757–1831) and Louis-Marie Dupaty (1771–1825) after Chaudet's death.lo greco: la critica agli oracoli e ai loro interpreti ritenuti menzogneri e la critica agli dèi per il loro insensato agire. L’accusa agli oracoli è in Voltaire particolarmente insistita e, si è detto, venne sentita dal pubblico come polemica d’attualità contro il clero. Il primo a indignarsi è Filottete, presente alla rivelazione del Gran Sacerdote e del tutto leale verso Edipo: in due battute successive, come dimenticando il suo dichiarato distacco, quasi disprezzo, per la monarchia, fa una netta scelta di campo fra re e clero: i preti devono pregare per i re, non maledirli; i preti hanno un terribile potere presso il popolo ignorante che crede di obbedire agli dèi tradendo i suoi re. Quando Edipo e Giocasta restano soli, nella grande scena centrale in cui si rivelano reciprocamente le loro storie speculari, la donna ricorda con angoscia di essere stata costretta ad uccidere il suo bambino per un oracolo menzognero: voleva salvare il marito, che è stato ugualmente assassinato, e ha perduto sia il marito sia il figlio. Nel suo intervento è compresa la frase che abbiamo citato all’inizio, fonte di entusiasmo fra il pubblico: Nos prêtres ne sont pas ce qu’un vain peuple pense, / notre crédulité fait toute leur science “I nostri preti non sono ciò che pensa un popolo vano, la nostra credulità costituisce tutta la loro scienza”. A differenza di Araspe e di Filottete, Giocasta non pensa ad un tradimento volontario, ma ad una ignoranza tipicamente umana che porta rovina e delitto per la troppa credulità dei fedeli. Nuovamente Edipo rifiuta questa interpretazione, anche perché ha ricevuto direttamente una manifestazione divina, non richiesta e non mediata da indovini: je suis réservé sans doute au parricide “Sono riservato senza dubbio al parricidio”(IV, 1).
Come si è detto, la scoperta della verità avviene in due tempi. Quando Edipo sa di avere ucciso Laio, pensa di essere perseguitato dagli dèi ma respinge la consolazione di Giocasta:
Joc.: Il est involontaire.
Oed.: N’importe, il est commis.
“È (un delitto) involontario” “Non importa, è commesso” (IV, 3)
Alla notizia della morte di Polibo Edipo s’indigna per la vanità degli oracoli che l’hanno portato a compiere un delitto, l’uccisione di Laio, per evitare un immaginario parricidio. Si tratta della stessa idea di Giocasta a proposito dell’infanticidio: in entrambe c’è un elemento di rimorso per aver volontariamente compiuto una colpa credendo di allontanare altri mali:
Ainsi de mon erreur esclave volontaire,
occupé d’écarter un mal imaginaire,
j’abandonnais ma vie à des malheurs certains,
trop crédule artisan de mes tristes destins!
“Così, schiavo involontario del mio errore, occupato ad evitare un male immaginario, abbandonavo la vita a sventure certe, artefice troppo credulo del mio triste destino!” (V, 2).
Il riferimento quasi letterale all’espressione latina faber suae quisque fortunae segna in un modo particolarmente forte l’amarezza della situazione. Manca in Voltaire la sopravvivenza del timore dell’incesto, che nella tragedia sofoclea frena il sollievo di Edipo e provoca la rivelazione del messo sulla sua condizione di trovatello: anzi Edipo vorrebbe partire subito per Corinto, inizialmente per organizzare le onoranze funebri e la successione al trono, visto che a Tebe non può restare, poi per sostenere con le armi i suoi diritti dinastici. Quando scopre di non essere figlio legittimo è combattuto fra il desiderio di sapere chi è e il timore di venir a conoscere orrori più grandi: il contrasto, esplicitato in Sofocle nella discussione fra Giocasta, che ha già compreso tutto, ed Edipo, inebriato dall’idea di essere “figlio della sorte” e quindi veramente artefice del proprio destino, in Voltaire si risolve in un monologo fondato sul pourquoi chercher à connaître? (V, 2) Il ruolo degli dèi nella conoscenza degli uomini è ambiguo: due volte nel corso della tragedia compare l’immagine della benda sugli occhi: una prima volta quando Edipo ricorda all’improvviso l’uccisione da lui compiuta (più realistico dei suoi predecessori, Voltaire sente di dover in qualche modo giustificare la completa censura mentale di quell’episodio):
je ne conçois pas par quel enchantement
j’oubliai jusqu’ici ce grand événement;
la main des dieux sur moi si longtemps suspendue
semble ôter le bandeau qu’ils mettaient sur ma vue
“non capisco per quale incantesimo ho dimenticato finora quel grande evento; la mano degli dèi così a lungo sospesa su di me sembra togliermi la benda che tenevano sui miei occhi” (IV, 1);
una seconda in questo monologo: je devrais bien plutôt, d’accord avec les dieux, / chérir l’heureux bandeau qui me couvre les yeux “Piuttosto, in accordo con gli dèi, bisognerebbe amare la fortunata benda che mi copre gli occhi”. Eppure gli dèi si sono manifestati, non solo su richiesta, ma anche volontariamente: solo che l’effetto (lo scopo?) delle loro rivelazioni è stato quello di far affrettare l’evento. Così dice Edipo all’inizio del lungo lamento che costituisce la quarta scena del V atto: Le voilà donc rempli cet oracle exécrable / dont ma crainte a pressé l’effet inévitable! “Ecco dunque realizzato quell’oracolo odioso di cui la mia paura ha affrettato l’inevitabile compimento!”.
Ha un senso la storia di Edipo? È la domanda che continuiamo a porci al termine di ogni versione del mito. In Voltaire vi sono risposte differenti: Edipo giunge all’accecamento trascinato da una visione in cui le Furie e Laio lo spingono ad autopunirsi delle colpe commesse; ma vi giunge dopo aver maledetto gli dèi che gli imputano le loro colpe, e dopo aver rifiutato la virtù: misérable vertu, nom sterile et funeste. Sembra quasi una polemica con l’Edipo di Corneille, che concludeva proclamando contro gli dèi l’éclat de ces vertus que je ne tiens pas d’eux. D’altra parte il Gran Sacerdote rileva che gli dèi si sono placati: la decisione di Edipo di versare sangue impuro accecandosi basta a riconciliare l’ombra di Laio e le divinità: tutti possono riprendere la loro tranquilla vita: Tel est l’ordre du ciel, dont la fureur se lasse; / comme il veut, aux mortels il fait justice ou grâce;/ ses traits sont épuisés sur ce malheureux fils. /Vivez, il vous pardonne “Tale è l’ordine del cielo, e la sua furia si placa; fa giustizia o grazia ai mortali come vuole; i suoi dardi sono esauriti contro quel figlio infelice. Vivete, vi perdona” (V, 6). Ma già il Coro rifiuta questa salvezza a danno di un innocente: Il valais mieux nous punir à jamais “Era meglio punirci per sempre”(V, 5). E Giocasta, uccidendosi nella scena finale, rivendica la sua innocenza costretta al delitto: j’ai fait rougir les dieux qui m’ont forcée au crime “ho fatto arrossire gli dèi che mi hanno costretta alla colpa”.
In realtà la reazione anche esteticamente più efficace, forse il punto più alto della tragedia, è racchiusa nella breve frase di amaro fatalismo della terza scena, quando Edipo, di fronte alle concitate esclamazioni di orrore e rimorso dei due vecchi che hanno scoperto la sua identità, commenta soltanto: Je n’attendais pas moins “Non mi aspettavo di meno”.
[1] G. Regoliosi Morani, Il
problema della libertà in due Edipi del Seicento, in Zetesis
1/2000, pagg. 42-51, con i relativi riferimenti bibliografici.
[2] Per una bibliografia minimale si veda: voce Voltaire dell’Enciclopedia
Italiana, vol. XXXV, pag. 576 segg., a cura di L. Giusso, e relativa
bibliografia; voce Voltaire, in Storia della letteratura francese,
ed. Garzanti, vol. I, pagg. 772 segg., a cura di J. Varloot e J. Marchand, e
relativa bibliografia; F. Doglio, Storia del teatro, ed. Garzanti,
vol. IV, pagg. 213 segg.; V. Pandolfi, Storia del teatro, ed. UTET,
vol. I , pag. 575. Sull’importanza della Compagnia di Gesù sia nelle
questioni dottrinali relative al libero arbitrio sia nell’evoluzione del
teatro si veda, oltre all’articolo di cui alla n.1, F. Doglio, op. cit.,
vol. III, pagg. 219-232.
[3] Gli interventi di Voltaire sul teatro sono: Lettre sur la tragédie
(1726), Lettre au Gesuite père Poré (del 1730), Discours sur la
tragédie (premessa al Brutus, 1731), Lettres sur les Anglois
(che comprendono anche giudizi sul teatro shakespeariano, 1733), oltre
ai tardi Commentaires sur Corneille, in cui introduce giudizi critici
di stampo classicista.
NB. Il testo dell'Oedipe di Voltaire è accessibile online al seguente indirizzo:
http://www.voltaire-integral.com/Html/02/01OEDIPE.htm
Una traduzione italiana della tragedia è stata pubblicata sul n. 1-2002 di Zetesis.
Immagini: 1. Busto di Voltaire di Jean-Antoine Houdon (1778); 2. Frontespizio della prima edizione (1719) dell'Edipe di Voltaire; 3. Edipo bambino raccolto dal pastore Forbante (scultura di Antoine-Denis Chaudet, 1763–1810, completata da Pierre Cartellier; 4. 1757–1831 e Louis-Marie Dupaty 1771–1825 dopo la morte di Chaudet); Parigi, Musée Luxembourg; 5. Illustrazione dell'atto V in un'edizione settecentesca dell'Edipo di Voltaire.
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