Le
Ecloghe di
Dante
In
occasione del settimo centenario della morte del poeta
Agli
ultimi anni della vita di
Dante, trascorsi a Ravenna ospite di Guido Novello da Polenta, risale
un gruppo
di quattro poesie latine, globalmente chiamate ecloghe o egloghe, ma in
realtà
diverse come forma e come autore: ne abbiamo anche il commento e
l’interpretazione del Boccaccio. La prima porta il titolo Iohannes
de Virgilio Alagherii. Carmen (o Joannes De Virgilio
Danti Alagherii. Carmen) ed è un’epistola in
esametri alla maniera oraziana, di contenuto cioè parenetico: un
giovane poeta, Giovanni
del Virgilio, padovano ma abitante a Bologna, esorta Dante a non
sprecare la propria grandezza poetica componendo in volgare. E’ chiaro
dai
primi versi che il Del Virgilio conosce e apprezza la Commedia
e ne ha lette le prime due cantiche, forse parte della
terza ancora incompiuta, ma alla sua ammirazione per il disegno
grandioso si
accompagna il dispiacere che tali versi vadano nelle mani di gente
ignobile: que tamen in triviis nunquam digesta coaxat
/ comicomus nebulo, “tuttavia li gracida nei trivii senza averli
mai
digeriti, un ridicolo briccone” (vv. 12-13). L’esortazione a passare
all’uso del
latino si concretizza in precise proposte: anzitutto tematiche da
utilizzare
per un poema epico, in particolare la vicenda di Arrigo VII, armiger Iovis (v.26), e varie battaglie terrestri
o navali citate con ampiezza di perifrasi; poi la ricerca di una gloria
che
giunga ai confini del mondo, rappresentati geograficamente dalle
colonne
d’Ercole, dal Danubio e dall’isola egiziana di Faro e Cartagine;
inoltre la
possibilità, come esito di un canto dotto, di essere incoronato poeta a
Bologna, dove il Del Virgilio userebbe la sua influenza; ma soprattutto
l’uso
del latino come lingua universale invece degli idiomata
mille (v. 16), non solo più gradito ai dotti ma anche sorti
communis utrique (v. 23), cioè
accessibile a colti e incolti. E’
naturalmente chiaro che il modello indicato a Dante è Virgilio epico,
di cui Giovanni
si vanta di essere nel nome verna,
“servo”, ma anche Stazio quem sequeris
celo (v.18), cioè accompagni nell’ascesa dal Purgatorio al
Paradiso, stando
alla narrazione di Dante alla fine della seconda cantica.
Dante
accoglie la proposta di
imitare Virgilio in latino, ma al posto del poema epico utilizza la
poesia
bucolica. Il secondo componimento della raccolta ha titolo Dantes
Alagherii Iohanni de Virgilio. Ecloga I (o Dantes
Alagherii Joanni De Virgilio Ecloga I):
l’ecloga si presenta come il racconto di un dialogo fra due pastori,
l’io
narrante Titiro e l’amico inesperto di poesia Melibeo: il primo
rappresenta
Dante stesso e il secondo ser Dino Perini, fiorentino ma allora
residente a
Ravenna. Quest’ultimo è incuriosito dall’epistola di Mopso (Del
Virgilio) e
insiste perché Titiro gliene riveli il contenuto. Ma Titiro lo prende
benevolmente in giro: Melibeo ignora i luoghi pittoreschi
(simbolicamente posti
in Arcadia) dove Mopso contemplatur ovans
hominum superumque labores,“contempla con gioia le opere degli
uomini e
degli dèi”, e le trasforma in un canto che, come quello di Orfeo,
attira
animali domestici e selvaggi, muove fiume e fronde. Di fronte alle
insistenze
di Melibeo, Titiro gli svela il carme di Mopso e fa un grande elogio
dell’amico, l’unico poeta nell’ambiente bolognese di legulei: dum satagunt alii causarum iura doceri “mentre
gli altri si accontentano di imparare il diritto forense”. Tuttavia non
intende
soddisfarlo: appena terminerà il Paradiso,
spera sì di ottenere l’alloro poetico, ma non a Bologna, città
politicamente
nemica (se, come interpreta Boccaccio, ignara
deorum del v. 41 va inteso come “ostili agli imperatori”); il suo
sogno è
di ottenerlo a Firenze, se potrà ritornarvi. Rimane vago però
l’intento, né la
parola peana del v. 40 chiarisce se
Dante intende infine aderire all’idea di un poema epico oppure spera di
ottenere gloria con la Commedia quasi
terminata. In ogni caso, giacché Melibeo gli rinfaccia il passare
veloce del
tempo, terrà buono Mopso con dieci vasi di latte: dieci ecloghe come le
virgiliane? O i canti finali del Paradiso?
Il racconto termina con la preparazione della povera cena per i due
pastori.
Del
Virgilio rimane piccato dalla
risposta di Dante. Se questi intende comporre poesia bucolica latina,
allora
gli dimostrerà di essere in grado anche lui di imitare le ecloghe
virgiliane: audiat in silvis et te cantare bubulcum “senta
che anche tu canti come un bifolco nei boschi” (v. 30). Nasce così il
terzo
componimento, dal titolo Iohannes de
Virgilio Danti Alagherii. Ecloga responsiva (o Joannes
De Virgilio Danti Alagherii. Ecloga responsiva). In effetti
l’ecloga è costruita su modelli virgiliani: già l’incipit
Forte sub irriguos…
riprende anche metricamente l’incipit
dell’ecl. VII: Forte sub arguta…Nel
prosieguo troviamo dalla stessa ecloga virgiliana il quid
facerem? (cfr. v. 6 e v. 14 di Virgilio): qui però c’è una variatio di situazione: se in entrambe
l’io narrante è solo perché i compagni sono assenti, in Virgilio la
domanda
riguarda il dubbio se abbandonare il lavoro per poter assistere alla
gara di
canto, invece qui il protagonista si
annoia nella solitudine e passa il tempo tagliando le canne palustri.
Mentre si
trova “fra Savena e Reno” (cfr. Inferno,
XVIII, 61), cioè nella zona di Bologna, ode il canto di Titiro dalla
lontana
Ravenna e decide quindi, depostis calamis
maioribus, di afferrare tenues,
cioè di passare ad un genere poetico più basso. Il carme vero e proprio
inizia
al verso 33 con Sic, divine senex,
che richiama anche metricamente il Fortunate
senex di ecl. I, 46. Mopso-Del
Virgilio elogia Titiro-Dante considerandolo un secondo Virgilio, o
Virgilio
stesso, se si vuole credere all’idea di Pitagora sulla reincarnazione;
lo
commisera per l’esilio da Firenze, che spera non l’affligga troppo e
possa
alfine terminare. Ma nel frattempo gli rivolge l’invito tipico delle ecloghe virgiliane, quell’huc ades che
costituisce in particolare il centro della seconda
ecloga, imitata nella
descrizione dei luoghi ameni dove si desidera che l’amico accetti di
venire. L’huc ades ripetuto al v. 72 introduce la
rassicurazione dell’assenza di pericolo, in risposta al timore di
Titiro-Dante
nei confronti di Bologna. Tipico dell’huc
adestopos virgiliano della successione di
affetti (presente sia nella seconda ecloga sia in VII, 61 segg.)
termina polemicamente
con la decisione di ripiegare su un altro affetto, Musone (il padovano
Albertino Mussato, da poco incoronato poeta). E alla promessa dei dieci
vasi di
latte Mopso risponde intendendo mandare altrettanti vasi, forse anche
in questo
caso dieci ecloghe, benché consideri presuntuoso il contraccambio. Al
termine
del canto tornano i compagni e si fa sera. virgiliano è però anche il
rifiuto dell’invito, le difficoltà
soggettive o oggettive di accettarlo: come nell’ecloga virgiliana anche
in
questa l’impedimento è costituito da Iolla (cfr. II, 57: qui
rappresenta Guido
da Polenta), che può offrire un’ospitalità migliore. La ripresa del
Dantes Alagherii
Iohanni de Virgilio. Ecloga II (Dantes Alagherii Joanni
De Virgilio. Ecloga
II) è il carme di Dante che chiude la raccolta. Inizia con
un’indicazione
temporale: il sole è uscito dalla costellazione dell’ariete e si trova
in
equilibrio nella sua orbita: siamo quindi a mezzogiorno di primavera.
Titiro e
l’amico Alfesibeo, anch’egli anziano, cercano rifugio dal caldo in un
boschetto. Capiamo più avanti che l’ambientazione questa volta è in
Sicilia,
uno dei luoghi tipici della poesia bucolica dal tempo di Teocrito, per
cui già
in primavera la calura è forte. Titiro e Alfesibeo soggiornano in
pianure
pacifiche dell’isola, mentre Mopso si trova sotto l’Etna, dove vivono i
mostruosi ciclopi. Alfesibeo, che raffigura il medico Fiducius de
Milottis,
amico di Dante e abitante anch’egli a Ravenna (ma originario di
Certaldo, come
nota Boccaccio), svolge un ampio
discorso sulla natura, per cui ogni specie ha i suoi luoghi prediletti,
e
termina stupendosi della scelta innaturale di Mopso. Sopraggiunge
di corsa il giovane ingenuo
Melibeo, dal cui flauto esce l’ecloga
responsiva di Mopso. Alfesibeo
teme che Titiro accetti l’invito di Mopso e si rechi ad
litus Aetneo pumice tectum (v. 54): con qualche riferimento
virgiliano (ad es. ecl. IX, 19-20) immagina
la tristezza delle ninfe e la solitudine dei luoghi se Titiro se ne
andasse.
Titiro lo rassicura: Mopso pensa che lui si trovi a Ravenna, non in
Sicilia, e
lo invita a recarvisi: tuttavia la parte dell’isola dove abita è ostile
e
pericolosa per la presenza di Polifemo, per cui nonostante l’affetto
per
l’amico non accetterà l’invito. L’intreccio fra luoghi simbolici e
reali è
complesso, con qualche riferimento poco chiaro (discusso ad esempio il Pachynus invidioso del v. 59), ma è
evidente che Bologna presenta dei
pericoli per Dante, intenzionato a rimanere al sicuro a Ravenna. Lo
stesso
Iolla (Guido da Polenta) ascolta il dialogo fra Titiro e Alfesibeo, lo
ripete
al poeta che a sua volta lo riferisce a Mopso con un curioso grecismo: nos tibi, Mopse, poimus (da poièo).
Probabilmente Ravenna, che era
stata esarcato bizantino, aveva conservato una rimanenza di greco.
I
riferimenti alla Sicilia sono
ricchi di allusioni virgiliane: Melibeo ridicolo nella corsa affannosa
è
paragonato a Sergesto, lo sfortunato partecipe alla gara navale del V
libro
dell’Eneide; sempre dall’Eneide (III,
613) è tratto l’episodio di
Achemenide sfuggito al ciclope; la vicenda di Galatea, che risale
all’idillio
teocriteo Ciclope, era accennata
nell’ecloga VII (v. 37 seg.) e
ripresa nell’ecl. IX (v. 39 segg.),
anche se questi testi si limitano all’amore infelice di Polifemo: qui
invece è
messa in rilievo la crudeltà del ciclope verso l’amante più fortunato,
e di
conseguenza l’impossibilità per Dante di salvarsi se si recasse dove
Mopso
l’invita. La fonte di questa parte del mito di Polifemo non è più
Virgilio, ma
forse Ovidio, Met. XIII, 870 segg.,
anche se in quel testo Aci è ucciso con un masso, da dove la ninfa fa
sgorgare
il fiume in cui trasforma l’amato, e non si parla quindi di “viscere
sbranate”
(v. 77 segg.), più consone al Polifemo omerico.
Il testo della corrispondenza fra Dante e Giovanni del
Virgilio sul sito Liberliber
Nelle immagini: il frontespizio e l'inizio
dell'ecloga di Dante nell'editio
princeps (Firenze 1719)
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