"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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Intervento di Mons. Angelo Scola,
Arcivescovo di Milano, al Meeting di Rimini del 1998:
Due posizioni umane di fronte al destino:
Prometeo sfida Zeus per compassione degli uomini;
il Risorto obbedisce al Padre per salvarli.
Prometeo o il risorto? Spiritualismo, tentazioni moderne e cristianesimo
Relatore:
S. Ecc. Mons. Angelo Scola, Rettore della Pontificia Università Lateranense
1. "Uomini simili a forme di sogno"
Due posizioni umane di fronte al destino: Prometeo sfida Zeus per compassione
degli uomini; il Risorto obbedisce al Padre per salvarli.
Prometeo - il nome (pre-veggente), già ne indica la dote principale - era un
semidio, figlio di Titano. Ce ne parla Esiodo, nella sua Teogonia, ma
soprattutto Eschilo nella geniale tragedia Prometeo Incatenato.
Egli aveva appreso da Atena tutte le arti utili alla civiltà (dalla matematica
alla medicina, dall’architettura all’astronomia, dall’arte della navigazione
alla metallurgia...) e le aveva diffuse tra i mortali.
Afferma il Prometeo di Eschilo: "...gli uomini prima non capivano e io li ho
resi coscienti e padroni del loro intelletto... Prima guardavano e non vedevano,
ascoltavano e non sentivano, simili a forme di sogno, vivevano a caso una vita
lunga e confusa".
Dunque il figlio di Titano, mosso a compassione per i mortali - simili a forme
di sogno, che vivevano a caso una vita lunga e confusa - si schiera dalla loro
parte contro Zeus che odia gli uomini, perché sente la loro salvezza (il
diventar coscienti e padroni di sé) come una minaccia al suo potere. Prometeo si
fa così salvatore degli uomini, sottraendo agli dei il fuoco, fattore genetico
di civiltà. Per punirlo, Zeus decide di infliggergli un supplizio atroce: lo fa
incatenare nudo sulla vetta più alta del Caucaso, condannandolo a soffrire il
freddo e la fame che aveva voluto risparmiare ai mortali. Ogni giorno un enorme
avvoltoio viene a cibarsi del suo fegato immortale che ogni notte si rigenera.
Ma Prometeo, la cui condanna è definita, resiste, indomito nella volontà, contro
il sopruso del capriccioso Zeus.
Chi di noi non si sente appassionatamente vicino al semidio greco, che paga di
persona per il bene degli uomini fragili e bisognosi e, anche nel supplizio
eterno, non rinuncia, con volontà titanica e solitaria, ad un atteggiamento di
sfida?
Non è questa una posizione umana carica di eroica dignità di fronte al destino
che, almeno per un ultimo aspetto, ci è imposto? Nessuno, infatti, può evitare
la fragilità, il dolore, la morte. Tutti vi siamo esposti e, in qualche modo,
condannati.
Non per nulla un profondo conoscitore del teatro, H.U. von Balthasar, ha scritto
che la tragedia greca è quasi un sacramento, cioè un simbolo efficace
dell’umana, drammatica condizione. La stessa tragedia di Cristo è ben lungi dal
distruggere quella di Prometeo. Anzi Gesù, soffrendo come un reietto sul palo
ignominioso della croce perché gli uomini siano salvati, porta fino in fondo
quella compassione per la condizione umana indomabilmente perseguita da
Prometeo.
2. Il "volere solitario": prometeismi attuali
Ma ha ancora senso oggi, soprattutto nelle moderne società avanzate del nord del
pianeta, parlare di Prometeo e della sua compassione per gli uomini? Infatti -
drasticamente ridimensionato dall’ottimismo scientista dopo le guerre mondiali,
il disastro di Hiroshima, l’Olocausto, i Gulag e il crollo delle ideologie - la
stessa parola compassione (etimologicamente "patire con") sembra essere rimasta
vittima di quella specie di irradiazione maligna, in grado di modificarne il
significato originario, che ha colpito altre parole fondamentali nell’umana
esperienza. (Penso a verità, amore, libertà, giustizia, ecc.).
E che dire della categoria di salvezza? Non ha forse subito lo stesso destino?
Nella tragedia di Eschilo il coro delle Ninfe Oceanine, testimoni sagge e
pietose delle sofferenze di Prometeo, ci offre la risposta:
"Nel tuo volere solitario, onori troppo gli uomini, Prometeo.
Amico mio, guarda che ingrata grazia (oxymoron): dov’è la forza, dov’è l’aiuto
degli effimeri? Non hai veduto la fragilità simile a un sogno in cui è
impigliata la cieca stirpe degli uomini?"
Già poco prima Eschilo aveva definito i mortali come "simili a forme di sogno".
Ecco il nesso tra il Prometeo di duemila anni fa e tutti i prometei (e i
prometeismi) di oggi: il sogno sembra essere oggi più che mai la cifra
distintiva dell’umana condizione. Ne segnala non solo la fragilità radicale
(ontologica) - già citata da Eschilo -, ma anche il suo illusorio antidoto:
vivere sognando, come fuga anestetica contro questa precarietà ontologica.
Il fenomeno sociale del New Age cui, secondo studiosi documentati, più di mezzo
miliardo di persone ispira la propria esistenza, può essere considerato -
soprattutto nella recentissima versione del Next Age - l’emblema della vita
intesa come sogno nei due sensi indicati.
"Il Next Age può essere descritto come il passaggio del New Age dalla terza alla
prima persona singolare... Il singolo può entrare nel suo Next Age personale e
raggiungere uno stato superiore di prosperità, salute, soddisfazione (anche sul
piano sessuale, che nel Next Age viene spesso in primo piano). La società può
anche andare in rovina; ma la singola persona che ha accesso a determinate
tecniche entrerà comunque in una sua età dell’oro personalissima e privata".
Bastano Pensiero positivo (celebrato da cantanti di successo) e self help.
Insegnano a "concentrarsi sulle proprie azioni e responsabilità individuali,
senza troppo preoccuparsi del contesto sociale" (ibid.). Alla fine lo slogan del
New Age diventa: "ciascuno crea la sua realtà".
Ma su cosa si basa il grande successo di questo spiritualismo consolatorio? A
quale condizione si può pensare di poter creare la realtà, anziché accoglierla?
Solo se si enfatizza a dismisura una volontà separata dall’intelligenza, ma,
soprattutto, dalla totalità della persona e della società.
Anche quando produce fenomeni sociali di massa (New Age), il clima culturale
dominante resta spesso espressione di un volere solitario (separato, astratto),
lo stesso che Eschilo attribuisce anche a Prometeo: "Nel tuo volere solitario,
onori troppo gli uomini... amico mio...".
Ma Prometeo fallisce. Perché?
Perché cerca la salvezza degli uomini lungo la stessa strada della loro
infermità: quel volere solitario, appunto, che rende la realtà e l’io
inconsistenti come un sogno. Medico appassionato, propone una medicina che,
tragicamente, incrementa la malattia. È, il suo, l’emblema di tutti gli umani
tentativi - da quelli eroici dei grandi benefattori dell’umanità a quelli banali
di ognuno di noi - di salvarsi da sé (autosoteria).
Certo, il volere solitario del Prometeo di oggi non indica più l’energia
titanica dell’io che si erge, solo, nella sfida estrema contro l’Altro - sia
pure l’Onnipotente, terribile Zeus -, ma piuttosto lo sforzo di una volontà
estenuata - che resta in balia di se stessa anche quando si confonde nei riti di
massa - di fronte ad una realtà concepita come una ‘tabula rasa’.
Il Prometeo attuale è una monade chiusa: sordo all’appello della realtà a tal
punto da illudersi di poterla creare.
Così all’accoglienza umile ed indomita che la tenace presenza del Mistero nel
segno della realtà domanda, si sostituisce la proiezione del nostro sentimento
di un Dio "tappabuchi". La drammatica bellezza dell’amore è ridotta ad una
sequenza di effimere emozioni che, agevolmente, si coniugano con comportamenti
erotici non privi di tratti animaleschi. L’affascinante intrapresa di costruire
una società per quanto possibile giusta e pacifica, si trasforma in una
legalistica lotta, talora mortale, tra guardie e ladri.
Questa sorta di debolismo ontologico - prima che gnoseologico o etico - connota
gran parte della cultura contemporanea (da quella degli intellettuali più à la
page fino a quella dei conduttori dei talk-show più di moda). "Un nulla eravamo,
siamo, rimarremo fiorendo: la rosa di Nulla, di Nessuno" (Paul Celan). Per il
Prometeo che s’affaccia sulla soglia del terzo millennio la compassione è
ridotta a volontaristica condiscendenza verso quella che Eschilo chiama "la
fragilità simile a un sogno degli effimeri".
In suo nome viene attribuita la palma di eroi e di salvatori a tutte quelle
figure che o blandiscono le ferite di cui l’io è ricoperto o esaltano illusorie
scorciatoie verso la realtà.
Per procedere è ora necessario richiamare i connotati fondamentali dei fattori
in gioco (la realtà e l’io, la libertà) nella loro genuina, originale
fisionomia.
Lo facciamo all’interno del solco del pensiero classico e cristiano, così come
l’esperienza di Chiesa viva in cui siamo stati educati ce li ha fatti
riscoprire: nella loro ragionevolezza, cioè nella loro completa convenienza con
la nostra umanità.
Partendo quindi da uno sguardo semplice - non alterato da preconcetti, ma
attento alla nostra esperienza elementare - chiediamoci ora:
a. che cos’è la realtà? poi, facendo eco all’insuperabile verso leopardiano,
b. "ed io che sono?" ed infine
c.
come si attua la libertà umana?
3. Realtà
Tutto
ciò che esiste è una comunicazione che l’Essere fa di sé attraverso la realtà.
Sorprendendola in azione dentro uno spaccato del nostro quotidiano, potremmo
descrivere la realtà come un tessuto a tre fili: rapporti, circostanze e
situazioni (complesso di circostanze e di rapporti).
La realtà sempre ci precede, ci sorprende e ci pro-voca (letteralmente ci
precede chiamandoci, la preposizione greca pro significa davanti): interpella la
nostra libertà, chiedendole di aderire. C’è infatti in essa una incontenibile
dinamica comunicativa. Verità è, di conseguenza, la realtà in quanto si fa
conoscere togliendosi il velo, comunicandosi (Aletheia, il termine greco che
corrisponde all’italiano verità, vuol dire proprio non stare nascosto, cioè
svelarsi).
L’essere dunque, mi si svela, mi si fa incontro nei singoli enti: il tramonto
sul mio lago, questo Auditorium, la musica di Mozart, il tuo volto, ecc.
Io conosco te e, proprio attraverso di te, l’Essere mi dice qualcosa di sé; mai
però in maniera immediata, diretta ed esauriente. Usiamo un’espressione
sintetica: l’Essere mi si comunica sempre nel segno. Ogni realtà, tu, sei segno
dell’essere.
Dalla dinamica comunicativa tratteggiata emerge, dunque, chiaramente il
carattere di e-vento proprio della realtà (dalla realtà [e-] l’essere mi viene
incontro [venio]). E la verità è un rapporto: il rapporto nel quale la realtà è
conosciuta dal soggetto in modo adeguato (adaequatio rei et intellectus).
Sintetizzando possiamo dire che l’uomo vive immerso nella realtà che chiede di
essere abbracciata nell’atto della libertà. Così si apre per lui la strada alla
conoscenza della verità.
Per san Tommaso d’Aquino, e per tutti i pensatori della nostra grande
tradizione, il livello più elementare della verità consiste proprio
nell’abbandonarsi delle energie costitutive dell’io al reale: adaequatio rei et
intellectus.
Ecco affacciarsi alla nostra riflessione il grande ed elementare principio del
realismo cristiano, che non è anzitutto una teoria filosofica, ma un criterio
per l’esistenza di ogni giorno.
4. "Ed io che sono?"
Più di duemila anni dopo Eschilo, ma con la stessa percezione tragica, Sartre ha
defininto l’uomo "una passione inutile". Partiamo dall’accettarne la sfida e
chiediamoci: il desiderio di compimento così tenacemente radicato nell’uomo
(passione) è dunque inutile perché destinato a rimanere insoddisfatto? Il suo
orizzonte ultimo è la frustrazione? Allora la vita è davvero un sogno? "Che è
mai la vita" si chiede Calderón. "Un’illusione, un’ombra, una finzione. E il più
grande dei beni è il più piccolo perché tutta la vita è un sogno". Nessuno può
salvarsi da questo tragico destino? Il fallimento di Prometeo è dunque l’ultima
parola sulla vicenda umana?
Passione, desiderio, compimento, soddisfazione sono tutti termini che rimandano
ad un problema antico quanto l’uomo e, indubbiamente, sempre attuale: il
problema della felicità. Sartre ci aiuta così a capire la profondità della
domanda di Leopardi. "Ed io che sono?" è un interrogativo molto più penetrante
di quello solito, che suona "Ed io chi sono?". Non si può separare la domanda
sull’io da quella sulla sua felicità (compimento)! Solo così essa appare la più
concreta di tutte: è la questione di vita o di morte (salvezza). Gesù stesso non
l’ha evitata, ma l’ha addirittura, radicalizzata. L’indeciso Nicodemo,
l’inquieta Samaritana, l’astuto Zaccheo, il rude Pietro, l’intenso Giovanni...
in ogni pagina del vangelo Gesù si propone all’uomo come la via, la verità e la
vita, Colui che affronta simultaneamente i due corni dell’unica questione: che è
l’uomo e come può essere felice?
Per cercare una risposta gettiamo uno sguardo sulla nostra esperienza.
Consideriamo l’uomo, ancora una volta, così come si rivela alla nostra coscienza
quando è in azione. In questo modo ciascuno di noi può agevolmente constatare in
sé l’esistenza di tre dimensioni, ognuna delle quali costituita da due poli, che
stanno in una certa tensione tra di loro, come i poli di una calamita.
Sinteticamente: noi siamo anima e corpo (la prima polarità), uomo e donna (ecco
la seconda), individuo e comunità (la terza).
Sono uno (io) ma, all’interno di questo uno, si dà un due (anima e corpo): una
dualità che non spezza mai l’unità.
L’uomo è sempre identicamente una persona, ma concretamente esiste sempre e solo
o come uomo, o come donna (due).
Se dilato l’originaria appartenenza del mio io dalla comunità elementare
dell’uomo-donna (famiglia) alla grande comunità sociale, ancora una volta colgo
l’individuo (uno) come inseparabile correlato a comunità sociali (due).
Possiamo chiamare questa legge che caratterizza la creatura, legge dell’unità
duale.
La prima polarità, quella tra spirito e corpo, mostra che grazie al corpo l’uomo
si percepisce come parte del cosmo e partecipa, con tutta la sua sensibilità e
la sua ragione, delle leggi della natura (per esempio: per sopravvivere deve
nutrirsi, come tutti gli altri esseri viventi, di cui condivide i bisogni
primari). Nello stesso tempo però, grazie allo spirito, egli trascende il cosmo
e partecipa di una natura spirituale (grazie alla quale, per esempio, egli è
cosciente dell’insufficienza di ogni cibo - anche il più prelibato - a
soddisfarne la fame profonda), natura che egli ha in comune con gli altri
uomini. La formula unità duale ci permette di evitare due pericoli opposti fra
loro: lo spiritualismo che disprezza la realtà del corpo e il materialismo che
considera lo spirito un epifenomeno della materia. Nessuna di queste due
posizioni rende ragione della natura dell’uomo.
La seconda polarità, quella dell’uomo-donna, ci dice che nessun uomo, in sé, è
in grado di esaurire da solo tutto l’uomo: ha sempre davanti a sé l’altro modo,
irriducibilmente diverso rispetto al suo, di essere uomo. L’io verifica dentro
di sé una carenza che lo apre ad un fuori da sé. Questa evidente, originaria
esperienza ci fa percepire che la sessualità non è una dimensione derivata, ma
costitutiva dell’umano. Allo stesso tempo, attraverso di essa, l’uomo scopre il
nesso con la generazione e, quindi, con la realtà della morte. La drammaticità
della umana esistenza raggiunge a questo punto uno dei suoi momenti più alti.
La seconda polarità, uomo-donna, è anche segno primigenio della terza:
individuo-comunità. Due sono i dati che essa aggiunge al quadro antropologico
che stiamo tracciando. Da una parte documenta la socialità originaria dell’uomo
e, dall’altra, permette di percepirne il carattere storico.
Cosa ci dice la legge dell’unità duale - attenti bene: unità duale, non dualità
unificata - che caratterizza ogni creatura? Essa esprime una grande indiscussa
verità: l’altro - come individuo, persona, comunità - non è solo fuori di me ma,
in un certo senso, è in me. È così indicata la strada per rispondere alla
domanda leopardiana di felicità: l’essere per l’altro è condizione di verità del
mio io. Il desiderio di felicità costitutivo dell’uomo può trovare la propria
soddisfazione solo attraverso l’altro. Ecco l’affascinante paradosso della umana
condizione: il mio io sei tu.
5. La libertà
Emerge imponente, a questo punto, la questione della libertà. Proviamo a
descriverne sinteticamente la dinamica. La libertà è messa in moto dalla realtà
che - incontrando l’uomo - lo attrae, accende il suo desiderio. San Tommaso lo
chiama amor naturalis. Si tratta qui di un desiderio ontologico, proprio
dell’uomo in quanto tale, al quale la realtà si presenta come amabile. Non
stiamo parlando del desiderio psicologico, che ne è solo una labile espressione!
La ragione per cui possiamo qualificare questo desiderio costitutivo come
ontologico è data dal fatto che nella vita dell’uomo esso non si spegne mai: il
desiderio ontologico mi apre alla totalità. Non si potrebbe, infatti, parlare di
felicità o di soddisfazione (espressioni che implicano l’idea di pienezza e di
compimento) se ci fosse qualcosa che sfugge alla presa del desiderio umano.
Il carattere di totalità, proprio del desiderio, dimostra che l’uomo gode di una
certa capacità rispetto all’essere totale. D’altra parte, però, tutti noi
sperimentiamo ogni giorno anche un’incapacità radicale a realizzare il nostro
desiderio. La totalità ci eccede da ogni parte. Ci supera. Non solo perché è
infinita, ma anche perché noi non riusciamo mai a possedere, del tutto e
pienamente, persino un oggetto finito del desiderio...! Per esempio, tu desideri
il bene della donna che ami ma, proprio mentre le dici "Ti voglio bene",
percepisci la tua strutturale incapacità di amarla. La realizzazione del
desiderio di amore totale persino nei confronti di un essere limitato non è a
tua disposizione.
È questo il paradosso della libertà umana: da un lato, essa è capace di adesione
all’infinito; dall’altro, non può realizzare da sé questa sua capacità. La
felicità, contenuto costitutivo del desiderio, non può essere prodotta dal
desiderio stesso. Domanda altro da sé.
Nel cuore stesso della libertà umana ritroviamo dunque la tensione, la polarità
di cui abbiamo già parlato: la felicità che io desidero come compimento (primo
polo), non è automaticamente alla portata di questo desiderio che pure mi
costituisce; chiede altro da sé (secondo polo).
Questa polarità, che il desiderio ontologico rivela, spiega il secondo livello
della libertà, generalmente noto come libero arbitrio.
Infatti, se la libertà compie nell’adesione all’Infinito ma io posso attingere
solo beni (realtà) finiti, allora il libero arbitrio deve procedere attraverso
una continua scelta di beni particolari senza venir mai completamente
soddisfatto.
Non rimane, quindi, che una strada per affrontare la polarità costitutiva della
libertà: che sia l’Infinito stesso a comunicarsi. E, infatti, la libertà
infinita attira a sé la libertà finita, ma lo fa non direttamente, bensì
attraverso beni (realtà) particolari. Ogni realtà, ogni bene particolare, è
allora il segno prezioso (la realtà è segno!) che apre la libertà finita a
quella infinita.
A nessun osservatore attento sfugge che, nella nostra società, viene enfatizzato
questo secondo livello della libertà come se fosse tutta la libertà. A questa
riduzione, da una parte, ha collaborato un certo filone del pensiero cattolico
che non ha tenuto adeguatamente conto del desiderio ontologico (amor naturalis)
e ha considerato la libertà come "indifferenza davanti alle varie possibilità di
scelta". Dall’altra, la considerazione della libertà come "assenza di legami",
tipica della nostra epoca, ha favorito l’esaltazione del libero arbitrio
separandolo dal cammino verso il fine ultimo.
Considerare il libero arbitrio (secondo livello della libertà) come se fosse
tutta la libertà vuol dire, in ultima istanza, farla annegare in una serie
indefinita di soddisfazioni finite che non compiono il desiderio originario
(primo livello) dell’Infinito (terzo livello).
Così, per esempio, se ti innamori, questa donna - cioè un bene amabile - accende
il tuo desiderio. Se tu la scegli e lei ti sceglie, è in realtà l’Infinito che
ti chiama attraverso il volto amato. Se tu non prendi in considerazione questo
terzo fattore, ti impedisci la totalità, cioè il per sempre e - presto o tardi -
non solo l’amore, ma purtroppo anche la tua umanità si spegnerà.
6. Enigma e dramma
Guardando alla nostra esperienza umana elementare abbiamo dato fin qui una
risposta a tre domande fondamentali: cos’è la realtà?, "ed io che sono?", come
si esplica l’umana libertà?
Rendendo ora più acuto il nostro sguardo possiamo cogliere nel paradosso uomo,
ad un tempo, un enigma e un dramma. Il termine enigma significa (nel suo etimo
greco) parlo copertamente ed indica, perciò, un nodo da sciogliere.
In che senso io sono un enigma? È evidente: lo sono perché esisto, ma non ho in
me la ragione ultima del mio esistere. Ieri non c’ero, oggi ci sono, domani non
ci sarò. Sono un essere che non ha in sé il proprio fondamento. Più enigma di
così! Questa natura enigmatica segna l’io nel suo essere e nel suo agire. In
ogni circostanza, in ogni rapporto, in ogni atto l’io si rivela, nello stesso
tempo, capace di infinito, ma esposto alla finitezza. E si rivela così proprio
dentro le situazioni vitali in cui ogni giorno le tre polarità (tensioni)
costitutive (anima-corpo; uomo-donna; individuo-società) si fanno sentire. Non
c’è bisogno di fare troppi esempi! (La malattia, l’urto delle libertà in
famiglia, le incomprensioni negli ambienti, ecc.) Chiamo questa esperienza
dramma, nel senso greco della parola (drao, faccio, agisco). È quindi l’enigma a
rendere drammatica l’esistenza. Ma c’è differenza tra enigma e dramma. È
importante notarlo! Infatti, se anche esistesse soluzione all’enigma dell'uomo,
questo non toglierebbe mai il dramma che, inesorabilmente, accompagna ogni atto
della nostra esistenza
Per esplicitare fino in fondo il mio pensiero consentitemi un’anticipazione: io
sono convinto che Cristo scioglie l’enigma dell’uomo ma questo non significa che
Egli ne pre-decida il dramma. Anzi, in un certo senso, lo radicalizza,perché
vivere ogni circostanza e rapporto - in cui già il dramma si manifesta - in Gesù
Cristo mi chiede, in più, di dire sì o no a Lui.
Sulle questioni capitali fin qui brevemente delineate (realtà, io, libertà), che
svelano la natura enigmatica e drammatica dell’uomo, abbiamo chiamato a
confronto due posizioni umane. Qui l’anti-tipo Prometeo e il tipo Cristo giocano
la loro credibilità di fronte all’umanità di oggi, quasi sfinita sotto il peso
di un volere solitario che rende la vita sogno. Come si gioca questa
credibilità?
Prima di rispondere direttamente a questa domanda dobbiamo compiere un altro
passo, proprio per prendere sul serio la questione dell’enigma e del dramma
dell’uomo. E questo ci è possibile solo considerandolo nella sua storicità
effettuale. Già lo abbiamo fatto dal punto di vista del singolo parlando dell’io
in azione, sempre storicamente situato. Conviene ora considerare più da vicinola
dimensione socio-culturale della storicità umana. Ciò ci conduce a guardare in
faccia taluni tratti della cultura oggi dominante. Inoltre, proprio perché mai
il dramma dell’io e della comunità può essere deciso a priori (pre-deciso),
questi fenomeni socio-culturali invadono anche la vita delle comunità cristiane
e le mettono alla prova, costituiscono cioè - in senso evangelico - una
tentazione.
7. Spiritualismi
Per quanto possa sembrare strano - anche in molti ambiti cristiani - si predica
e si pratica in modo massiccio una spiritualità disincarnata, così che Cristo
non è più l’evento centrale, ma diventa un pretesto per l’elaborazione di un
proprio personale cammino verso il divino. Ciò che in questo caso è condannabile
ovviamente, non è il personale, ma è il disincarnato, cioè il fatto che simili
itinerari spirituali non prendano sul serio il metodo (la logica)
dell’incarnazione, con il quale la Trinità stessa ha voluto comunicarsi a noi in
Cristo Gesù. L'affermazione di Gesù "Io sono la via" viene vanificata, ridotta -
nei fatti - ad un puro modo di dire
L’esistenza in Cristo, intesa come vocazione e come missione, perde così il suo
ancoraggio al concretum sacramentale e si smarrisce perché, come dice acutamente
l’imperativo kierkegaardiano, "Se Dio si è fatto uomo, allora tu devi" anzitutto
misurarti con questo dato.
A ben vedere questo stato di cose rivela l’incapacità di cogliere la logica
dell’incarnazione che passa attraverso il segno (logica sacramentale).
I seguaci di Gesù d Nazareth furono liberamente e pazientemente accompagnati dal
Maestro a cogliere la Sua divinità attraverso la Sua umanità: "In tal modo la
sua umanità appare come ‘il sacramento’, cioè il segno e lo strumento della sua
divinità e della salvezza che egli reca: ciò che era visibile nella sua vita
terrena condusse al Mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua
missione redentrice".
Questa affermazione è di capitale importanza perché il cristiano viva
l’appartenenza ecclesiale in libera corrispondenza filiale al Padre attraverso
il dono sacramentale dello Spirito di Gesù Cristo. Nella logica
dell’incarnazione ogni circostanza (evitabile ed inevitabile), ogni rapporto
umano, ha forza di segno sacramentale. In ogni circostanza e in ogni rapporto
Cristo accade alla mia libertà provocandola all’adesione o al rifiuto Senza
pre-decidere per me, Cristo offre alla mia libertà - aperta all’infinito ma
incapace strutturalmente di conseguirlo da sé - la possibilità di essere
liberata.
Senza i sacramenti in senso stretto (in particolare l’eucarestia) come
esperienza della Chiesa in quanto sacramento radicale, non si impara la forma
sacramentale (di segno) propria di ogni circostanza e di ogni rapporto; ma, fin
che non si sperimenta nel quotidiano la logica sacramentale propria di ogni
circostanza e di ogni rapporto, non si ha esperienza di Cristo come evento, che
libera la mia libertà chiamandola al coinvolgimento con sé. E non si riesce a
cogliere fino in fondo quale dono grandioso siano i sacramenti e, soprattutto,
l’Eucaristia: corpo donato e sangue versato! Viviamo nella carne! E San Giovanni
ci ammonisce: "Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne"
è Spirito da Dio, altrimenti è lo spirito dell’anticristo.
A questo ordine di considerazioni si potrebbe a prima vista obiettare: come si
può parlare di spiritualismo in un tempo come il nostro, in cui il corpo è
esaltato oltre ogni limite?
Attenzione: è esaltato un corpo separato dalla totalità della persona! Il corpo
che non è più il segno (sacramento) di tutta la persona. E, infatti, l’utopia
salutista oggi dominante concepisce, in un certo senso, il corpo secondo la
modalità propria della medicina moderna.
Più come Körper (cadavere) che come Leib (organismo vitale). In
quest’ottica, per il medico l’atto diagnostico per eccellenza è,
paradossalmente, quello dell’anatomo-patologo che verifica sul cadavere la causa
esiziale (di morte). Allo stesso modo l’infinita sequenza dei riti salutistici
con cui la società dei consumi ogni giorno di più ci sollecita per promettere
l’eternità di questo corpo mortale, lo separa (lo astrae) dalla totalità
dell’io. Ma, se il corpo non è più segno (sacramento) di tutta la persona, esso
perde il suo significato. Il corpo infatti è principio di individuazione della
persona umana e di relazione all’altro. Se è assolutizzato (astratto) diventa
invece fattore di alienazione da sé e di separazione dall’altro. Affiora, così
una visione antropologica piatta, non drammatica, in cui la polarità costitutiva
di anima-corpo va perduta.
8. Androginismo
Con questa affermazione siamo in grado di comprendere un altro fenomeno
socio-culturale oggi assai diffuso che rappresenta una "tentazione" per noi
cristiani. Mi riferisco all’androginismo (dal greco andrós, uomo e gyné, donna):
una considerazione dell’uomo come bisessuato, come capace di entrambi i sessi
È la conseguenza del fatto che la mentalità oggi dominante (il clima culturale)
ha smarrito il senso del mistero nuziale inteso, da una parte, come intreccio
indissolubile di differenza sessuale, amore e fecondità e, dall’altra, come
l’insieme articolato delle forme dell’amore (a partire da quella della
sponsalità intratrinitaria per giungere a quella cristologica, a quella
ecclesiologica e a quella propria della relazione salvifica tra l’uomo e Dio, ma
anche fino a ricomprendere, abbassandosi, la dimensione sessuale del livello
intracosmico) che sempre implicano, in modo diverso, i fattori propri della
nuzialità uomo-donna (analogatum princeps dell’amore sponsale).
Un’affermazione icastica di Balthasar dice l’essenza concreta del mistero
nuziale: "L’atto dell’unione di due persone nell’unica carne [che implica
differenza sessuale ed amore] ed il frutto di questa unione [fecondità]
dovrebbero essere considerati insieme, saltando la distanza nel tempo".
L’eclissi del mistero nuziale sta producendo la tragica illusione che la
sessualità possa essere ridotta a pura opzione. Ciascuno avrebbe la possibilità
di situarsi, quanto alla sfera sessuale, a seconda di quella che considera la
scelta più corrispondente alla propria sensibilità personale. In ultima analisi
si viene quindi a dire che eterosessualità, omosessualità e transessualità non
sarebbero che libere opzioni lasciate all’individuo: ecco l’androginismo!
Senza poter in questa sede entrare nella delicata questione della relazione tra
natura e cultura, che pure è strettamente connessa al tema del corpo
sacramentale e senza neppur voler sfiorare le grandi questioni etiche, connesse
a queste tematiche (che giustamente la Chiesa, nel suo magistero,
incessantemente richiama nonostante l’impopolarità cui va incontro), si deve
affermare con forza che anche l’androginismo rivela una incapacità di assumere
il corpo come segno sacramentale di tutta quanta la persona (quindi manifesta,
come lo spiritualismo, un’incomprensione radicale della logica
dell’incarnazione). L’astrazione di una simile posizione - che alla fine non
solo non risolve, ma accentua il dramma personale facendolo spesso sfociare in
tragedia - dipende dal non saper pensare fino in fondo la differenza sessuale.
La differenza sessuale, infatti, mette in campo l’alterità, ma non come qualcosa
di esterno all’io, bensì come l’espressione della sua capacità di essere per
l’altro che è - come abbiamo visto - il proprium della libertà umana. Ebbene,
questo dialogo io-tu è impossibile, tra uomini, senza un corpo individuato fin
nello specifico della sua insuperabile differenza sessuale.
La differenza sessuale è infatti un dato originario e non derivato. È parte
dell’imago Dei e perciò nell’uomo-donna si dona una corrispondenza tra sguardo (Litz)
e volto (Anlitz), tra immagine e contro-immagine.
La differenza sessuale in nulla può ridurre l’identità personale dell’uomo e
della donna, né può giustificare discriminazioni di sorta. Può solo condurre
all’effettiva e profonda valorizzazione di ciò che questa stessa differenza dice
come possibilità di compimento dell’identità personale di ciascuno dei due. Ed
essa dice reciprocità, ma reciprocità asimmetrica, proprio perché esprime in
profondità l’autodeterminazione della libertà dell’uomo e quindi, in ultima
analisi, è un segno rivelatore della stessa differenza ontologica. È data così
nella differenza la ragione della fecondità.
L’androginismo, abolendo di fatto la differenza, pensa l’uomo-donna come due
metà strutturalmente incompiute, condannate alla ricerca di una fantasiosa unità
originaria. Sull’onda della beffa aristofanea del Convito di Platone o sulle ali
della doppia creazione - di origine gnostica - dell’uomo celeste asessuato
contro l’uomo terrestre sessuato. In questa illusoria prospettiva il riunirsi in
"uno" delle due metà costituirebbe il compimento dell’io: invece - secondo me -
sarebbe soltanto il luogo di una falsa pace mortale. In questo modo l’unità
duale di uomo-donna va perduta e con essa la possibilità di una antropologia
veramente adeguata.
Tra l’altro, nell’orizzonte antropologico androgino, si perde di vista la
circolarità (circumsessione) degli stati di vita del cristiano che mostra come
la dimensione nuziale (o sponsale) sia essenziale alla verginità e viceversa.
Ecco aprirsi un compito decisivo per noi cristiani: testimoniare come colui che
è chiamato alla verginità compia fino in fondo la nuzialità della propria
persona e, nello stesso tempo, come chi è chiamato al matrimonio viva la
dimensione verginale come coessenziale alla sua vocazione.
Mi ricordo che Balthasar, più di una volta, ritornò con me su questo tema. Egli
era convinto che il matrimonio, propriamente parlando, può essere vocazione solo
laddove, attraverso l’indissolubilità vissuta come il segno visibile del
rapporto Cristo Sposo-Chiesa Sposa, fa eco alla dimensione verginale
dell’esistenza. Implica cioè quel possesso nel distacco (geniale affermazione di
Luigi Giussani) che connota la verginità come vocazione.
9. Dualismo pubblico-privato
Una terza tentazione che il mondo di oggi insinua nella comunità cristiana è
rappresentata da un radicale dualismo tra dimensione personale e dimensione
sociale dell’agire (dualismo privato-pubblico). Esso, insorto a partire dalla
modernità, si è radicalizzato nelle democrazie occidentali dopo la seconda
guerra mondiale. La moderna evoluzione del diritto, forse dopo la rinascita del
giusnaturalismo (Grotius, Pufendorf), ci può offrire una chiave di lettura di
questo processo. Questa evoluzione, infatti, è alla base della separazione, nel
campo dell’etica, fra la libertà personale e la libertà civile o giuridica, una
separazione importata dal campo del diritto. La dicotomia è legata alla
concezione moderna dello Stato, basata sulla convinzione che la radice della
convivenza sociale può essere solo un contratto, vincolato di solito ad un
sistema convenzionale. Locke, Hobbes e Kant, in un certo senso, hanno
radicalizzato questa visione. Questo dualismo rifiuta la concezione aristotelica
dell’Etica a Nicomaco (che san Tommaso riprese all’inizio della Secunda Pars
della Summa Theologiae), secondo la quale l’azione dell'uomo, in quanto agente
razionale, deve essere considerata partendo dalla vita intesa come un tutto e,
quindi, ordinata secondo i fini e i beni che la caratterizzano essenzialmente.
Questa impostazione permetteva di intendere la condotta umana come pratica di
una vita buona, fatta di comportamenti personali e sociali con rilevanza privata
e pubblica e senza artificiose separatezze tra individuo e comunità. E la stessa
riflessione socio-politica (filosofia morale) poteva essere pacificatamente
intesa come filosofia pratica di tale condotta.
Oggi, invece, ci troviamo davanti ad un’immagine dell’etica pubblica
contrapposta all’etica cosiddetta privata, fedele riflesso della divisione
esistente fra libertà personale e libertà civile e giuridica. Un’etica pubblica
sempre più formale e basata solo sulle norme, dalla quale si esclude, come
osserva giustamente McIntyre, la dimensione della virtù, abbandonata al puro
arbitrio di un individuo pensato come separato dalla società.
Si produce una dialettica insanabile fra la sfera dell'interesse soggettivo e il
campo delle esigenze morali obiettive, creando una artificiosa opposizione tra
desiderio e compito, tra volere e dovere.
Facciamo qualche esempio. Nell’ambito della famiglia constatiamo questo dualismo
nell’opposizione tra il desiderio di paternità e di maternità, da una parte, e
il figlio come soggetto personale capace di autonomia socio-giuridica,
dall’altra. Il figlio non viene più considerato come un frutto gratuito
dell’amore dei coniugi, bensì come un oggetto sottoposto alla volontà sovrana
dei genitori.
Sia nella coscienza individuale che nell’immaginario collettivo (come si vede
nelle legislazioni approvate dalle democrazie cosiddette avanzate), il figlio ha
perso rilevanza. Se non è desiderato si ricorre all’aborto. Se invece esistono
problemi per procrearlo, tutto è permesso, purché venga soddisfatto il desiderio
soggettivo dei genitori (basti pensare alla fecondazione artificiale che
trasforma il figlio in oggetto di un processo produttivo).
Un secondo esempio è la dicotomia tra economia e diritto. Non è necessario far
riferimento al dibattito, particolarmente attuale e presente in tutte le società
occidentali, sullo stato di benessere (Welfare), per riconoscere che il rapporto
fra diritti ed economia sta attraversando oggi un grave conflitto.
Paradossalmente la riduzione sempre più accentuata dei diritti della persona
alla sfera dell’individuo, conseguenza di una lettura formalistico-kantiana
della regola d’oro "non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te", può
spiegare questo conflitto. Sostenere, infatti, i diritti della persona
svincolando la libertà di coscienza (che si pretende assoluta) dal suo
necessario riferimento alla verità, finisce di fatto col favorire la logica
della riduzione di ogni bene in termini di denaro e di mercato, che diventano le
chiavi per interpretare qualsiasi desiderio-necessità dell’uomo. In questo
contesto, i diritti fondamentali finiscono per essere rilevanti solo in quanto
si riferiscono alle necessità alle quali il mercato è in grado di rispondere in
termini monetari.
Da questo punto di vista, il conflitto fra economia e diritti presuppone
un’ulteriore radicalizzazione della dicotomia fra libertà personale e libertà
civile che è a sua volta riflesso della separazione fra pubblico e privato.
Dal punto di vista politico, infine, assistiamo alla dialettica fra forme
utopistiche non conclamate (segnate dall’ideologia, soprattutto marxista) ed una
sorta di ideologia pragmatica del mercato come modalità di affermazione
egoistica dell’io, del proprio gruppo o lobby, della propria nazione, del
proprio popolo o della propria zona di influenza mondiale (nord-sud).
In questa dicotomia fra privato e pubblico risulta chiaro che la cultura
moderna, al di là della sua insistenza radicale sul soggetto, è incapace di
offrire le ragioni della polarità costitutiva individuo-società ed ha perduto di
vista la polarità uomo-donna.
Oltre che attraverso il discorso antropologico fondamentale sull’unità duale e
le polarità (corpo-spirito, uomo-donna, individuo-società), crediamo che sia
possibile recuperare l’unità fra sfera privata e sfera pubblica se si privilegia
l’attenzione per i corpi intermedi e, in particolare, per la famiglia. Qui si
apre alla comunità cristiana una prospettiva esaltante: testimoniare, attraverso
concrete forme di vita, che la comunione è un principio di organizzazione
materiale dell’esistenza, la quale ruota intorno alle due dimensioni costitutive
dell’io: affetti e lavoro.
10. Il Risorto: l’uomo riuscito
Possiamo ora tornare all’alternativa contenuta nel titolo, aggiungendo qualche
tassello conclusivo al mosaico delle due posizioni umane indicate.
Prometeo è incatenato, come Cristo è crocifisso, per compassione degli uomini.
Ma radicalmente diversa è la loro compassione, perché radicalmente diverso è il
gioco delle loro libertà in rapporto alla realtà.
In Prometeo la libertà è spesa tragicamente come indomabile volere solitario,
nella contrapposizione a Zeus, il padre-padrone. Egli così non scioglie l’enigma
dell’uomo.
In Cristo la libertà è amore perché, in Lui, essa si compie (totalità), per il
tenace vincolo dello Spirito, come adesione del Figlio al Padre.
Nella sfida contro Zeus Prometeo ha voluto compromettersi con gli uomini,
violando il codice supremo del dio precristiano, inevitabilmente separato e
disinteressato al loro destino: "Un dio non entra in relazione con un uomo",
scrive Platone. Nonostante lo sforzo generoso del semi-dio Prometeo la sua
persona e la realtà restano immerse in una negatività minacciosa, simboleggiata
dalla definitiva perdita di libertà dell’eroe incatenato. E la stirpe degli
uomini resta non salvata, impigliata nella doppia inconsistenza, della realtà e
dell’io, entrambi fragili come un sogno. Prometeo è, per finire, solo un
velleitario antagonista di Zeus.
Il Risorto, invece, è il protagonista. Egli radicalizza il significato della
tragedia prometeica; cioè assume, senza edulcorarlo, il drammatico destino di
ogni uomo. Come? Nella tragedia della croce.
Tuttavia, l’ignominia della croce già si stempera nella pietà elargita al genere
umano di Maria che accoglie nelle sue braccia il cadavere di Gesù, per poi
lasciar spazio alla vittoria del Risorto sulla morte e sul suo Autore. "Morte
sarò la tua morte. Morte dov’è il tuo pungolo?". Così sono travolte tutte le
potestà ed infine il principio personale del male, il Demonio, che - pur avendo
il potere di mobilitare le potestà che a vario titolo bloccano l’umana libertà -
non può disporre se non di risorse negative, ultimamente incapaci di qualunque
costruzione. Solo l’essere per l’altro compie l’io. Questo è ciò che al demonio,
per essenza, non può riuscire.
Nell’estrema impotenza del Crocifisso il Padre rivela la Sua onnipotenza. Il
Risorto rivela agli uomini che il Padre li ama e li vuole come figli nel Figlio;
perciò travolge ogni negatività, anche quella del peccato, rendendosi loro
familiare proprio con l’offerta totale di sé nel suo vero corpo: caro cardo
salutis.
Il Risorto manifesta così l’autentica struttura delle cose, quella di essere
segno rivelatore del Padre che chiama l’uomo ad entrare in una compagnia
definitiva con Lui. La realtà, così, emerge nella sua indistruttibile positività
("Tutto coopera al bene di coloro che amano Dio"). E’ vero lo stupore carico di
godimento che avverti di fronte ad un bel tramonto, al volto amato, ad una prova
superata...
La realtà non è sogno; essa è segno del Padre che giustamente la liturgia
definisce rerum tenax vigor, il tenace vigore dell’essere.
Il Risorto è l’uomo pienamente riuscito che, in totale libertà, può aderire
all’appello che il Padre - il cui volto è misericordia - gli rivolge attraverso
la realtà.
In Lui l’enigma dell’uomo è definitivamente risolto: l’uomo non ha in sé il
fondamento del proprio esistere, ma - nella sequela del Risorto - impara che
esiste perché un Padre lo vuole fin dall’origine e lo accompagna fino alla
felicità compiuta.
Il Risorto ci indica il cammino attraverso il quale la nostra libertà, scelta
dopo scelta, trova nella grazia la stabilità personale delle polarità che la
costituiscono.
La tensione originaria anima-corpo trova tutto il suo significato nella verità
della risurrezione della carne, frutto della morte di Cristo. Più felicità e
compimento di così! "Io risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvatore". Tutto
l’uomo è salvato e fin da ora il corpo diventa sacramento di tutto l’uomo. La
polarità uomo-donna si lega al mistero della relazione Cristo-Chiesa, dove
l’amore nuziale non solo trova la sua forma completa, ma allo stesso tempo è
liberato dal suo nesso con la morte. E questo sia perché in Cristo la morte è
stata vinta, sia, e più precisamente, perché Cristo inaugura una nuova forma di
fecondità che non si identifica con la procreazione umana: la sponsalità
verginale. Infine, la tensione individuo-comunità trova il suo punto di
stabilità nell’esperienza della comunione e, soprattutto, nel suo culmine: la
communio sanctorum, poiché nella comunione ecclesiale l’uomo incontra la
missione che compie il volto della sua persona. In questo modo, la comunità
lungi dall’essere un ostacolo, diventa l’ambito nel quale la libertà viene
sostenuta.
11. Decidere per la realtà
Come questo amore sconfinato può farsi credibile ai nostri occhi, prima ancora
che a quelli degli altri? Non certo prendendo la scorciatoia del volere
solitario che produce solo inganni: quello spiritualista, quello androgino e
quello del dualismo pubblico-privato.
Bisogna imboccare la strada maestra della libertà, dove l’io non teme la realtà
e trattiene il dramma con le sue inevitabili polarità (tensioni) perché sa per
esperienza diretta personale e comunitaria, che il dramma non è l’enigma, ma la
strada agonica della felicità.
"Riconosco ciò che è bene, lo approvo e faccio ciò che è male" (Video meliora,
proboque deteriora sequor) diceva già il poeta pagano. Consapevole del peccato
originale, Paolo aggiunge: "C’è in me una forza per cui non faccio il bene che
voglio, ma il male che non voglio".
Può una libertà fragile e ferita affrontare questo dramma? Sì, se si lascia
liberare seguendo Colui che, liberamente, si è donato a noi come perfetta
espressione dell’amore incondizionato della Trinità. La fede non è magìa, perché
implica, sempre, una decisione. Alla fine si deve scegliere tra Prometeo e il
Risorto. E questo tocca a me, tocca a te, tocca a ciascuno di noi.
L’atto che stiamo compiendo ora - quello che ognuno di noi compirà tra un
istante, uscendo da qui - è certamente provocato dalle circostanze, ma queste,
in quanto segno dell’essere infinito, chiamano in causa, improrogabilmente, la
libertà di ciascuno. Sia che lo vogliamo, sia che non lo vogliamo, in ogni atto
la realtà impone di decidere. Non si può non decidere per la realtà!
Qui tu divieni attore (co-agonista) del dramma sulla scena del gran teatro del
mondo Tu, solo tu: niente è pre-deciso per te e nessun altro luogo può decidere
al tuo posto. A te quindi, amico, la scelta! Chi vuoi seguire: Prometeo o il
Risorto? E in ogni atto la tua libertà è raggiunta dalla drastica alternativa
evangelica: che giova guadagnare il mondo intero se poi perdi te stesso?
La drammaticità di questa opzione non è però quella di un volere solitario. Ci è
stata data una compagnia che regge e corregge la nostra libertà, subissandola,
da tutte le parti, nell’amore ("Pietro, mi ami tu?"). La compagnia di Maria, dei
santi, della santa Chiesa di Dio, la quale, per grazia, ci è venuta incontro in
una comunità sensibilmente espressa e guidata al destino.
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