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La concezione del lavoro nel mondo antico

 

La presente relazione non vuole, né potrebbe, avere un carattere esaustivo dell’argomento, ma solamente proporre alcune tracce di lettura delle fonti, che possano poi essere sviluppate in modo più organico. È mia intenzione toccare i seguenti punti:

 

1.  Ipotesi di fondo, a partire dalla parola stessa ‘lavoro’ nel mondo classico;

2. Status quaestionis sull’argomento e analisi di alcune fonti;

3. Prospettive per un ampliamento e un approfondimento

 

1. Il mondo antico presenta una molteplicità di termini indicanti l’idea di “lavoro” e “lavoratore”, ma forse nessuno di essi contiene in sé la ricchezza di significato che noi oggi diamo a queste parole, e che comprende tanto la fatica dolorosa, quanto la realizzazione e redenzione dell’uomo lavoratore e della natura stessa. I termini greci πόνος e latino labor (v. F.M. De Robertis, Lavoro e lavoratori nel mondo romano, Bari, 1963,. pp. 9-18, citato in C. Mossé, Il lavoro in Grecia e a Roma, Firenze, 1973, p.135; R. Mondolfo, Polis lavoro e tecnica, Milano 1982, p. 92; J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Torino 1979) sono carichi di negatività, in quanto contengono l’idea di “pena, fatica, sofferenza”. Altri termini sono o “troppo forti” o “troppo deboli”, in quanto indicano o un’attività economica specifica (faber, structor, τέκτων) “o l’applicazione attiva con il suo risultato” (opus, opera, con il loro derivato operarius), ma sempre in senso generico. Il concetto di “laboriosità, capacità di fare”, in senso più positivo, si trova forse nei sostantivi ἔργον (o ἐργασία) e nei loro derivati (Atena stessa era definita Ἐργάνη), o nelle parole τέχνη e  τεχνίτης,  alla quale ultima corrisponderebbe all’incirca artifex in latino. Nel mondo greco, i termini βάναυσος e   βαναυσία indicavano poi il più profondo disprezzo per l’opera di alcune categorie di persone. Concetti particolari sono inoltre quelli di otium, col suo opposto negotium, e σχολή.

Questo brevissimo esame lascia intravedere di per sé un duplice atteggiamento che il mondo antico aveva nei confronti del lavoro: la sottolineatura della fatica e del dolore, impliciti nell’esperienza stessa del lavoro (sottolineatura passata anche nelle lingue moderne, nell’it. lavoro, fr. travail, sp. trabajo. ted. Arbeit, ecc.), ma necessari per ottenere un risultato positivo e concreto, e la considerazione spregiativa delle attività produttive umane.

 

2. Il dibattito tra gli studiosi contemporanei si è soprattutto sviluppato intorno ad alcuni problemi, che cercherò di enucleare:

 

a. Platone e Aristotele furono i principali responsabili della svalutazione dell’attività lavorativa nel mondo greco e del disprezzo:verso le attività manuali in genere, definite βαναυσίαι (v. a questo proposito P.M. Schuhl, Formation de la pensée grecque, Paris 1949, e B. Farrington, Storia della scienza greca, Milano 1964).

b. G. Glotz, (Le travail dans la Grèce ancienne, Paris 1920) aveva già notato però che, nella concezione del lavoro, occorre osservare la non-uniformità delle fonti, a seconda dell’ambito cui appartengono, la polis ad amministrazione oligarchico-militare, o quella democratico-industriale, (se cosi si può dire): in quest’ultima i cittadini erano, di fatto, lavoratori, e il lavoro era considerato generalmente in modo molto positivo.

c. Le ragioni del disprezzo verso il lavoro sono state individuate, soprattutto da R. Mondolfo, (La valutazione del lavoro nella cultura classica, in Polis..., pag. 94 sgg.), in due particolari condizioni sociopolitiche createsi nel mondo greco: la diffusione della schiavitù, a partire dal VI-V sec. a.C., e il militarismo di regioni come la Laconia e Sparta.

d. Conseguenza diretta del giudizio negativo sul lavoro manuale è il fenomeno chiamato dallo Shuhl “blocage mental”, vale a dire incapacità di progresso tecnico, sia nel campo dell’agricoltura, sia in quello dell’artigianato e piccola industria, e di sviluppo pratico di quelle elaborazioni teoriche cui il mondo antico era arrivato, per esempio con Archimede, Erone, Eudosso, ecc. D’altra :parte, questa “stagnation téchnologique” viene analizzata e contestata da varie parti, per es. da M.I. Finley, L’economia degli antichi e dei moderni, Bari 1973-74, p. 160-62, e da studiosi marxisti, come M. Venturi Ferriolo, Polis... introd. p. 29.

e. La scuola marxista (A. Smith, Ricchezza delle nazioni, Torino 1945, p. 75, 6l8, 349) è da ricordare, per aver elaborato alcuni giudizi (o, con il Finley in La civiltà greca si basava sul lavoro degli schiavi? in Marxismo e società antica, Milano 1977, a cura di M. Vegetti, e il Mondolfo, si potrebbe dire pregiudizi), quali per esempio l’affermazione che “la società antica si basava sul lavoro degli schiavi”, e che “gli schiavi non erano inventivi, in grado di apportare miglioramenti meccanici al lavoro”, né “i popoli schiavisti lo furono” (v. H. George, Progresso e povertà, Torino 1981, p. 622); si tratta spesso di studiosi socialisti dell’economia dell’800-900, e non di specialisti del mondo antico; anche il Finley affronta il problema della schiavitù antica è moderna in QS, 7, 1978, Schiavitù antica e moderna, Napoli 1979, a cura di L. Sichirollo. Una elaborazione più recente, e più interessante, è quella di D. Lanza-M. Vegetti, Marxismo e società, per i quali il lavoro fondamentale del cittadino antico era in realtà la politica, tanto che la polis tende a tenere quel luogo che in altri sistemi viene occupato dalle forze di produzione; la politica tende ad assuimere la funzione dei rapporti di produzione.

Non è possibile in questa sede un’analisi esauriente ed approfondita di tutte le fonti inerenti all’argomento; mi limiterò ad accennare alcuni punti fondamentali, tenendo presente che, nonostante le fonti appartengano in gran parte al mondo greco, una radicale distinzione (od opposizione) tra mondo greco e romano a mio avviso non sussiste. Piuttosto esistono sfumature di pensiero e di condizioni politico-sociali che determinano un quadro molto mosso e variegato, ed impediscono giudizi generalizzanti o ideologici. La poesia arcaica, greca e latina, non conosce disprezzo per l’attività lavorativa e per chi la pratica: al contrario, anzi, il lavoro umano è considerato il mezzo per eccellenza che consente di raggiungere la propria dignità. A questo proposito sono chiarissimi i passi di Hes. Op. 311-319, nei quali il rifiuto di lavorare è immediatamente associato alla vergogna e alla povertà: αἰδὼς οὐκ ἀγαθὴ κεχρημένον ἄνδρα κομίζει, v. 317 (cfr. v. 311). Anche in Omero, specie nell’Odissea, ritroviamo tale visione positiva: gli eroi non disdegnano di fabbricarsi gli oggetti necessari: Ulisse si costruisce una zattera (V, 243) e dimostra di essere capace di arare i campi (XVIII, 365/380). Penelope fila e tesse (II, 94 sgg), e persino il porcaio Eumeo riceve l’epiteto di δῖος.

Sull’amore al lavoro, la φιλοπονία, potremmo citare molti passi tratti dai tragici (Sof. fr. 287 N, 365 N, 395 N2) e dai comici (Menandro, fr. 93, 191, Dyskolos fr. 5); Prodico il sofista cita Esiodo, Op. 285, ed Epicarmo, Mem. II, 1, 20. L’apprezzamento dei poeti per il lavoro è però condizionato: non tutte le attività umane sono ugualmente onorevoli, ma una è la fondamentale, la cultura dei campi. È ad essa che Esiodo invita ripetutamente il fratello Perse, Op. 298-301, non all’artigianato o al commercio; che a queste due attività fosse associato un pregiudizio sfavorevole si può cogliere da un passo dell’Odissea, VIII, 161-64, 178-79, dove Ulisse è disprezzato da uno dei Feaci come mercante, vile e incapace di battersi.

È utile ricordare allora quegli autori che in epoca classica o post-classica si fecero portarori di una concezione negativa della τέχνη: Senofonte, Oecon. 4,2-3, disprezza, denominandoli βάναυσοι, quegli artigiani che “sono costretti a passare tutto il giorno in officina, rovinando il corpo e non potendo occuparsi degli amici e della città”. Platone, Gorg. 512, riconosce l’utilità pubblica dell’ingegnere che costruisce macchine belliche, ma lo inserisce tra i “vili meccanici” e rifiuta di entrare in una qualsia si parentela con lui. Aristotele, Pol., II, 1253 b, afferma che “lo schiavo è una proprietà animata, e qualsiasi esecutore di ordini è, come strumento, il primo degli strumenti”, teorizzando così la schiavitù come fatto di natura, e la riduzione del lavoratore a mero strumento di lavoro - non più quindi un essere umano con la sua dignità.

Di fronte a questa discordanza di vedute, una possibile via d’uscita, che ne indichi almeno le cause, ci è già in parte indicata da alcuni autori antichi. Erodoto, II, 166, 168, distingue chiaramente fra le civiltà e le πόλεις a carattere oligarchico-militare e quelle a carattere democratico-commerciale, notando che in molte parti del mondo mediterraneo e della Grecia, specie a Sparta, i lavori manuali sono proibiti ai cittadini, i quali si occupano solamente della politica e della guerra; a Corinto, invece, i χειροτέχναι sono tenuti in onore. In Atene, Tucidide fa dire a Pericle (ΙΙ, 40) che fra tutti popoli solo gli Ateniesi ritengono possibile, e anzi desiderabile, che il cittadino si occupi sia dei propri affari personali, sia di quelli pubblici: “Noi Ateniesi consideriamo il cittadino estraneo agli affari come un essere inutile”. D’altra parte, come è possibile che Pericle, nei suoi discorsi, idealizzasse Atene, così anche Senofonte, aristocratico e filolaconico, si fa talora portatore di concezioni più aperte, probabilmente per influsso  di Socrate: Oecon. 7, 22 (Tutti devono lavorare, uomini e donne), Memor. 1,2,19,57 (Ozioso è chi non fa nulla o fa del male). Il medesimo influsso positivo Socrate dovette esercitarlo anche su Platone, quando quest’ultimo afferma la necessità per l’uomo, nella sua interezza, di un lavoro tanto materiale (es. ginnico) quanto fisico: Resp. 504 d (Non si deve lavorare meno nello studio che nella ginnastica), Resp. 3, 405 d-408 b; in Resp. 535 d, Platone esige da chi voglia dedicarsi alla filosofia la φιλοπονία, giungendo così a proporre un concetto unitario di uomo e di cultura.

Per quanto concerne, poi, il pensiero aristotelico, è interessante notare che neppure esso è uniformemente negativo, ma riporta tutte le attività umane, compreso il lavoro, alla dottrina delle cause, per cui la τέχνη acquista un suo specifico peso, rispetto  all’ἐμπειρία, per il fatto che colui che pratica la τέχνη ricerca e conosce le cause di ciò che fa. L’empirico invece si limita a constatare un fatto particolare, senza riportarlo all’universale cui è legato. Quindi il τεχνίτης o l’ἀρχιτέχνων, inseriti mediante il loro ragionamento (λόγος) nella ricerca delle cause, possiedono non solo una semplice τέχνη, ma, per così dire, una vera ἐπιστήμη (v. Metaph. I, 1).

La valutazione del lavoro presso i Romani, come già accennato, non fu troppo diversa da quella che ne diedero i Greci. L’accento fu messo, anche qui, sul lavoro agricolo, che viene presentato da Catone, nella prefazione al De Agricultura, come l’attività più onesta e più sicura, in contrapposizione al commercio, troppo pericoloso (e qui sembra di risentite Esiodo) e all’usura, immorale e punita per legge. Del resto, dall’agricoltura Viri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur; il guadagno da essa ricavato è pius, stabilissimus, minimeque invidiosus.  La  stessa valutazione positiva e anzi entusiastica dell’agricoltura è data da Cic. de off.  42, 150-51, ma in questo caso essa è associata alla riprovazione pressoché inappellabile di tutti gli altri mestieri, definiti illiberales e sordidi. Il passo in questione ci permette di comprendere però anche la ragione di questo pregiudizio, là dove Cicerone usa il termine mercennarii, e merces auctoramentum servitutis: il lavoro manuale, da cui l’artigiano o l’operaio riceve un profitto, discredita la persona che lo compie perché la pone in condizione di dipendenza dai compratori; il guadagno non è legato a un fattore sicuro, stabile, ma a condizioni esteriori, variabili, indipendenti dal volere dell’artifex. Quest’ultimo quindi si trova in una condizione di vita permanentente precaria, tende a “imbrogliare” per sopravvivere, a lavorare duramente e più a. lungo di quanto competa a un uomo libero (cfr. Senofonte).

La condizione del contadino invece potrebbe essere definita dalla parola greca αὐτάρκεια: egli basta  a se stesso, non ha bisogno di procurarsi il sostentamento in altri modi; è persino in grado di costruirsi gli arnesi di lavoro, la casa, le vesti, e come Ulisse, la zattera. Le condizioni economiche e sociali sono certo cambiate in Grecia dai tempi antichi, di Omero ed Esiodo, e a Roma dai tempi di Catone il Vecchio, ma l’ideale di autarchia è continuato per i tutta ila civiltà greco-romana provocando una differenziazione sociale di mestieri e costituzioni civili e politiche (v. A. Aymard, Gerarchia del lavoro e autarchia individuale nella Grecia antica, Études d’Histoire ancienne, PUF, Paris 1967).

Rimane da ricordare un ultimo aspetto: il lavoro è una dura necessità, cui l’uomo deve sottoporsi, ma tale dovere non è privo di ragioni: gli dèi, per loro espressa volontà, hanno privato l’uomo dei mezzi di sussistenza, facendolo decadere dalla mitica età dell’oro ad una condizione di regresso e di dolore. A questo proposito possiamo introdurre ancora Es., Op. 42-46; Aesch., Prom. 442-477;  Verg. Georg. I, 121-135. Tuttavia l’obbligo del lavoro non è visto sempre e solamente come un castigo, o come una malvagità imperscrutabile: per Virgilio, ad esempio, mediante il lavoro l’uomo può sviluppare e migliorare le proprie capacità, che altrimenti, mai sollecitate, intorpidirebbero e verrebbero meno. Virgilio usa proprio il verbo torpere (gravi torpere veterno v. 124); afferma che il lavoro è improbus, ma vincit omnia (146); l’egestas spinge gli uomini a vincere la natura stessa, inventando adeguati strumenti. Lucrezio descrive, per contro, le terribili condizioni di vita degli uomini primitivi, che non avevano ancora elaborato le diverse arti e relazioni sociali (925-961).

3. In conclusione, potremmo riconoscere nell’esperienza del mondo classico, per quanto concerne le capaci tà dell’uomo in questo campo, l’intuizione del lavoro come di una dura necessità, a cui l’uomo, costretto, si piega, ma non in modo passivo e rassegnato, bensì cercando in esso una sua personale dignità anche intellettuale, e l’autonomia dal bisogno materiale. D’altra parte, questa concezione non è stata sempre sviluppata fino alle sue estreme conseguenze, anzi, a mio avviso, molto più spesso è stata soverchiata da una visione pessimistica e, in fondo, aristocratica, che finiva per teorizzare la scissione fra intelletto e corpo, fra θεωρεῖν e πράττειν,  relegando ogni attività manuale fra gli aspetti secondari e spregevoli della vita umana. Sarebbe interessante poter verificare quanto le condizioni sociopolitiche e lo svilupparsi della schiavitù abbianο influito su questo modo di concepire il lavoro, e  quale possa essere stato, per esempio, l’apporto del Cristianesimo ad un diverso modo di pensare e di praticare il lavoro (si veda a questo proposito il giudizio espresso dalla Laborem Exercens, II, 6 p. 122-23, ed. Ancora, sul concetto di “Lavoro” nell’età antica). La curiosità che in me è nata, infatti, dopo questa breve relazione, è proprio quella di poter seguire ed esaminare, per esempio attraverso la lettura dei testi dei padri della Chiesa (del tutto ignorati dalla bibliografia da me esaminata) quel travaglio che si compì in Europa a partire dall’epoca imperiale e che condusse alla fioritura del monachesimo benedettino e poi alla nascita dell’Europa medievale.

 

 Maria Consuelo Cristofori

 

Nelle immagini:  1. Atena supervisiona i lavori di costruzione della nave Argo (terracotta da Roma, ca. I sec. d.C., ora a Londra, British Museum); 2. pittura parietale raffigurante due schiavi che preparano da mangiare (circa 50-75 d.C.: ora a Santa Monica, Getty Museum)

 

 

 

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