Metodo Oerberg Ho letto in vari forum sul mondo classico accenni alle valenze positive e negative del metodo Ørberg per l'insegnamento del latino. Personalmente io avevo fino a qualche tempo fa alcune perplessità, che sono essenzialmente di tre tipi: - Una invincibile diffidenza (scusate, è il nostro limite) verso il latino cosiddetto vivo: il latino delle opere filosofiche di Cicerone non fu mai praticato al di fuori della tradizione letteraria più elevata: se vogliamo rifarci alla lingua realmente usata nell'antichità dobbiamo prendere in considerazione altri testi, che presentano una lingua ben diversa (per esempio le iscrizioni di Pompei); - L'uso del latino vivo finisce per dare un'eccessiva importanza all'aspetto linguistico, facendo passare in subordine il fatto che lo studio del classico oggi deve avere un'impostazione fortemente culturale e unitaria, in cui lo studio della lingua (indispensabile strumento interpretativo della cultura) deve trovare un giusto momento di equilibrio rispetto allo studio della "letteratura" (nel senso complessivo di civiltà letteraria: come la intendeva Lana, per intendersi); - Non riesco a concepire uno studio delle lingue classiche che non si ponga in una prospettiva anche metalinguistica (analisi, riflessione, penentrazione in profondità delle strutture morfologiche e sintattiche, studio complessivo del sistema linguistico e delle sue potenzialità e non solamente di singoli suoi "pezzi"), con tutte le ricadute positive che questo ha anche sull'italiano e sulla lingua straniera: ho l'impressione che col metodo Ørberg si facciano quegli errori che sono consueti nella prassi didattica delle lingue moderne, per cui si impara che "what's your name" significa "come ti chiami", trascurando che le due frasi sono sì equivalenti dal punto di vista semantico, ma sono strutturate in modo diverso e presentano elementi diversi, che vanno puntualmente analizzati. Queste le mie perplessità. Resta però il fatto che ho sentito alcuni amici e colleghi insegnanti in ginnasio che si professano entusiasti del metodo dopo averlo usato per alcuni d'anni (alcuni anche avendolo usato obtorto collo, perché subentrati in classi in cui il precedente insegnante aveva già adottato i testi). Addirittura sento parlare di studenti che dopo due anni di latino sono in grado di leggere quasi a prima vista e senza l'aiuto di un dizionario un libro di un'opera filosofica di Cicerone o una commedia di Plauto. A questo punto vorrei cercare di capire qualcosa di più, e chiedo a chi ha un'esperienza diretta del Ørberg (o perché l'ha usato o perché ne ha valutato le potenzialità in maniera non superficiale) di aiutarmi a darne una valutazione serena e obiettiva, nei suoi pregi e nei suoi limiti. Ringrazio in anticipo tutti coloro che vorranno collaborare per una più piena comprensione di uno strumento didattico di cui oggi si parla con sempre maggiore frequenza. Vi preghiamo di lasciare la vostra e-mail (così da poter eventualmente stabilire un contatto diretto) e qualche dato sulla vostra esperienza didattica. Ci riserviamo di pubblicare sulla rivista eventuali interventi di particolare interesse "pubblico". Grazia in anticipo! |
Moreno Morani |
mercoledì 17 settembre 2003 - 11.28.59 |
sul metodo natura Un caro saluto a tutti i colleghi e in particolar modo a Giulia Regoliosi che mi ha invitato a partecipare a questo forum appena nato. Sono Stefano Rocca, insegnante di italiano e latino al triennio del Liceo scientifico. Ho adottato il metodo Ørberg e sono il moderatore del mailing-list “LatinitasViva”, che istituzionalmente si occupa di questa metodologia didattica. Rispondo volentieri a Moreno Morani che ha evidenziato tre questioni critiche. Parliamo innanzitutto di metodo “natura” e non “naturale”. Il metodo “natura”, infatti, ha il suo perno nell’organizzazione sistematica delle norme e morfologiche e sintattiche che gli studenti apprendono non astrattamente, ma solo quando ricorrono all’interno di un contesto linguistico. Il metodo “naturale”, invece, prescinde da tali norme e punta tutto sulle competenze attive della lingua, che si acquisiscono attraverso il parlato. La prima obiezione riguarda la diffidenza verso il latino vivo: non si ha alcuna pretesa di far rivivere un “sermo cotidianus” di cui abbiamo perduto se non tutto, almeno la maggior parte. Il latino che possiamo possedere (e che i nostri studenti, soprattutto, devono conoscere) è quello cristallizzato nelle opere letterarie e quello che noi parliamo è prima di tutto una lingua artificiale. Di questo si erano già resi conto pienamente i grandi umanisti ed Erasmo in testa. La seconda obiezione riguarda l’eccessiva importanza che si darebbe all’aspetto linguistico a discapito di altre valenze formative, che sono legate allo studio dello sviluppo delle civiltà. Io credo che l’obiettivo dell’insegnamento del latino sia di fornire gli strumenti culturali per accedere ad una civiltà che è alla base della nostra. Questo possesso si può acquistare solo acquisendo gli strumenti per decodificare il pensiero antico, che ci è stato trasmesso attraverso le parole. Il metodo di insegnamento tradizionale, retaggio della scuola germanica ottocentesca, non consente di ottenere più risultati soddisfacenti perché non crea competenze adeguate. Nel migliore dei casi gli studenti si affannano a studiare regole astratte che poi non sanno applicare perché non hanno l’abitudine a leggere latino. Essi, in effetti, devono acquisire in cinque anni ciò che noi insegnanti abbiamo potuto assimilare in almeno sette/otto anni di studio. La terza obiezione riguarda la necessità della riflessione metalinguistica, su cui mi trovo pienamente d’accordo. Il metodo Ørberg non esclude questa riflessione, anzi la richiede in modo molto netto. Imparare ad usare la lingua attraverso lo studio di capitoli che, in una storia continuata, discorrono di fatti di vita quotidiana di una famiglia romana (il primo volume del corso, “Familia Romana”) obbliga gli studenti a consolidare una rigorosa conoscenza della morfologia e della sintassi, che pretendo dai miei allievi come l’”Ave Maria”. Se non si raggiunge questo, lo scopo del corso fallisce, poiché il rischio è quello dell’approssimazione, che non produce buoni frutti. Piuttosto è importante far tesoro degli insegnamenti della didattica breve e sfrondare ciò che non è strettamente necessario. Penso ad esempio all’interminabile serie di regole ed eccezioni della terza declinazione che possono essere facilmente ridotte. Del resto il corso “Lingua Latina per se illustrata” ha come obiettivo quello di rendere gli studenti consapevoli delle sfumature linguistiche, grazie alle quali il significato di sintagmi apparentemente equivalenti è funzione del loro contesto. Io uso il metodo da cinque anni e i risultati ottenuti sono assai soddisfacenti. È ipotizzabile che studenti che nel biennio abbiano studiato con il metodo Ørberg passino al triennio ad insegnanti che adottano il metodo tradizionale e questo non crea difficoltà o scompensi. Viceversa passare dal metodo tradizionale (normativo), nel biennio, a quello “natura” nel triennio non è in alcun modo possibile, poiché muta radicalmente la prospettiva di studio: con il metodo natura, infatti, le regole non si apprendono in astratto per poi applicarle, ma, al contrario, sempre e soltanto a posteriori, dopo che di un certo fenomeno linguistico gli studenti hanno trovato diverse occorrenze nel corso della narrazione. Lo studio del lessico (specie di quello frequenziale) è fondamentale. Qualcosa di più definito sul metodo si può leggere nella mia piccola pagina domestica all’indirizzo: http://space.tin.it/scuola/strocc/index.html Per ora mi fermo qui e auguro a tutti una felice serata! Cordialmente Stefano Rocca "De quo nihil dici potest, id tacendum est" (L. Wittgenstein, "Tractatus logico-philosophicus") |
Stefano Rocca | domenica 21 settembre 2003 - 19.13.30 |
metodo Oerberg Ritengo molto interessante avviare un confronto e una discussione sul "metodo Oerberg" ovvero sul "metodo natura" nella didattica del Latino. Insegno Latino da trent'anni e mi sono sempre interessata alle questioni della didattica di questa disciplina, soprattutto perché da sempre mi sono resa conto degli scarsi risultati a cui porta il metodo tradizionale di tipo grammaticale-traduttivo, anche sulla base dell'esperienza del mio personale itinerario di apprendimento di questa lingua (e del greco antico). Ad un certo punto (una decina di anni fa) sono venuta a conoscenza del metodo Oerberg e ho iniziato a studiarlo a fondo. Ora sono diventata un'entusiasta sostenitrice, come si può vedere anche da alcuni articoli di illustrazione del metodo stesso che ho pubblicato su riviste di didattica (INSEGNARE e SILVAE). A mio giudizio, la questione centrale è l'uso attivo del latino (con fine didattico), cosa ben diversa dall'uso del "latino vivo". Ritengo infatti che la sola pratica dell'uso passivo, cioé della traduzione, non porti a buoni risultati: infatti normalmente dopo 5 anni di studio gli studenti traducono testi brevi e non molto impegnativi con il determinante ausilio del dizionario, quindi senza personale soddisfazione e con scarsa utilità culturale. L'importante è prendere dimestichezza con la lingua, leggendo testi ampi di comprensione immediata, graduati con accorta calibratura, nell'ottica di "leggere per comprendere" e poi eventualmente tradurre e non di tradurre per comprendere. L'acquisizione di questa competenza porterà a poter leggere con personale soddisfazione testi ampi, godendone i valori letterari e culturali. Resta fermo che non si deve trattare di un superficiale "orecchiamento", ma di una lettura formalmente (cioè morfosintatticamente) consapevole. A mio giudizio i manuali di Oerberg suggeriscono un'ottima prospettiva di lavoro didattico a livello metodologico, sulla base della quale l'insegnante può creare anche moltissimi altri percorsi di lettura, spaziando nell'amplissimo patrimonio di testi in latino (classici, medievali e moderni, di argomento letterario, giuridico, storico, scientifico, religioso ecc.) per familiarizzare quanto più possibile i giovani con questa lingua, come ci ha illustrato Luigi Miraglia, a cui va il merito di aver fatto conoscere questo metodo in Italia, in un recente seminario (Lonigo 6-7/9/03). Tutto questo per dire che, a mio giudizio, l'obiettivo dell'insegnamento del latino è l'acquisizione della capacità di comprensione dei testi, perché solo attraverso la lettura dei testi in lingua originale si può penetrare nella visione del mondo di una civiltà di cui conosciamo soprattutto le opere scritte. Rosa Elisa Giangoia |
Rosa Elisa Giangoia | lunedì 22 settembre 2003 - 22.12.30 |
Metodo Ørberg Raccolgo l'invito di Moreno Morani a partecipare a questo forum, anche se non sono un insegnante di lettere classiche, bensì di lettere e filosofia (ma faccio parte del PRISMA, Progetto per la rivalutazione dell'insegnamento e dello studio del mondo antico, un'associazione dove sono presenti numerosi colleghi di lettere classiche con i quali spesso ho avuto modo di intrattenere conversazioni su questo e altri problemi, benché i miei fossero contributi da mero dilettante), cosa che non mi ha peraltro impedito di occuparmi anche di linguistica e lessicografia. Penso di non esprimere un'opinone originale (sono in buona compagnia da Pasquali a De Mauro) se rilevo che la grammatica insegnata come fine a sé stessa e con metodo pedantesco, finalizzato all'apprendimento soprattutto delle eccezioni, e con negligenza per l'apprendimento del lessico, produce pochi frutti. Luigi Miraglia, che ha introdotto in Italia il metodo Ørberg, così si esprime in un articolo reperibile anche in rete (http://www.vivariumnovum.it/micromega.htm ): «Come si studia ancora oggi il latino? Si parte dalla morfologia, dopo aver perso un paio di settimane a spiegare (?) l'alfabeto, la pronunzia (generalmente senza nessun accenno alla restituta, che, volentibus nolentibus nobis, è adottata dalla quasi totalità degli Europei), e le regole dell'accento (che si basano fondamentalmente sulla quantità della penultima sillaba: ma poiché docenti e discenti spessissimo non sanno se questa sia lunga o breve, gli errori nella lettura, perpetrati a tutti i livelli, dal ginnasio all'Università, continuano a far rabbrividire chi abbia un minimo di orecchio esercitato all'ascolto della lingua rettamente pronunziata); si comincia a studiare così, ex abrupto, il sistema dei casi, come se si trattasse della cosa più facile del mondo, e li si studia tutti insieme; anzi, in verità si studiano anche i casi inesistenti, come il vocativo, che potrebbe benissimo essere considerato un'eccezione della seconda declinazione. Dopo aver imparato a memoria la prima declinazione — questa cosa strana, che il ragazzo non aveva mai sentito prima, e che gli risulta completamente estranea — gli si assegna sei, sette, massimo dieci frasi di grande interesse contenutistico, del tipo "Le ancelle portano rose e viole sugli altari di Diana e di Atena", oppure "La sapienza e l'operosità degli abitanti sono la gloria della Grecia" , tutte slegate tra di loro, poi si passa a studiare le "eccezioni", e via alla seconda declinazione; stesso procedimento; terzo capitolo: "Degli aggettivi di prima classe, ovvero come imparare a confondersi declinando in orizzontale ciò che si è fino ad ora imparato in verticale"; quarto capitolo:"Della terza declinazione, ovvero come rendere difficili le cose facili" . A questo punto il ragazzo ha già ceduto le armi, e si è convinto che il latino non è, né è mai stata una lingua: si tratta di un mero esercizio senza senso, disperante e frustrante, nel quale si sta ore ad imparare a memoria schemi e tavole grammaticali, per poi giocare ad un rompicapo da Settimana enigmistica, con la lieve differenza che, se non si riesce a risolvere la sciarada ci si becca un bel due e la patente da imbecille nel distribuire la quale in genere gli insegnanti non lesinano. Intelligenti ed acuti sono invece considerati quegli alunni ben preparati che imparano a memoria che ravis, ravis vuol dire "la raucedine" ed esce in -im all'accusativo e in -i all'ablativo, assieme a buris, is, "il manico dell'aratro", e un'altra sfilza di nomi che non troverà mai se non nel suo libercolo di esercizi; profondi sono quelli che rimangono affascinati da una lingua che viene a loro presentata attraverso la traduzione di frasi come quella che ci fa sapere l'interessantissima notizia che "i generi areranno le terre dei suoceri", e così via. Quando si passa alla sintassi — come se poi esistesse realmente la possibilità di scindere la morfologia dalla sintassi — la situazione peggiora irreparabilmente. Il ragazzo impara volta per volta costruzioni, elenchi di verbi, strutture, maniere di formare le proposizioni che regolarmente dimentica, nel migliore dei casi dopo una settimana, perché, oltre che nelle sei-dieci frasette assegnategli per casa, non ha più occasione di incontrarne esempi, se non per puro caso e dopo troppo tempo. Apprende una massa di cose inutili alla comprensione del testo, e funzionali solo ad una ormai —per buona ventura— inesistente traduzione italiano-latino ("come si traduce il verbo fare seguito dall'infinito"; "Verbi fraseologici italiani che si sopprimono in latino", "come si rende in latino l'idea del futuro anteriore in una proposizione dipendente", ecc.), comincia ad infettarsi di quella coniunctiitis professoria che, diceva il Pasquali, infierisce tra i docenti italiani "più che il tracoma nei più sudici borghi arabi", e fa sì che "Cicerone in Italia sarebbe forse bocciato alla maturità classica". Il risultato di tutto questo processo didattico è che al ragazzo non rimane nulla dell'insegnamento del latino —e tantomeno del greco, dove i disastri sono ancora peggiori — tranne un odio feroce e vatiniano nei confronti di una disciplina che lo ha tormentato per anni senza che potesse mai avere il piacere di leggere correntemente una pagina non dirò di Cicerone, ma neanche del banalissimo Eutropio. Si immagini cosa succederebbe in un qualsiasi conservatorio, se per anni e anni si studiasse solo solfeggio e teoria musicale, e non si avesse mai l'occasione di ascoltare un brano di Bach, di Beethoven, di Mozart, di Vivaldi: si pensi quale amore si potrebbe infondere nei giovani aspiranti musicisti, se si vietasse addirittura loro di riprodurre, suonando, i pezzi classici, e se si eliminasse del tutto la cattedra di Composizione musicale. Non c'è dubbio che si sortirebbe il medesimo effetto che si ottiene ogni giorno nelle nostre scuole di latino: disgusto, odio, avversione per la materia dinanzi alla porta d'accesso al santuario della quale, come diceva il Bally, è stata disseminata un'impressionante quantità di trabocchetti, di fossati, di barriere, ed ogni linea del cui studio "nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio"». Parimenti il linguista ed ex ministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro: «Dai professori di latino e dal latino la coniunctivitis ora si è estesa alle giornaliste e ai giornalisti in cerca di lamentele che facciano colpo, come la assai presunta morte del congiuntivo in italiano. Sul latino direi che nessuno più infierisce. Ma questo lasciar da parte il latino non è solo un buon segno. Già nei primi anni cinquanta, nel "Mondo", Guido Calogero denunziava il dissidio tra la retorica panlatinistica, di facciata, del ceto dirigente italiano e la pessima conoscenza del latino di ragazze e ragazzi e, ancor più, di adulti con tanto di liceo classico alle spalle. Ed Evaristo Breccia aggiungeva per soprammercato l'analisi di compiti di insegnanti di latino ed Ettore Paratore l'analisi di compiti di aspiranti letterati che, per esempio, dinanzi a un passo di Machiavelli sulla battaglia del Trasimeno dove si dice "in questo lago sono più pesci che in mare", in molti tradussero "in hoc lacu sunt pisciores quam in mari". Non so se sia mai esistito il cosiddetto glorioso liceo classico che alcuni dicono di rimpiangere. Certo già nei primi anni cinquanta non esisteva più come struttura con omogenei rendimenti di alto livello» (Carlo Bernardini-Tullio De Mauro, "Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture", Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 86-87). Ciononostante, penso che le perplessità espresse dal prof. Morani siano fondate, soprattutto la terza. Peraltro, proprio un intelligente combinazione della seconda e della terza esigenza dovrebbe portare a una riflessione sui fatti linguistici che non degeneri in sterile grammaticalismo, ma che permetta invece di finalizzarli alla comprensione della letteratura e della cultura. Cosa che, peraltro, aveva già capito Seneca: «Qui grammaticus futurus Vergilium scrutatur non hoc animo legit illud egregium fugit inreparabile tempus: 'vigilandum est; nisi properamus relinquemur; agit nos agiturque velox dies; inscii rapimur; omnia in futurum disponimus et inter praecipitia lenti sumus': sed ut observet, quotiens Vergilius de celeritate temporum dicit, hoc uti verbo illum 'fugit'» (Epistulae, XVIII, 24). In conclusione, penso che con un sano pragmatismo io direi: un metodo si giudica dai suoi risultati; se davvero gli allievi di Miraglia sono in grado di leggere Cicerone all'impronta dopo due anni di metodo Ørberg, non vedo perché ci si debba ostinare a difendere il metodo tradizionale. Forse per alimentare il mercato delle ripetizioni di latino e greco? Sempre che il metodo Ørberg funzioni realmente applicato da tutti gli insegnanti: è questa la mia riserva principale, perché probabilmente l'insegnante dovrebbe avere lui stesso una competenza anche attiva e non solo passiva del latino. Se così non fosse, e se il metodo Ørberg producesse di per sé solo i risultati vantati da Miraglia, bisognerebbe davvero obbligare tutti gli insegnanti ad adottarlo e buttare alle ortiche i metodi tradizionali. So comunque di una tesi di laurea sul metodo Ørberg, discussa a Roma "La Sapienza", mi pare con la prof. Maria Grazia Iodice. Sembra che in questa tesi, di cui mi ha parlato un collega del PRISMA, vengano valutati anche i risultati oggettivi di discenti che hanno appreso il latino con il metodo Ørberg confrontati con quelli che l'hanno appreso con i metodi tradizionali. I primi sarebbero in leggero vantaggio, ma molto dipende dalla qualità intrinseca degli insegnanti: banalmente anche un buon metodo con un cattivo insegnante fallisce, sebbene non sia così pacifico (anzi...) che un buon insegnante ottenga buoni risultati con un cattivo metodo; ma penso che questi siano assiomi pedagogico-didattici ormai diventati senso comune. Teo Orlando |
Teo Orlando | martedì 30 settembre 2003 - 22.53.26 |
Ancora sull'Ørberg Dice molto bene il collega Teo Orlando quando scrive che l’insegnamento del Latino “dovrebbe portare ad una riflessione sui fatti linguistici che non degeneri in sterile grammaticalismo, ma che permetta invece di finalizzarli alla comprensione della letteratura e della cultura”. Infatti ciò che il metodo Ørberg consente è di evitare quell’illogico passaggio che conduce lo studente dalla norma alla lingua, in quanto oggetto principale della riflessione didattica e delle relative strategie è sempre e soltanto la lingua, dalle cui occorrenze si deduce la grammatica. È fondamentale dunque che il metodo Ørberg sia realmente applicato. Intendo dire che esso sia previsto in un curriculum in cui tale insegnamento sia impartito a studenti che non abbiano avuto contatti istituzionali con il metodo tradizionale e che partano dal ginnasio/biennio a pensare alla lingua Latina “secondo natura” e cioè dal suo interno. Dopo un simile inizio i risultati non possono mancare, ma è molto vero che la riforma nella didattica deve essere radicale, pena il fallimento dell’impresa. Cordialmente Stefano Rocca |
Stefano Rocca | giovedì 2 ottobre 2003 - 21.28.50 |
Ancora su metodo Ørberg Buon sera! Riprendo rapidamente il filo del discorso che ieri sera ho lasciato in sospeso. Mi pare produttivo che ci si domandi come sia possibile che, dopo due anni di corso (più realisticamente, diciamo dopo tre anni), gli studenti acquisiscano mediamente competenze tali da assicurare la comprensione di Cicerone. L’aspetto qualificante del metodo Ørberg è il fatto che esso consente di studiare il sistema morfologico-sintattico della lingua latina, mettendo da parte l’impalcatura normativa delle grammatiche tradizionali. Le competenze necessarie per comprendere un passo latino si consolidano perché gli alunni si trovano quotidianamente di fronte a testi graduati che affrontano sempre a partire dal contesto. Sono condotti dall’insegnante, poco per volta, dopo aver compreso tale contesto, a dedurre regole generali, che, però, (e qui sta la vera novità) non si studiano astrattamente, ma solo perché si sono rinvenute nei testi e solo nella misura in cui quel contesto le richiede. Sono questi i motivi fondamentali che mi rendono convinto della necessità di un’applicazione integrale del metodo Ørberg. Percorsi di una didattica eclettica, o peggio del “fai da te”, che pure dà libero corso all’estro creativo di ciascun singolo insegnante, in questo campo snaturano la “Lingua Latina per se illustrata”. Il punto di vantaggio di Ørberg sta tutto nel processo di riflessione sulla lingua a cui sono condotti i discenti: i risultati migliori sono assicurati dal fatto che finalmente si elimina quella pericolosa “grande divisione” tra grammatica (sempre un “a priori”) e lingua, sulla cui base noi stessi abbiamo imparato il Latino. Quella didattica, che poteva fare affidamento sui tempi lunghi di un’acquisizione meditata e profonda, serviva a creare capacità di organizzazione razionale del pensiero ed era finalizzata a consolidare competenze attive nell’uso della lingua. Se mettiamo da parte finalmente quella dannosa opposizione, possiamo tentare di ricostruire quell’unità dell’atto linguistico, grazie alla quale dai vari parlanti un’”emendata Latinitas” deduciamo le regole generali di un corretto esprimerci. Cordialmente Stefano Rocca |
Stefano Rocca | venerdì 3 ottobre 2003 - 17 |
Metodo Oerberg Sull'ultimo numero di Zetesis pubblichiamo un articolo sul metodo Oerberg, frutto di una prima inchiesta realizzata in licei della provincia milanese tra insegnanti che usano tale metodo nel lavoro didattico: chi vorrà intervenire con ulteriori contributi è invitato a farlo. Inviateci materiale e giudizi! Vorremmo avviare una discussione ancora più ampia e ricca su questo metodo. |
Redazione | domenica 25 gennaio 2004 - 9.27.22 |
Ørberg Cari colleghi, Non ho ancora potuto leggere l’articolo di cui si scrive qui perché non è ancora arrivato il fascicolo, ma sono molto interessato alla discussione. Ho pubblicato diversi articoli sull’argomento e concludo quest’anno il mio primo ciclo completo (dalla prima alla quinta Liceo scientifico) rationibus Ørbergianis adhibitis. Sono naturalmente a vostra disposizione! Cordiali saluti Stefano Rocca e-mail: sterocc@tin.it |
Stefano Rocca | lunedì 16 febbraio 2004 - 9.28.34 |
A che scopo? Salve.Mi hanno molto colpito le preplessità del prof. Morani, visto che da tempo io stesso mi sto ponendo domande simili. Insegno allo Scientifico e utilizzo l’Oerberg da due anni, sia al biennio, sia al triennio. Quanto al biennio, osservo che il metodo funziona con le persone linguisticamente dotate e motivate, cioè con la minoranza di coloro che si iscrivono allo Scientifico. Per tutti gli altri, invece, si impone quasi subito l’urgenza di sistematizzare, di fare ordine, di ricorrere all’esercizio mirato e all’ausilio di una grammatica tradizionale (i ragazzi, ad un certo punto, hanno realmente “fame” di schemi). Tuttavia, mi pare che, con le dovute integrazioni, Familia Romana possa funzionare. Quanto al triennio, confesso di trovarmi spiazzato. Roma Aeterna finisce per diventare “l’unico latino”; si leggono pagine e pagine di un Virgilio riassunto, di un Livio “modificato”; per due, per tre ore settimanali si fanno ripetere frasi fatte (c’è chi ci riesce magistralmente!) e si mendica qualche sillaba dalla maggioranza dei ragazzi, che, poverini, si sforzano anche (ma non varrebbe la pena di chiedere loro qualche esercizio più intelligente?) Del resto, spendere il tempo leggendo pagine e pagine di un latino vero o presunto, significa limitare drasticamente, se non eliminare, l’approfondimento culturale, la riflessione metalinguistica. Dunque, mi sto chiedendo che cosa sia più utile per i ragazzi. Intuiscono, certo, “orecchiano”, capiscono il senso globale… e poi? Paradossalmente, mentre nello studio della letteratura italiana cerchiamo di dotarli delle necessarie categorie interpretative (quelle per cui un autore può diventare inaspettatamente interessante), con questo metodo le diamo per scontate: si recitano capitoli di Cesare (o di Sallustio), presumendo che i ragazzi possano “da soli” collocarlo nel conteso adeguato, capirne le intenzioni, apprezzarne lo stile, la personalità, le idee. In sostanza, l’esercizio linguistico diventa fine a se stesso. Queste le mie perplessità. Tuttavia, confesso che quell’idea di leggere molto e di parlare “in latino” per acquisire familiarità con la lingua, mi lascia un lontano fondo di curiosità (io stesso ho promosso con alcuni colleghi un incontro settimanale in cui ci ritroviamo a parlare “in latino”); mi chiedo, tuttavia, se tale idea sia realmente applicabile nella quotidianità dell’insegnamento. Saluti, Diego Toigo |
Diego Toigo | mercoledì 21 aprile 2004 - 15.43.09 |
strategie didattiche del metodo Ørberg
Caro Diego Toigo, Le tue riflessioni sono particolarmente interessanti, specie quando pongono l’accento su quella che tu chiami la fame di schemi dei nostri studenti. Il metodo Ørberg procede anche attraverso il sussidio di simili strategie didattiche al fine di far acquisire la grammatica e la sintassi. Deve essere sfatata l’idea che questo nostro metodo prescinda dalla sistematizzazione morfo-sintattica ed anzi una delle caratteristiche più forti di esso è il fatto che non possiamo in alcun modo tralasciare una simile acquisizione solida e radicata (come “l’Ave Maria”). La marcia in più offerta da un simile corso è che quello che nel metodo tradizionale viene presentato astrattamente e come tale poi applicato, qui viene studiato all’interno di contesti linguistici da cui si deducono le persistenze linguistiche. Di qui deriva la sua scarsa esportabilità in classi che abbiano già iniziato a studiare seguendo il tradizionale metodo normativo. Cordiali saluti Stefano rocca |
Stefano Rocca | giovedì 22 aprile 2004 - 21.26.32 |