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Ciclo primavera 2021. Secondo Sabato di Zetesis

  27 marzo 2021, ore 17/19

 
Lettura del primo stasimo delle Baccanti di Euripide: resoconto degli interventi.
 
Inno a Hosìa

 

-          Questo sabato ha caratteristiche un po’ diverse dagli altri. Invece di leggere un testo non usuale nella scuola, abbiamo scelto un testo noto, generalmente letto almeno in traduzione, spesso anche in lingua se le Baccanti sono la tragedia adottata per l’anno di maturità. E’ pur vero che la parte di una tragedia letta in lingua si è molto ridotta, e capita spesso che si tenda ad evitare i brani corali, vuoi per motivi linguistici vuoi per seguire la trama con i versi disponibili.

-          La scelta di questo brano nasce dal desiderio di osservare il passaggio di un genere, quale l’inno, all’interno di un altro genere, di cui mutua metro e dialetto. Abbiamo preso in considerazione diverse ipotesi, come testi lirici e brani di poesia ellenistica: la preferenza per questo testo è nata, come già si è avuto occasione di dire, dal rapporto fra Dioniso e Demetra (la dea degli altri due inni prescelti), entrambi datori di doni utili alla vita degli uomini ma anche terribili nelle punizioni se osteggiati.

-     Lo stasimo si apre con un’invocazione a Ὁσία, secondo l’uso dell’inno. Si tratta di una personificazione, anzi divinizzazione, di un sentimento, o un atteggiamento. Ci sono altri esempi in Euripide: nell’Oreste (v. 398 seg.) è chiamata “dea” Λύπη, mentre nelle Troadi Φθόνος è equiparato al genio malefico Ἀλάστωρ e a Θάνατος come dèì padri di Elena al posto di Zeus. Qui però Ὁσία non è solo divinizzata, ma invocata, e chiamata πότνα θεῶν, quindi con un posto privilegiato: a lei si chiede di giudicare Penteo e il suo colpevole atteggiamento verso Dioniso.

-     Poiché caratteristica usuale di un inno è l’elencazione degli aspetti salienti del dio, eventualmente esemplificati con una o più vicende, ci aspetteremmo lo stesso riguardo a Ὁσία. Invece dal v. 378 inizia l’elenco delle caratteristiche di Dioniso, con uno spostamento da un dio all’altro. E’ stato osservato che l’espressione ῝Ος τάδ᾿ ἔχει, inserita fra versi di linguaggio molto alto, pare banale e pedestre: ma in realtà serve a segnare un passaggio, cioè l’inizio dell’inno vero e proprio che ha Dioniso come tema.

-       Si pone la questione del significato di ὅσιος. Benveniste nel Vocabolario delle Istituzioni Indeuropee  distingue fra sacro come forza interna e sacro per separazione e come tabu, basandosi sul lessico iranico, greco, latino, germanico. Nella terminologia greca il primo sarebbe ἱερός e il secondo ἄγιος. Ma è una distinzione discutibile. ἱερός  in origine significa “potente” (già in miceneo) e così va interpretato in molti sintagmi, prima di assumere il senso religioso di “appartenente agli dèi”; d’altra parte ἄγιος ha come doppione ἀγνός (“santo, puro”; non si trova in Omero); e soprattutto si aggiunge appunto ὅσιος, dal significato di “conforme alla verità e all’uso, ritualmente puro”: in Omero indica la pietas verso i nemici uccisi (Od. XXII, 412), in Eschilo (Sept.,1010) significa pio nei confronti dei culti patrii. Nell’Eutifrone platonico si discute sul rapporto con δίκαιος, che finisce per essere considerato parte di ὅσιος. Nel linguaggio misterico assume un valore particolare, tecnico: indica i misti, gli iniziati, o anche ciò che è permesso riferire dell’iniziazione (Her. II, 171). Si potrebbe concludere che dal significato di atteggiamento interiore puro si giunge ad un valore affine a ἱερός, cioè “appartenente al dio”

-     Ma che senso ha qui?  Poiché oggi abbiamo a disposizione diverse traduzioni del testo raccogliamo le traduzioni di Ὁσìα. Fede, Sacralità, Santità, Divina Legge, Giustizia divina, Pietà… In alcune edizioni (es., Classici UTET) la traduzione di πότνα θεῶν  con un valore particolarmente pregnante (madre e signora degli dèi) accentua la personificazione e l’identificazione con una divinità specifica (Rea o Cibele, la Magna Mater).

-     Consideriamo alcune traduzioni come scorrette e fuorvianti: “legge divina” o “giustizia divina” non corrispondono al senso, e neppure “fede”. Più corretto nel contesto sembra l’indicazione di un sentimento religioso conforme all’uso, cui si contrappone l’empietà razionalista di Penteo. Si può proporre Pietà, o Santità.

-         D’altra parte la formula generica πότνα θεῶν sembra significare “potente fra gli dèi” o qualcosa di altrettanto vago per definire una divinità, anche personificata, e sembra scorretta l’identificazione con una particolare dea.

-          Uno di noi legge la prima strofe.

-       Per quanto non si ami tradurre in modo generico i pronomi neutri (qui τάδε, 373), è rischioso esplicitarli troppo (es. “queste bestemmie”, come fa uno dei nostri traduttori): meglio lasciare “queste cose” o “queste parole”, anche perché segue subito la più esplicita espressione οὐχ ὁσίαν ὕβριν (374-5). Νotiamo come il sostantivo tanto perspicuo quanto intraducibile ὕβριν aiuta a comprendere il valore dell’aggettivo.  

-      Ci soffermiamo su βότρυος … γάνος … ἐν δαιτὶ θεῶν (382 seg.). La tirata di Penteo terminava con: quando alle donne in un banchetto si dà il succo del grappolo (γυναιξί … βότρυος ἐν δαιτὶ … γάνος, v.260-1), non parlo più di sanità delle feste. Ιl Coro quindi rovescia la negatività del giudizio di Penteo: il banchetto dove si offre il vino è banchetto degli dèi, e l’esito festoso e il riposo è per gli uomini (ἀνδράσι, “i maschi”, 385).

-          Leggiamo l’antistrofe.

Scena Bacchica (N. Poussin)-          Qui il lessico è fondamentale.  L’atteggiamento di Penteo è definito con termini negativi: ἀ-χαλίνων ~ ἀ-νόμου ~ ἀ-φροσύνας; l’esito finale della tragedia è già preannunciato: τὸ τέλος δυστυχία. Ma τὸ φρονεῖν è ambiguo: al v. 390 parrebbe equivalere a σωφρονεῖν, ma più avanti (396) con l’oggetto μὴ θνητὰ ha un significato generico (“pensare”) che l’oggetto specifica.

-     E’ presente l’idea di follia (μαινομένων, 400) e dissennatezza (κακοβούλων, 401): in un contesto in cui il razionalismo appare negativo, l’accusa di follia indica un uso scorretto della ragione. Vale la pena di approfondire il tema della follia, sia come distanza dalla realtà (vedi ad esempio lo scambio di accuse nell’Antigone) sia come dono divino (vedi il Fedro platonico).   

-          Naturalmente è la parola σοφία e l’aggettivo σοφόν a suscitare più interesse e a porre problemi. Qui (395) sono contrapposti: l’aggettivo ha senso negativo, il sostantivo positivo, evidenziando quindi l’ambiguità della radice e dei derivati.  

-     Analoga ambiguità nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (365 seg.): l’uomo ha σοφόν τι τὸ μηχανόεν | τέχνας , ma ora va verso il bene, ora verso il male. E’ chiaro che si tratta di una grande caratteristica dell’uomo, ma rischiosa nel suo uso.

-   Potremmo intendere σοφία come intelligenza pratica, creativa, capace di incidere sulla realtà e modificarla, suscettibile quindi di un giudizio morale.

-          Σοφία  è parola chiave della Medea di Euripide: indica la magia di Medea, ma anche l’abilità retorica e dialettica di Giasone e dei Greci in genere.

-          E’ la parola che nella Bibbia indica la Sapienza creatrice.

-       I derivati σοφιστής (come Ermes chiama Prometeo in Eschilo, 944), σόφισμα, σοφίζεσθαι sono generalmente negativi, mentre σοφία e σοφός variano di senso. Nel contesto delle tragedie di Euripide, allievo dei sofisti, l’ambiguità e il variare di giudizio è particolarmente evidente.

-    Tipico è allora il personaggio di Tiresia, che dice (200) οὐδὲν σοφιζόμεσθα τοῖσι δαίμοσιν: in realtà dà un’interpretazione razionalistica del miracolo della nascita di Dioniso.

-   D’altra parte in una tragedia frammentaria di Euripide, Palamede, il protagonista, geniale inventore ucciso innocente, è definito dal Coro πάνσοφον, un giudizio assolutamente positivo. 

-          Ci proponiamo quindi di approfondire il tema di queste parole nei diversi autori.

-          Altro spunto in questa antistrofe è l’attenzione degli dèi sul comportamento degli uomini.

-       Inoltre la γνώμη dei vv. 397 segg.: vivere il presente senza aspirare a cose troppo grandi. Sembra il tema del carpe diem.

-          Leggiamo l’ultima coppia strofe / antistrofe.

-     C’è un problema testuale al v. 406: il contesto si riferisce chiaramente al Nilo, ma è difficile sostituire Πάφον tràdito. Forse Φάρον.

-        Tutti i luoghi indicati sono quelli in cui essere Baccanti è θέμις (415), diritto garantito dagli dèi a cui si oppone l’illegalità tebana. Ricordiamo che il coro è formato da Baccanti per libera scelta, mentre le donne di Tebe saranno punite con la follia.

-    Il dono di Dioniso si approfondisce, esce dal tema del simposio e assume un valore sociopolitico: pace, crescita dei figli, uguaglianza fra ricchi e poveri.

-         Torna σοφός (428), qui  in senso positivo, contrapposto a περισσῶν.

-      Gli ultimi versi, che riecheggiano le parole di Tiresia ai vv. 201-3, sembrano avvalorare l’interpretazione di Ὁσία come sentimento religioso conforme all’uso, di cui si diceva all’inizio.

-          Naturalmente tutta la tragedia va riletta e ripensata.

-   A mio parere indica da parte dell’autore, di cui è l’ultima tragedia completa, una rinuncia all’ampiezza del suo desiderio sugli dèi: rinuncia all’idea di un dio comprensibile, positivo e moralmente accettabile per scegliere un dio che dà felicità a chi lo accoglie.
-   La lettura dell’inno è un’occasione per ricordare che la tragedia si presta molto bene ad alcune considerazioni storiche e teologiche, basate sul significato dei termini che gli antichi Greci usavano per descrivere i culti misterici. Al verbo μύω ᾿tengo la bocca chiusa, taccio, in onore del dio᾿ si collega il sostantivo μύστης, l’iniziato al culto. Il fedele deve tacere perché il dio che viene possa manifestarsi e parlare. L’insieme delle cerimonie e delle credenze veniva denominato appunto τὸ μυστήριον – preferibilmente al plurale τὰ μυστήρια - . Esaminando i testi dei primi vescovi e teologi  cristiani provenienti dal mondo greco, in particolare dei Padri Cappadoci, notiamo che anch’essi usano questa terminologia per descrivere il Cristianesimo e i suoi riti. I culti eleusini ed i vari misteri pagani non avevano nulla di vero per i Padri cristiani, perchè gli dèi in essi venerati erano “falsi e bugiardi”, ma il vero Dio, che non si manifesta apertamente a tutti, ma solo a chi, iniziato, vuole realmente incontrarLo, genera Lui stesso i veri Misteri, i Misteri per eccellenza:  ed ecco che il termine Ta musthria  viene ad indicare per i Cristiani proprio il Cristianesimo ed i suoi riti.
Questa tragedia  doveva essere percepita come un’opera interessante e particolare dai Cristiani, se, come pare, fu Gregorio di Nazianzo a comporre il Christus patiens (Χριστὸς πάσχων) servendosi di molti versi tratti proprio dalle Baccanti, di cui certo possedeva il testo integro ed originale.


                                                             


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